Introduzione
Dom Clemente Isnard, monaco benedettino e vescovo di Nova Friburgo, scomparso nel 2011, è stato tra i protagonisti del rinnovamento postconciliare della Chiesa brasiliana (forse la Chiesa particolare che con maggiore impegno e coerenza si è sforzata di tradurre la lettera e lo spirito del Vaticano II nella propria realtà), al pari di dom Helder Camara1, di dom Antonio Fragoso2, di dom Pedro Casaldaliga3, dei cardinali Paulo Evaristo Arns4 e Aloisio Lorscheider5, di dom Ivo Lorscheiter6, di dom José Maria Pires7, di dom Luciano Mendes de Almeida8, di dom Tomas Balduino9, ecc., divenendo tuttavia meno famoso di questi ultimi perché specialista di un campo poco “mediatico”, quello della liturgia. Fu però l’artefice dell’applicazione della riforma promossa dalla costituzione Sacrosanctum Concilium nel gigante sudamericano e nell’intero continente, contemporaneamente condividendo fino in fondo l’“opzione preferenziale per i poveri”, al cui mantenimento nel magistero delle Conferenze generali dell’Episcopato latinoamericano contribuì soprattutto in quella di Santo Domingo nel 1992. Perciò viene annoverato a pieno titolo tra quelli che, il teologo Joseph Comblin ha definito “i santi padri della Chiesa latinoamericana”.
Accusata spesso di ridurre la fede all’azione sociale e la Chiesa a “soggetto politico”, in realtà questa generazione di presuli derivò e informò sempre la propria opera a una passione profondissima per il Vangelo di Gesù, per il Regno di Dio di cui Egli aveva annunciato la venuta e per una Chiesa che di questa regalità volevano fosse segno credibile e anticipo visibile. Da qui le tre grandi scelte fondamentali compiute dai vescovi nella II Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, svoltasi a Medellin, in Colombia, nel 1968: per i poveri (scegliendo, cioè, di guardare la realtà dal punto di vista delle vittime dell’ingiustizia strutturale), per le comunità ecclesiali di base (ossia un nuovo modello di Chiesa rifondata dal basso) e per la “liberazione integrale” (cioè non solo dal peccato, ma da ogni oppressione storica).
Esemplare in tal senso è prima di tutto la figura di dom Helder Camara, primo grande protagonista, sia pur da “dietro le quinte”, del Concilio Vaticano II, poi apostolo in tutto il mondo della lotta cristiana contro l’ingiustizia sociale nonché vero spauracchio del regime militare brasiliano, che riuscì a impedirgli di ottenere il Premio Nobel per la pace, cui era stato per tre volte candidato. Ebbene, scrivendo nel 1981 all’amico Jeronimo Podestá, già vescovo di Avellaneda, in Argentina, rimosso nel 1967 da Roma per la sua opposizione alla dittatura del generale Juan Carlos Ongania e poi divenuto presidente della Federazione internazionale dei preti sposati dopo il suo matrimonio con Clelia Luro, diceva:
ho tre grandi sogni che si completano: il sogno dell’autentica integrazione latinoamericana, senza imperialismi esterni né imperialismo interno; il sogno di rendere possibile per l’anno 2000 il concilio di Gerusalemme II; il sogno del dialogo autentico coi mondi di mondi (cioè con forme di vita extraterrestre, il cui incontro egli riteneva possibile nel nuovo millennio – N.d.R.). Però il sogno cui mi sento particolarmente chiamato è il secondo. Non mi preoccupa sapere che è più probabile che mi tocchi assistere al Gerusalemme II dalla casa del Padre. Darò una mano da là10.
D’altro canto alla vigilia della conclusione del Vaticano II, egli aveva suggerito a Paolo VI che nel discorso di chiusura del Concilio annunciasse la convocazione di “un’assemblea speciale del Sinodo (dei vescovi – N.d.R. ) dedicata a esaminare la responsabilità della Chiesa di fronte allo sviluppo integrale e armonioso del mondo” e di un’altra successiva cui affidare “lo studio di alcune questioni che il Concilio non ha avuto il tempo di approfondire, come la regolazione delle nascite”, nonché la “decisione di affidare all’assemblea generale del Sinodo la missione di eleggere il Papa”11.
