Bestiario matematico
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Bestiario matematico

Mostri e strane creature nel regno dei numeri

Paolo Alessandrini

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Bestiario matematico

Mostri e strane creature nel regno dei numeri

Paolo Alessandrini

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La bellezza della matematica si lega in genere a un'idea di prevedibilità e semplicità, ma la matematica può essere anche sorprendente e mostruosa. Il libro si presenta come una sorta di "bestiario", alla maniera dei manoscritti medievali, e accompagna il lettore alla scoperta di creature matematiche incredibili, di cui illustra le stranezze e le caratteristiche inverosimili. Suddiviso in tredici capitoli, racconta la sfida perpetua dei matematici che hanno tentato di addomesticare questi animali selvaggi. Una guerra senza esclusione di colpi, ma anche una tormentata storia d'amore e una lunga vicenda di maghi e di incantesimi, fatti di formule e teoremi. L'autore esplora i numeri più singolari, presenta geometrie lontane dal senso comune, curve patologiche e frattali, organismi che si autoevolvono, fino ad approdare a sconcertanti ragionamenti logici e a strutture spaventose. Sono tutti mostri matematici spiazzanti e inattesi, ed è questo il vero segreto della loro sconvolgente bellezza.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2021
ISBN
9788836005291

Parte 1

Numeri

1

Niente (e ancora meno)

