Amare il mondo Creare la pace.  Papa Francesco e Tonino Bello
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Amare il mondo Creare la pace. Papa Francesco e Tonino Bello

Sergio Paronetto

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Amare il mondo Creare la pace. Papa Francesco e Tonino Bello

Sergio Paronetto

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Evidente è il comune linguaggio esistenziale o "parabolico".L'itinerario nonviolento di Tonino Bello, proposto come una serie di tappe lungo il sentiero di Isaia, s'intreccia visibilmente con quello di Jorge Bergoglio.Vivono la pace come realismo profetico, dono e impegno, inquietudine creativa. Come cristiana "via, verità e vita" o laico "potere dei segni", moto delle differenze fecondatrici di comunione. Insomma come rivoluzione della tenerezza (Evangelii gaudium 88, 288) o come capacità di misericordia (così Tonino Bello definiva anche la politica), cioè come azione nonviolenta.Perché la pace è adesione vitale all'unico annuncio cristiano.

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Information

Year
2015
ISBN
9788861534360

Misericordia, profezia di un mondo nuovo

“Misericordia è profezia di un mondo nuovo” (Francesco 5.7.2014) “La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio. La carità non può essere neutra, asettica, indifferente, tiepida o imparziale! La carità contagia, appassiona, rischia e coinvolge! Sul vangelo degli emarginati si gioca e si rivela la nostra credibilità” (15.2.2015). “Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto (Evangelii gaudium 183).
“Amiamo il mondo e la sua storia. Vogliamogli bene. Prendiamolo sottobraccio. Usiamogli misericordia. Le nostre Chiese siano segni, sia pure lontani, dell’accoglienza di Dio” (A. Bello 8.4.1993). “‘N’ebbe compassione”, dice il Vangelo di Luca. Ecco l’immagine dell’uomo politico “capace di misericordia”, che non disdegna di sporcarsi le mani, che non passa oltre per paura di contaminarsi. E subito dopo Luca aggiunge un verbo splendido “Gli si fece vicino” (21.12.1986).

Una Chiesa in uscita

Per Francesco la misericordia è un tema coinvolgente che dà corpo alla pace e genera vita nuova. Nell’udienza del 27 novembre 2013 ripete per tre volte: “Chi pratica la misericordia non teme la morte […]. Perché la guarda in faccia nelle ferite dei fratelli e la supera con l’amore di Gesù Cristo”. Il 5 luglio 2014 a Isernia, nelle terre di Celestino V, osserva che la misericordia “non è solo qualcosa di devozionale, di intimo, un palliativo spirituale, una sorta di olio che ci aiuta ad essere più soavi, più buoni. È la profezia di un mondo nuovo in cui i beni della terra e del lavoro siano equamente distribuiti e nessuno sia privo del necessario, perché la solidarietà e la condivisione sono la conseguenza concreta della fraternità”. Il 3 marzo 2015, ai teologi argentini dichiara che “la misericordia non è solo un atteggiamento pastorale ma è la sostanza stessa del Vangelo di Gesù” e che “senza la misericordia la nostra teologia, il nostro diritto, la nostra pastorale corrono il rischio di franare nella meschinità burocratica o nell’ideologia, che di natura sua vuole addomesticare il mistero”.
Con analoghi pensieri, il 7 marzo 2015 osserva che, aprendosi alla misericordia di Dio, il cristiano “deve sentire l’impulso gioioso di diventare fiore di mandorlo, cioè primavera come Gesù, per tutta l’umanità”. Il 13 marzo 2015, giorno dell’annuncio del Giubileo, si dice convinto che la Chiesa “potrà trovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio”. L’anno della misericordia comincia l’8 dicembre 2015, 50 anni dopo la conclusione del Concilio Vaticano II, perché “la Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento”90. Gli amici della pace nonviolenta colgono subito nelle radici bibliche del Giubileo (Levitico), cariche di una simbologia altamente evocativa, percorsi di misericordia come liberazione da ogni schiavitù (ideologie del nemico e dello scarto), remissione dei debiti (giubileo del debito nell’attuale crisi finanziaria), redistribuzione delle terre e riposo della terra (difesa dei beni comuni, cura ambientale). È un cammino difficile che richiede un’immensa fiducia nell’umanità. Per questo Francesco invita a diventare “germogli di un’altra umanità” (Pasqua 2015) e ad amare “questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto” (Evangelii gaudium 183, 215) con parole identiche a quelle di Tonino Bello, scritte pochi giorni prima di morire: “Amiamo il mondo e la sua storia. Vogliamogli bene. Prendiamolo sotto braccio. Usiamogli misericordia. Non opponiamogli sempre di fronte i rigori della legge se non li abbiamo temperati prima con dosi di tenerezza. Apriamo le nostre Chiese. Anche esteriormente siano segni, sia pur lontani, dell’accoglienza di Dio. Tanti auguri, popolo di Dio. Il Signore ti accompagni in questo tuo viaggio dell’esodo”91. Giubileo della misericordia vuol dire spiritualità dell’esodo: uscire, camminare, rischiare. Per questo, in occasione dell’anno giubilare della parrocchia di San Domenico in Molfetta (1990), don Tonino dichiarava che avrebbe spalancato la porta santa non verso l’interno del tempio ma verso la piazza: “Il problema più forte per le nostre comunità cristiane non è tanto quello di esaltare porte che si aprano verso l’interno degli spazi sacri. Il problema più drammatico dei nostri giorni, invece, è quello di aprire le porte del tempio dall’interno verso la piazza, facendo capire che la chiusura nell’intimismo rassicurante delle nostre liturgie diventa ambiguo se non si spalancherà sugli spazi del territorio profano”92. Come non ricordare, al riguardo, l’esortazione insistente di papa Francesco (Evangelii gaudium 17, 20-24, 49) a promuovere l’esperienza di “una Chiesa in uscita”? Per don Tonino il discorso valeva anche per l’uscita dal tempio della politica. In un discorso sulla “compassione della politica” del dicembre 1986, invitava gli amministratori a diventare “capaci di misericordia”. A loro e ai giovani proponeva la figura del “samaritano dell’ora prima, dell’ora giusta e dell’ora dopo”93.