Non meno rilevante fu il ruolo svolto in quegli anni da dom Aloisio Lorscheider, anch’egli giovanissimo padre conciliare, divenne presidente della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) dal 1971 al 1978, gli anni peggiori della dittatura, divenendo cardinale (assai ammirato da Paolo VI) nel 1976 e presiedendo da quell’anno fino al 1979 anche il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam). Strenuo difensore dei diritti umani e sostenitore della “Teologia della liberazione” (tanto da accompagnare nel 1984 a Roma – insieme al cugino dom Ivo Lorscheiter, vescovo di Santa Maria e all’epoca presidente della Cnbb, e al cardinale Arns, di Sao Paulo – Leonardo Boff, chiamato a difendersi davanti alla Congregazione per la Dottrina della Fede guidata dal card. Joseph Ratzinger), considerava “la Chiesa prima di tutto ‘assemblea’, realtà che nasce dal popolo, sebbene per iniziativa dello Spirito”, secondo “un modello di ‘comunione e partecipazione’” che ne fa una “comunità di fede e di lotta” esemplificato nelle Comunità ecclesiali di base (Ceb). Nel libro intervista Mantenham as lâmpadas acesas12, pubblicato postumo, egli sottolineava l’importanza di
una lettera di Paolo VI del settembre 1966, in cui egli dice che il Concilio Vaticano II è solo un punto di partenza. Perciò dobbiamo andare oltre i testi. Non possiamo restare fermi, ma dobbiamo andare più avanti.
Di conseguenza dom Aloisio Lorscheider affermava, tra l’altro, che:
non è più possibile decidere in solitudine su questioni importanti: il Papa stesso deve esercitare la collegialità e consultare i suoi colleghi vescovi. Si può anche immaginare che in certe circostanze straordinarie si renda necessaria una decisione rapida e autoritativa del Papa, ma ordinariamente la collegialità è nella Chiesa la norma dell’agire. È una collegialità che non si restringe ai vescovi, ma si applica a tutta l’ampiezza della Chiesa, perché in fondo facciamo tutti parte dello stesso collegio apostolico di Nostro Signore Gesù Cristo.
Aggiungeva inoltre che:
la Santa Sede dovrebbe domandarsi se non sia giunta l’ora di abolire il collegio cardinalizio, perché è ormai privo di senso. Oggi abbiamo i presidenti delle Conferenze episcopali: sarebbero loro le persone indicate per eleggere il Papa.
Interpellato se il divieto dell’ordinazione delle donne al sacerdozio avesse valenza dogmatica o potesse un giorno mutare, il cardinale rispondeva:
io, sinceramente, credo che possa cambiare. Certamente è una questione molto delicata. È possibile che un giorno la Chiesa giunga a una maggiore chiarezza. Il Papa, grazie a Dio, non si è pronunciato in termini dogmatici. Non ha usato le parole che un Papa dovrebbe obbligatoriamente utilizzare se pretendesse di farne un dogma. Ha detto solo che si tratta di una sentenza definitiva. In che senso, però? È un fatto che, per venti secoli, non abbiamo avuto un sacerdozio femminile. Ma questo non significa che, se non c’è stato per venti secoli, non si possa averlo oggi. Credo che attraverso il dialogo ecumenico possiamo arrivare lontano. Mediante questo dialogo vediamo che oggi alcune Chiese hanno già ordinato donne con buoni risultati. Perciò la questione resta aperta. Dopo tutto, sarebbe molto strano che Nostro Signore avesse istituito per le donne solo sei sacramenti e per gli uomini sette!
Riprendendo poi il tema dell’accesso al ministero presbiterale, affermava:
circa i preti sposati, ho l’impressione che ci sarà un’evoluzione positiva. Certo, oggi molti di loro non vogliono più esercitare il ministero. Ma coloro cui piacerebbe essere riammessi dovrebbero avere questa poss...