Certamente zero e i numeri negativi hanno tutti i segni dell’artificio umano: destrezza, ambiguità, understatement.
Robert ed Ellen Kaplan, The Art of the Infinite (2003)
Lo zero è una strana bestia. Rappresenta il nulla, eppure è qualcosa. Un animale sospeso tra l’esistenza e la non esistenza. Un niente che possiamo pensare, scrivere, adoperare. Talmente bizzarro ed evanescente che i matemaghi lo crearono per ben tre volte: nei primi due casi, dopo un po’ di tempo, lui scomparve (nel nulla, ovviamente). Soltanto al terzo incantesimo uscì un animale abbastanza longevo da arrivare in ottima salute fino a noi.
Per noi oggi lo zero è una presenza del tutto familiare. Ve lo immaginate un mondo senza? Niente promesse di “tolleranza zero” da parte di politici e amministratori contro ciò che non funziona. Nel calcio, nessun tormentone “zero tituli” di Mourinho, ma non si potrebbe nemmeno dire “uno a zero, palla al centro” (quale sarebbe, poi, il risultato di una partita finita senza reti?). I parrucchieri non taglierebbero i capelli a zero e non potremmo sparare a zero su qualcuno (casomai spareremmo a uno, ma volete mettere?). Non ci sarebbe neanche Renato Zero, tanto per dire: il noto cantante si sarebbe forse trovato un altro nome d’arte. Ma, soprattutto, senza lo zero tutto il nostro sistema di numerazione crollerebbe miseramente, come un castello di carte in una giornata ventosa.
Attenzione, però: non pensate allo zero come a un numero innocuo o banale. Secoli di sortilegi lo hanno parzialmente addomesticato, ma sotto sotto rimane una delle bestie matematiche più sconvolgenti e pericolose. Nel corso della storia fu ora ignorato, ora guardato con timore o diffidenza, ora venerato come divinità. Credo sia giusto inaugurare con lui il nostro viaggio alla scoperta delle creature matematiche più stravaganti.
C’era una volta un tempo in cui la bestia-zero non c’era. Perché non serviva. Il filosofo e matematico inglese Alfred North Whitehead, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, scrisse che nelle faccende di ogni giorno lo zero non serve proprio a niente: mica andiamo in pescheria e diciamo “Per favore, mi dia zero pesci”. Analogamente, all’uomo preistorico non serviva un simbolo per indicare “zero bisonti catturati”: era molto più semplice dire di non averne catturati o ancora meglio tacere. Per la verità, non servivano nemmeno gli altri numeri: era sufficiente distinguere tra uno e molti, per il resto ci si poteva ingegnare.
Immaginate di essere un pastore primitivo: alla fine della giornata di pascolo, come fate a verificare che le pecore uscite dal recinto la mattina siano tutte rientrate? Be’, non vi serve possedere il concetto dei numeri e conoscere i loro nomi. La mattina, ogni volta che una pecora esce dal recinto, raccogliete un sassolino da terra e lo mettete nella vostra sacca. Al ritorno, ne tirate fuori uno per ogni pecora che rientra. Se alla fine vi restano dei sassolini nella sacca, vuol dire che avete perso qualche pecora. Se invece, dopo averli tolti tutti, ci sono ancora pecore da far rientrare, avete stranamente guadagnato qualche pecora di un altro gregge.
Le idee che oggi vengono giudicate del tutto inutili potrebbero diventare indispensabili domani. Tra ciò che avviene oggi e ciò che accadrà domani c’è sempre il colpo di genio di qualche mente brillante, l’incantesimo di qualche matemago capace di plasmare o catturare una nuova portentosa creatura.
Per esempio, con l’intensificarsi delle attività economiche da parte delle prime civiltà (come Egizi e Sumeri), qualcuno si accorse che il generico concetto di molti cominciava a stare un po’ stretto. Un bisonte, un albero e un uomo sono realtà molto diverse ma accomunate dalla loro natura di oggetti singoli, cioè dall’idea astratta di uno. In modo analogo, due bisonti, due alberi e due uomini hanno in comune il fatto di essere coppie: l’idea astratta di due. Estendendo il procedimento, si consolidò la consapevolezza dei numeri naturali (1, 2, 3 ecc.) e si svilupparono sistemi numerici che associavano speciali simboli a questi numeri.
E lo zero? Di lui nessuna notizia all’ombra delle piramidi. Ma in Mesopotamia…
Immaginate di trovarvi sulle rive del Tigri (o dell’Eufrate, scegliete voi) circa cinquemila anni fa. Non lontano, c’è un sumero, seduto. Ha scavato nella sabbia un solco della lunghezza di alcuni centimetri e vi ha depositato un sassolino. Ha così rappresentato l’unità. Ha perfino creato un simbolo grafico per rappresentarla su una tavoletta di argilla. Ora aggiunge un secondo sassolino: ecco il numero 2, al quale associa un altro simbolo. In teoria potrebbe andare avanti così all’infinito, ma c’è un problema: se per ogni numero deve inventarsi un simbolo, a un certo punto la fantasia si esaurirà. Come fare?
All’improvviso, ecco l’idea. Dopo aver collocato un bel numero di sassolini per rappresentare i numeri successivi, diciamo in tutto 59, non ne aggiunge più nella stessa scanalatura, ma traccia un secondo solco parallelo al primo: un sassolino in questa nuova scanalatura non vale 1, ma 60. Un numero come 70, quindi, può essere rappresentato come 60 + 10, cioè un sassolino nel secondo solco e dieci nel primo: graficamente, basta tracciare il simbolo del numero 1 e poi quello del numero 10.
