Ustica: il mare di fango
Gregory Alegi
Un DC-9 dell’Itavia precipita in mare con 81 persone a bordo al largo dell’isola di Ustica, mentre si appresta ad atterrare all’aeroporto di Palermo. L’aereo, proveniente da Bologna, scompare improvvisamente dai radar che seguono il suo volo. Nessun superstite fra i passeggeri e i membri dell’equipaggio. L’intervento dei mezzi di soccorso porta solamente al recupero di alcune salme e del troncone di coda dell’aereo. Il ventaglio delle ipotesi si allarga anche a quella di una collisione con un aereo militare.
Nella zona del disastro era in corso una manovra aero-navale della NATO. Gli americani escludono che un missile partito dalle loro navi o dai loro aerei possa aver abbattuto l’aereo Itavia. L’aeronautica militare viene messa sotto inchiesta. I tracciati di molti radar militari sono introvabili. Un MiG libico è precipitato sull’altopiano della Sila. Potrebbe essere stato abbattuto mentre scortava l’aereo del colonnello Gheddafi diretto in un paese dell’Est il giorno dell’incidente1.
Nella sua stringatezza, il riassunto del giornalista Gianni Bisiach rispecchia con sufficiente esattezza la percezione – tanto diffusa quanto errata – relativa alla caduta del DC-9 I-TIGI la sera del 27 giugno 1980, tragedia che rientra nella grande categoria dei “misteri d’Italia” insieme ad altri casi clamorosi rimasti o considerati irrisolti. Trascinatosi per decenni, il “caso Ustica” ha creato un clima di sospetto e sfiducia intorno all’Aeronautica Militare, alla quale ha inferto un colpo gravissimo in termini di immagine pubblica, di posizione nei riguardi delle altre forze armate, persino di compattezza interna a seguito della costituzione di parte civile del ministero della Difesa. A fronte di questo danno certo, alimentato dai puntuali riflessi mediatici scaturiti da un livello di polemica sempre molto alto, le indagini non hanno purtroppo consentito di identificare quanti causarono la distruzione del DC-9 e la morte di 81 innocenti: l’archiviazione disposta dal giudice istruttore nel 1999 ha lasciato ignoti gli esecutori e i loro mandanti2. L’intreccio delle inchieste susseguitesi nel tempo (tecnico-formale, giudiziaria e persino parlamentare) ha in compenso condotto ad una successione di ipotesi e scenari avanzati da diversi soggetti pubblici e privati, non sempre in accordo tra loro salvo per la diffidenza di fondo per i dati ufficiali e per l’assunto di un coinvolgimento politico di grado elevatissimo in qualche modo “coperto” dall’Aeronautica Militare e dai suoi uomini tramite una complessa opera di depistaggio intorno alla quale – e solo intorno alla quale – ha ruotato il rinvio a giudizio di alcuni generali per l’ipotesi di “alto tradimento”3.
Quando l’esame delle singole posizioni è passato dall’istruttoria ai processi, l’esito è stato in realtà di segno opposto. Dal 2001 numerose sentenze penali di diverso ordine e grado hanno infatti assolto, dichiarato prescritto o archiviato le posizioni di tutti gli accusati, spesso su richiesta dello stesso pubblico ministero4. Il risultato favorevole ai militari e alla forza armata, messa - e a lungo tenuta - sotto inchiesta in ogni sua articolazione centrale o periferica, si colloca, di fatto, all’estremo opposto della metafora del “muro di gomma” che per molti è migrata da titolo cinematografico a vera essenza del caso. Nonostante l’indubbia presenza di occasionali censure a questo o quel comportamento o la sottolineatura dell’opportunità o meno di certe posizioni, i tribunali non risultano ad oggi aver condannato alcun militare né, come si è detto, per il fatto principale né, tanto meno, per quelli collegati.