Oscar Romero, martire materno

Dopo la sua elezione, i primi contatti di Francesco con Oscar Romero avvengono incontrando in marzo Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel per la pace e, in maggio, il presidente di El Salvador, Carlos Mauricio Funes, allievo di Rutilio Grande (assassinato nel 1977). Il primo gli lascia una lettera inviatagli da Romero prima di essere ucciso, sulla violazione dei diritti umani. Il secondo dona al papa un reliquiario con un lembo della veste insanguinata. Il contrastato cammino verso la canonizzazione del “vescovo dei poveri”, ucciso il 24 marzo 1980, è arrivato a riconoscere la dimensione profetica della sua fede, mai separata dall’amore per la vita del suo popolo e dalla lotta per la giustizia94.
Dopo tante discussioni sul significato del suo martirio, papa Francesco spiazza ogni argomentazione presentandolo come sintesi feconda di fede e giustizia, di pace e misericordia. Durante un’udienza sulla famiglia, il 7 gennaio 2015, dopo aver elogiato le madri che odiano la guerra perché uccide i loro figli, Francesco legge una citazione dell’arcivescovo Romero: “Nell’omelia per il funerale di un prete assassinato dagli squadroni della morte, egli disse, riecheggiando il Concilio Vaticano II: ‘Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore. Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana. Dare la vita a poco a poco. Sì, come la dà una madre, che senza timore, con la semplicità del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. È dare la vita. È martirio”. Fino a qui la citazione. Sì, essere madre non significa solo mettere al mondo un figlio, ma è anche una scelta di vita. E la Chiesa è madre, è nostra madre!”. Un mese dopo, il 15 febbraio 2015, ai nuovi cardinali specifica che maternità ecclesiale significa capacità di compassione. Per Francesco, Romero è “l’immagine di Cristo Buon Pastore” che incarna il sogno di Isaia: “con cuore di padre si è preoccupato delle “maggioranze povere”, chiedendo ai potenti di trasformare le armi in falci per il lavoro”95.
Nel marzo 1987 a Roma, nel settimo anniversario dell’assassinio, Tonino Bello presentava Romero come “martire della pace” che sa intrecciare tre spiritualità: quella dell’esodo (liberazione), quella del dito puntato (profezia), quella del servo sofferente (amore senza misura). Ricordare un martire, diceva, “significa individuare il punto in cui la Parola si gonfia così tanto, che la sua piena rompe gli argini e straripa in colate di sangue. Che è sempre il sangue di Cristo: quello del martire ne è come il sacramento. Oscar Romero, perciò, è solo lo squarcio della diga”. A conclusione della sua riflessione, don Tonino presentava una preghiera, riportata con poche frasi.
“Noi t’invochiamo, vescovo dei poveri, intrepido assertore della giustizia, martire della pace: ottienici dal Signore il dono di mettere la sua Parola al primo posto e aiutaci a intuirne la radicalità e a sostenerne la potenza […]. Aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli ci parla. Prega, vescovo Romero, perché la Chiesa di Cristo, per amore loro, non taccia. Implora lo Spirito perché le rovesci addosso tanta parresia da farle deporre, finalmente, le sottigliezze del linguaggio misurato e farle dire a viso aperto che la corsa alle armi è immorale, che la produzione e il commercio degli strumenti di morte sono un crimine […]. Prega, vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra si facciano banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale […]. Accelera i tempi in cui un nuovo ordine economico internazionale liberi il mondo da tutti gli aspiranti al ruolo di Dio. E infine, vescovo Romero, prega per noi qui presenti, perché il Signore ci dia il privilegio di farci prossimo, come te, per tutti coloro che faticano a vivere. E se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa’ che le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d’ora cieli nuovi e terre nuove”96.