Due sassolini nel secondo solco valgono due volte 60, cioè 120, e così via fino ad arrivare anche qui a un massimo di 59 sassolini. Il sumero potrà poi estendere il suo abaco di sabbia con un terzo solco, in cui un sassolino avrà un valore di 60 · 60, cioè 3600, e avanti così: in questo modo, pur disponendo di soli 59 simboli, al sumero sembra possibile rappresentare qualsiasi quantità, anche le più enormi.
Un simile sistema di numerazione, in cui esiste una quantità finita di simboli per rappresentare le cifre e il loro valore dipende dalla posizione del simbolo all’interno del numero (cioè dal solco), è chiamato posizionale.
Grandioso! Ma il geniale matemago si accorge ben presto di un problema. Per esempio, mettendo tre sassolini nel primo solco (partendo da destra) e uno nel terzo solco (figura 1.1) si rappresenta una quantità diversa da quella che viene raffigurata con tre sassolini nel primo solco e uno nel secondo. Eppure, scritti sulla tavoletta d’argilla, questi numeri appaiono identici: il simbolo dell’unità seguito dal simbolo del 3.
Il sumero riflette. Per mostrare la differenza, serve indicare che, nel primo numero, un solco (il secondo) è rimasto vuoto. E così inventa un simbolo speciale di segnaposto.
Ecco, fu più o meno così che prese forma una delle creature più potenti e tremende di sempre: lo zero. Ok, magari non andò esattamente in questo modo. Di certo numerazione posizionale, zero e tutto il resto non furono scoperti da un’unica persona e in un colpo solo. Ma sicuramente tra i Sumeri ci furono alcuni anonimi matemaghi che, nell’arco di generazioni, ebbero le idee giuste e coraggiosamente le misero in pratica.
Purtroppo l’incantesimo si rivelò effimero. La fragile creaturasegnaposto svanì con il declino della civiltà babilonese e per tutto il resto dell’antichità non fu più avvistata da nessuna parte.
Riapparve qualche millennio più tardi e a più di dodicimila chilometri di distanza dalla Mesopotamia: vale a dire, intorno al IV secolo d.C. e sull’altra riva dell’Oceano Atlantico. Anche la civiltà dei Maya, infatti, sviluppò un sistema di numerazione posizionale che prevedeva l’uso dello zero come segnaposto. Lo zero giocava un ruolo importante anche nel sofisticato calendario in uso presso quel popolo, che si articolava in un ciclo religioso, detto Tzolkin, e uno civile, detto Haab. Nel ciclo Haab l’anno era suddiviso in 18 mesi. Ogni mese aveva 20 giorni, per un totale di 360 giorni, ai quali veniva aggiunto un periodo finale di 5 giorni (considerato infausto).
Images
Figura 1.1 Rappresentazioni del numero 3603 e del numero 63 in forma di abaco sumero.
Come facciamo noi, anche i Maya associavano un numero a ciascuno dei giorni del mese e anche a ciascuno dei mesi: ma a loro sembrò naturale etichettare il primo giorno di ogni mese, o il primo mese dell’anno, non con l’uno, ma con lo zero. Ecco, ciò che per i Sumeri era un mero segnaposto, ora assumeva anche un genuino significato numerico: rappresentava l’intero immediatamente precedente l’unità. In questo modo, il computo dei giorni dell’anno veniva elegantemente unificato al sistema di numerazione posizionale: in un ipotetico abaco Maya, il primo solco rappresenta il numero del giorno (da 0 a 19 sassolini), il secondo indica il numero del mese (da 0 a 17), il terzo e il quarto (nuovamente da 0 a 19) permettono di estendere il conteggio a epoche molto più lunghe. Mentre la base di numerazione sumera era sempre 60, il sistema Maya utilizzava basi diverse a seconda delle cifre: 20 per la prima cifra, 18 per la seconda e ancora 20 per la terza.
I Maya scrivevano i numeri compresi tra 0 e 19 utilizzando due diverse serie “grafiche”: la prima formata da segni semplici e la seconda basata su complessi glifi con fattezze di volti grotteschi. Nella prima serie lo zero era rappresentato da una conchiglia: il passaggio dall’ultimo giorno di un mese al primo del mese entrante, o in generale da un periodo al successivo, era visto come l’evoluzione ciclica verso un livello superiore e simboleggiato dall’immagine della spirale.
Mediante i glifi i Maya raffiguravano le divinità associate alle cifre. Lo zero era impersonato da un volto con i capelli legati alla maniera tipica di una vittima sacrificale. Una mano veniva posta davanti alla bocca per indicare un genere di offerta particolarmente brutale che i Maya erano soliti praticare: la rimozione della mascella da una persona viva. Nella concezione religiosa dei Maya, infatti, il passaggio a un nuovo periodo era legato all’usanza di sacrificare esseri umani per favorire il progresso e l’evoluzione spirituale. Lo zero era insomma associato a un’immagine inquietante e macabra, una specie di “dio della morte”.
E pensare che i Maya non erano consapevoli di tutti i “pericoli” che la bestia-segnaposto avrebbe portato con sé una volta che fosse stata analiz...

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