Il complesso delle risultanze processuali penali delinea dunque un quadro molto diverso da quello stratificatosi nell’opinione pubblica, non solo per il mancato recepimento dell’impostazione accusatoria complessiva ma anche per la progressiva messa a fuoco di molti snodi cruciali del “caso Ustica”.
A quarant’anni di distanza dalla tragedia ciò permette di tracciarne un sintetico bilancio storiografico, come auspicato nel 2005 dalla Corte d’Appello di Roma5, non per individuare chi fu responsabile della morte di 81 persone ma per tentare di comprendere come si sia potuta sedimentare nell’immaginario collettivo una percezione degli avvenimenti tanto diversa da quella processualmente accertata in sede penale. La specificazione è importante per le differenze intrinseche tra il giudizio penale e quello civile, in termini di standard di prova (“al di là del ragionevole dubbio” contro “più probabile che non”), di livello di approfondimento, persino di procedura.
Da questa impostazione discendono, necessariamente, alcune conseguenze. La prima è la centralità del disastro aviatorio rispetto agli scenari ipotizzati o immaginabili, centralità che si traduce nel basare le interpretazioni sui fatti piuttosto che cercare i fatti sulla base delle interpretazioni6. Ciò non significa negare l’evidenza di oggettive tensioni internazionali ma piuttosto ritenere non provato, come in effetti processualmente non è stato, il nesso causale diretto e univoco tra lo “scenario” e la tragedia. Corollario di questa impostazione è il basare l’analisi non sugli aspetti eccentrici o tangenziali rispetto alla vicenda principale ma sui soli punti chiave della eventuale conoscenza e consapevolezza del fatto nella sua immediatezza (nella sala radar di Ciampino e di qui sino al vertice militare), della possibilità di interpretazione univoca dei dati radaristici (qualora evidenti), della simultanea presenza o meno di altri velivoli (compreso il MiG-23 caduto sulla Sila il 18 luglio successivo), dell’asserita risalita di tali notizie ai vertici per ritornare verso il basso con la decisione di occultare le evidenze in modo più o meno sistematico.
Un esame dunque di sintesi, dettato sia dall’impossibilità – e finanche l’inutilità – di ripercorrere passo per passo una vicenda snodatasi per oltre un quarto di secolo dal disastro alla seconda assoluzione, sia – e soprattutto – dal convincimento che incentrare l’analisi su elementi solo indirettamente o presuntivamente collegabili al disastro sia di ostacolo alla comprensione della sostanza dei fatti. Pur utilizzando i materiali accumulati negli ambiti strettamente giuridici o meramente tecnici, studiare Ustica come fatto storico vuol dire anche disgiungere il disastro dai significati politici di cui è stato caricato da quanti intendevano piegarne la soluzione alla preesistente lettura di un momento particolarmente teso della vicenda nazionale, o più esattamente per costruire una spiegazione tramite tale lettura esterna e preesistente al fatto.
L’ultimo volo dell’I-TIGI
Partito da Bologna con due ore di ritardo, il volo Itavia IH870 scomparve dagli schermi radar alle 20.59.45”7. A bordo viaggiavano 81 persone, compreso l’equipaggio. Sulla scorta delle conversazioni conservate dal Cockpit Voice Recorder (Registratore delle voci in cabina, CVR), dei dati del Flight Data Recorder (Registratore dei dati di volo, FDR) e delle registrazioni del servizio assistenza al volo, l’ultimo volo dell’I-TIGI è tanto chiaro da essere riportato con minime varianti in tutte le ricostruzioni parlamentari, giudiziarie e giornalistiche. Le uniche variazioni riguardano l’accentuazione degli aspetti umani legati alla presenza di questo o quel passeggero, ai motivi per il quale ci si recava a Palermo, al ritrovamento in mare di un oggetto personale.
Indagini e inchieste
Alla nascita del mistero di Ustica ha in parte contribuito anche l’estrema difficoltà di orientarsi tra i diversi livelli d’indagine o d’inchiesta che si sono intrecciati per circa vent’anni, generando ciascuno commissioni, relazi...