Vite in quarantena
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Vite in quarantena

Giuliana Attanasio, Riccardo Matlakas

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Vite in quarantena

Giuliana Attanasio, Riccardo Matlakas

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Un resoconto di respiro internazionale sul 2020, anno tristemente funestato dalla pandemia di Covid-19. Oltre alle testimonianze della psicologa Giuliana Attanasio e dell'artista Riccardo Matlakas, raccontano le proprie idee ed esperienze anche artisti, dottori e scienziati provenienti da tutto il mondo (tra i quali Sadhguru, ma anche artisti storici come ORLAN e Stelarc), ognuno con un occhio diverso su un dramma che sta colpendo tutti senza fare distinzioni.

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Information

Publisher
Kimerik
Year
2021
ISBN
9788855167031

Capitolo 1
A cura di Riccardo Matlakas
In questo capitolo, mi limito a descrivere esperienze e pensieri personali connessi al periodo vissuto durante il lockdown del 2020 in Inghilterra.
Durante la mia carriera artistica, ho avuto l’occasione di viaggiare in molti Paesi del mondo e persino risiedervi, in alcuni casi. Ho vissuto per molti mesi in nazioni con costumi, modi di vivere e problematiche molto differenti rispetto ai miei. Siccome il mio lavoro da artista molto spesso si avvale di nozioni di ricerca antropologica, ho sempre, in modo naturale e con curiosità, studiato a fondo la cultura degli altri, anche se la mia piattaforma di partenza è, e sarà sempre, l’arte, che mi ha dato la libertà di sperimentare.
Infatti, per me l’arte non è solo estetica, ma un modo per capire il senso della vita e i rapporti umani, trovando tecniche innovative per la crescita della mia coscienza come individuo. L’arte per me è, quindi, “scoprire la vita” attraverso il mio pensiero, nonché il mio personale modo di essere. L’arte è un linguaggio che arriva dritto all’essenza, toccando le emotività di altri individui. Uso l’arte, dunque, per comunicare con un linguaggio universale, intrinsecamente riconosciuto da tutti gli esseri umani.
Viviamo in un mondo di vibrazioni, attraverso cui comunichiamo l’uno con l’altro. L’arte visiva, la scrittura, la musica, lo sport, le passioni, i dialoghi, i silenzi, le assenze e le presenze sono tutte onde che percepiamo sia inconsciamente che consciamente. L’arte è presente non solo sul piano visivo, uditivo e percettivo, ma ovunque esista il mistero, la creatività, il gioco, la serietà, la scienza, creando magia su tutti i fronti.
1.1 Prima del lockdown
Per anni, ho viaggiato molto per mostrare le mie opere e le mie azioni performative. Ho avuto l’occasione di capire profondamente molte culture, a me precedentemente estranee. Incredibilmente, sono riuscito a cogliere l’essenza di altre civiltà attraverso il mio operato artistico.
Nel 2014 fui inviato alla Biennale di Gwangju in Corea del Sud per creare una performance sulla rivolta di Gwangju in favore della democrazia, avvenuta nel 1980. La Corea del Sud oggi è un paese libero, ma ha dovuto affrontare molte questioni di carattere repressivo.
Per creare una performance sulla rivolta di Gwangju, mi sono dovuto immedesimare, come se fossi stato io stesso uno dei civili coinvolti nel massacro. In occasione della biennale del 2014, ho creato la mia performance intitolata Idem Quod.
Idem Quod è una performance multidisciplinare che va a coinvolgere la danza, le arti performative, l’arte visiva e la musica. Durante la performance assunsi la posa dell’infante, classica posizione della danza tenebrosa giapponese Butoh, accompagnandola a una risata interiore per simboleggiare la nascita e rappresentare la purezza. La risata viscerale dopo svariati minuti diventò quasi come un lamento di dolore, ciò per simboleggiare la crescita e l’apertura verso il mondo adulto, pieno di avversità. Alla fine, suonai il piano a coda del musicista coreano Lim Dong-Chang (con aggiunta di soldatini giocattolo sui tasti del piano e la cassa armonica). Suonai, poi, un pezzo in onore delle persone che hanno combattuto per la propria libertà, cominciando dai toni alti fino a quelli più bassi, evidenziando così il tocco drammatico della vita.