Sarajevo, il sogno di Dio

Deplorando i massacri del secolo XX, il 13 aprile 2015 Francesco colloca la Bosnia tra i luoghi più colpiti dalla “terza guerra mondiale” (l’assedio a Sarajevo, cominciato nell’aprile 1992, ha provocato più di centomila morti ed è culminato con la strage di Srebrenica nel luglio 1995). Il viaggio del 6 giugno 2015 a Sarajevo, città socialmente lacerata, religiosamente sospettosa, politicamente immobile e diplomaticamente congelata, evoca i rumori di una terribile guerra. Mir vama (“la pace sia con voi”) non è solo il motto del viaggio. È il saluto del Risorto ripetuto nelle cinque riflessioni offerte a un popolo ferito.
Francesco si presenta come “pellegrino di pace” che è, osserva, la “parola profetica per eccellenza”, “il sogno di Dio, il progetto di Dio per l’umanità”. Ricorda il monito di Isaia: “praticare la giustizia darà la pace”, il famoso “opus justitiae pax” (32,17). Fa risuonare la parola di Gesù: “Beati gli operatori di pace” (Mt 5,9), precisando che il Vangelo non parla di “predicatori”, perché “tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera”, ma si riferisce ai seminatori. “Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia. Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio”. Per questo “cammino che rende felici, che rende beati”, occorre farsi carico dei problemi sociali, dei conflitti politici e della “terza guerra mondiale”. “Nel contesto della comunicazione globale si percepisce un clima di guerra. C’è chi questo clima vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi” (nell’aereo di ritorno a Roma, osserva che “chi parla di pace e favorisce la guerra con la vendita delle armi, è un ipocrita”; identica frase rivolgerà ai giovani torinesi il 21 giugno 2015).
Ai bosniaci Francesco consegna i capitoli della grammatica della convivenza disarmata. “Abbiamo tutti bisogno, per opporci con successo alla barbarie di chi vorrebbe fare di ogni differenza l’occasione e il pretesto di violenze sempre più efferate, di riconoscere i valori fondamentali della comune umanità, valori in nome dei quali si può e si deve collaborare, costruire e dialogare, perdonare e crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di formare un nobile armonico canto, piuttosto che urla fanatiche di odio”. Per tale motivo, occorre “guardare alle differenze come possibilità di crescita”; “creare occasioni per accrescere la mutua conoscenza e stima”; curare le ferite che “possono essere sanate da un percorso che purifichi la memoria”; praticare la giustizia consapevoli che il suo “pieno compimento è amare il prossimo come se stessi” (Mt 22, 39; 7, 12 e Rm 13,9); curare il dialogo che è “scuola di umanità”; imparare l’arte della riconciliazione.
Visitando piccoli Paesi (Albania, Turchia, Bosnia), che sono crocevia di popoli, “parte integrante dell’Europa”, carichi di dolori ma anche laboratori di futuro, Francesco affida soprattutto ai bambini e giovani l’incarico di “salvare la speranza”, preparando un mondo “a misura d’uomo” e un “Popolo universale” benedetto da Dio97. La preghiera francescana, conclusiva dell’incontro con i rappresentanti delle religioni, evoca quella che ha preceduto il ricordato viaggio del dicembre 1992, attuato da Tonino Bello, Luigi Bettazzi e altri 500: “Concedi la pace a Sarajevo e in tutti i Balcani e ovunque nella terra dove si sparge sangue innocente. Noi tutti ti riconosciamo quale unico Dio e abbiamo Abramo, Isacco e Giacobbe come nostri padri nella fede. Donaci la forza che hai donato ai tuoi amici perché, confessando il tuo nome santo, riconosciamo la tua immagine viva impressa sul volto del fratello”98. “Entro a Sarajevo, bagnata dal sangue di tanti innocenti, commosso come a Gerusalemme, bagnata dal sangue di Cristo”. Così don Tonino cominciava il suo intervento nel teatro di Sarajevo la sera del 12 dicembre 1992. Occorre diffondere l’esempio di questa “Onu popolare”, esclamava. “Penso che queste forme di utopia, di sogno dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? Sono soltanto le notaie dello status quo e non le sentinelle profetiche che annunciano cieli nuovi, terra nuova […]. Quanta fatica si fa in Italia a far capire che la soluzione dei conflitti non avverrà mai con la guerra, ma avverrà con il dialogo, col trattato; si fa fatica in Italia, abbiamo fatto fatica anche qui […]. Siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà. Quante idee un giorno fioriranno, non sono affidate soltanto a due o tre folli che vanno dicendo parole fuori posto. Ormai, lo sapete, la difesa popolare nonviolenta, la nonviolenza attiva è diventata un trattato scientifico. Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati!”. Tra le cose belle incontrate in luoghi di guerra, don Tonino ricordava l’invito di un signore a partecipar...

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