Un momento di connessione con un popolo apparentemente “diverso” dal mio, ma che in quel frangente ha saputo riconoscersi in me, uno straniero, il quale, almeno per un instante, è riuscito a diventare parte della sensibilità collettiva locale.
I viaggi si facevano sempre più intensi, portandomi successivamente in molte città europee, ma anche in Russia, Palestina, Africa del Sud, Giordania, Ucraina, Corea del Sud, nell’area demilitarizzata tra le due coree (DMZ area), nelle Mauritius, in Armenia, Nagorno-Karabakh, Iran, Stati Uniti e tanti altri luoghi.
Alcune delle performance più iconiche che ho portato in spazi urbani sono state: Sweet Thorn, Melting Borders, The Last Soldier e Pyjamas Party, centrate sulla destrutturazione della forma esistente. Sentivo che, al giorno d’oggi, a causa di tutti gli eventi a cui siamo esposti, stiamo vivendo una sorta di destrutturazione.
In Sweet Thorn, ho creato una struttura in filo spinato di 100 metri, che mi ricopriva tutto il corpo, la struttura era adornata da 100 rose. Durante la performance, che è durata circa un’ora, tagliavo pian piano pezzi di filo spinato, mentre gonfiavo palloncini bianchi con su scritte parole che rappresentano tutto ciò che nuoce alla società: razzismo, guerra, economia, etc. I palloncini, incastrati tra il filo spinato, scoppiavano. Con ogni palloncino rotto e un pezzo di filo spinato creavo, quindi, un fiore artificiale che, insieme a una delle rose, andava in regalo a un passante, come simbolo di trasformazione. Con l’atto di donare mi liberavo dalla struttura in ferro spinato.
In Melting Borders, ho costruito un elmetto che reggeva 5 gelati. A seconda del paese in cui mi trovavo, cambiavo il colore dei gelati in base alla bandiera della nazione stessa. Dopo circa un’ora di cammino in città principali o confini, mi ritrovavo sul capo e sulla camicia bianca una sorta di dipinto astratto, creato dai gelati sciolti. Le camicie, che tuttora conservo, rappresentano le “bandiere dolci”, ossia bandiere astratte, non più con un riferimento diretto a una particolare nazione. Le nuove bandiere non hanno razza né provenienza, esse sono l’astrazione disciolta del concetto di identità nazionale. Un concetto che non fa altro che creare muri.
In The Last Soldier, ho chiesto in prestito a un giovane soldato la sua divisa armena e, sul confine con l’Azerbaijan, precisamente
a Artsakh, Stepanakert, ho camminato in slow motion per tre ore, tenendo una pietra di tufo rosso sulla spalla (parte di una chiesa distrutta durante un attacco da parte degli Azeri), che rappresentava le macerie dei dolori passati, e un fiore bianco in una mano, a rappresentare speranza per il futuro.
The last Soldier (letteralmente L’ultimo soldato) mostra la parte più intima di un giovane soldato, non la parte del combattente, ma quella di colui che ha sogni, amore e sensibilità. L’ultimo soldato sarà forse il militare che non servirà più la guerra, ma che, camminando molto lentamente, rifletterà sul futuro di una società migliore, senza armi né guerre. Anche se ero solo durante la performance, mi sentivo in una marcia di pace, con le anime di tutti i morti di guerra dietro di me.
In Pyjamas Party a Kharkiv in Ucraina, con l’aiuto di persone locali ho cucito un pigiama per un carro armato della Seconda guerra mondiale. Dopo un periodo di preparazione tecnica e una settimana di duro lavoro, ho dato vita a un’azione della durata di due ore, in cui è avvenuta la vestizione del carro armato. Da una macchina di sterminio mi sono ritrovato a creare un essere docile e dormiente. Un modo catartico di mandare guerre e conflitti a nanna.
Al ritorno di tutta una lunga serie di viaggi tra mostre e performance, ho sentito un grande bisogno di rimanere a casa e lavorare in studio, riflettere e godermi un po’ di routine.
Qu...

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