Dio mio, perché... abbandonato?
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Dio mio, perché... abbandonato?

Itinerari di spiritualità

Luigi Bettazzi

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Dio mio, perché... abbandonato?

Itinerari di spiritualità

Luigi Bettazzi

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Se pensiamo alle situazioni o ai momenti in cui ci chiediamo: "Ma perché Dio ha permesso questo?", "Ma dov'era Dio mentre si compiva Auschwitz?" o "Dov'è mentre tanti immigrati muoiono in mare?", dovremmo prima chiederci: "Ma dov'era l'umanità che ha causato tutto questo?Dio ci ha creati liberi e responsabili e dobbiamo credere che proprio in Gesù "abbandonato" Egli ricupera le nostre deviazioni e le nostre resistenze, mettendoci di fronte alle nostre responsabilità e suscitando chi ci può incamminare ed accompagnare in questo ricupero.È per questo che anziché ripiegare sul passato e rimpiangere le occasioni perdute, incolpare quanti non ci hanno permesso di sviluppare possibilità ritenute positive, dovremmo incominciare a renderci conto che le contraddizioni di oggi, che hanno le loro radici nelle vicende di ieri, sono da riesaminare, non ovviamente per cambiarle, cosa ormai impossibile, ma per imparare dalle cattive scelte di ieri a non ripeterle oggi e ad orientarci, invece, con le scelte di oggi, a rimediare agli errori di ieri.Quando dunque ci sentiamo abbandonati dal Signore, è perché non siamo entrati pienamente nel Suo mistero e allora dobbiamo chiederci: "Mio Dio, mio Dio, perché Ti ho abbandonato?" Perché Ti abbandono? E se abbandono Te, non finisco per abbandonare anche i fratelli, amandoli sì, ma non come Tu ci hai amati donando davvero tutto Te stesso, assumendo la nostra umanità e "svuotandola".

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Information

Year
2019
ISBN
9788861537002

Se non diventerete come i bambini

La seconda parte del Salmo 21, parlando di Dio, inizia così: “Ha ascoltato il suo grido di aiuto” (v. 25)! Questo sosteneva Gesù, pur nella sua immensa sofferenza. E dunque il suo grido di disperazione si manifestava come una invocazione di speranza; era, sì, la denuncia della situazione di estremo strazio che stava subendo, ma altresì l’espressione della consapevolezza di averlo affrontato liberamente in vista del bene assoluto che ne sarebbe derivato per tutta l’umanità, quella passata e quella futura, era la rivelazione della pienezza d’amore, che affronta volontariamente anche le prove più dure, necessarie per giungere a portare la salvezza al mondo intero. Ed è così che di fronte alle sofferenze, alle contrarietà, ai fallimenti, sappiamo che – come già intuiva Chiara Lubich – unendo tutto alla passione di Cristo, lo valorizziamo rendendolo un contributo alla salvezza nostra e dell’umanità. È in questa prospettiva che Paolo scriveva:
Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo Corpo che è la Chiesa. (Col 1,24)
Non è che la passione di Cristo sia incompleta (come sembrava indicare l’antica traduzione: “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo”), ma siamo noi incompleti se non sappiamo unirci pienamente a Lui, che nel suo Amore ha saputo affrontare anche le esperienze più aspre.
Se anche avvertiamo di averLo abbandonato – un giorno, due giorni, anche di recente – sappiamo che Lui non ci abbandona mai. Anche nei giorni più difficili, in cui sembra davvero che ci abbia abbandonato, ci rendiamo conto, contemplando Gesù sulla croce, che non ci abbandona mai, che se anche permette le situazioni più dure e più sconvolgenti ne ricava sempre doni di salvezza per noi, per le persone a noi più care, per l’umanità. Dobbiamo fidarci dello Spirito Santo, lo Spirito dell’amore e della forza, che Gesù, morendo, ha trasmesso a noi, a tutta l’umanità; e come “transustanzia” il pane e il vino dell’Eucarestia nel corpo e nel sangue di Cristo, così “transustanzia” la nostra vita, i nostri dolori e le nostre sofferenze nell’amore di Cristo che salva il mondo.
A questo ci sollecita e per questo intercede Maria SS. Addolorata, che ai piedi della Croce ha accompagnato la passione e la morte di Gesù, che ne ha sentito il grido angosciato e fiducioso, che ne ha condiviso l’infinito senso di speranza e, dichiarata allora nostra madre (Gv 19,26), ci aiuterà a condividere sempre più la vita e l’offerta del suo primo Figlio, morto per amore.
Se noi abbiamo talora abbandonato Lui, e se abbiamo la sensazione che Lui ci abbia abbandonato è perché ci chiudiamo in noi stessi (come singoli, come gruppi, come popoli), mentre Lui è apertura, è “relazione”. Ogni creatura dovrebbe riconoscerlo, non foss’altro perché, creatura, si rende conto che, creandola, Dio ha aperto una relazione con lei!
Noi cristiani abbiamo un motivo fondamentale per riconoscerlo, ed è che Dio si è rivelato come relazione in se stesso: Dio è Uno perché è Trino43! La Relazione assoluta e infinita ovviamente fa sì che ogni realtà sia, per così dire, statica proprio perché dinamica o, come ci diranno i fisici, la realtà solida è tale perché risultante da energie44. E l’essere umano il più vicino a Dio tra le creature (“Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” – Gen 1,26), nasce come essere fatto di materia e di spirito (“Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” – Gen 2,7), a cui è necessario “un aiuto che gli corrispondesse” (Gen 2,20), proprio perché l’immagine e somiglianza di Dio non è nell’individuo, ma nella relazione (E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò – Gen 1,27).
Si potrebbe anche notare che questa esigenza di relazione umana (“Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda” – Gen 2,18) emerge dopo la prospettiva di governo del mondo (“domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” – Gen 1,26; e – Gen 2,15 – “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”).
Di qui deve risultare che un’umanità a prevalenza esclusiva maschile è un’umanità imperfetta, ad ogni livello. Ma lo è anche un’umanità in cui la relazione maschilefemminile sia deformata da un rapporto non di relazione reciproca, bensì dal dominio e dallo sfruttamento di una parte sull’altra (in genere dell’uomo maschile sulla donna). E l’integrazione tra i due settori dell’umanità (tra il maschile e il femminile) viene talvolta vista come l’integrazione tra il cervello e il cuore (ma anche le donne hanno il cervello e – spero – anche gli uomini hanno il cuore!). Credo che si possa riflettere su questa interpretazione partendo da come l’essere umano si comporta entrando nel mondo.
È Gesù che ammonisce: “Se non vi convertirete e diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,4). Questo riferimento ai bambini, esseri umani che han bisogno di tutto, potrebbe venir visto come un rinvio alla povertà, anche perché il regno dei cieli, riservato ai bambini, è appropriato ai poveri, come afferma Gesù iniziando le Beatitudini (“Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio” – Lc 6,21), e questo potrebbe suggerire, se non l’identificazione, almeno una stretta connessione tra le due figure. La connessione sembra ancor più possibile se la si collega a quanto Gesù ebbe a dire (dopo “esultò di gioia nello Spirito Santo”):
Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. (Lc 10,21)
Di fronte “ai sapienti e ai dotti” (Gesù non poteva non alludere agli scribi ed ai farisei che lo rifiutavano e, a suo tempo, lo faranno morire) Gesù pone i piccoli e i poveri che ha dichiarato “beati”, e non a caso Matteo, preoccupato di fronte a un mondo dedito al formalismo e all’esteriorità, precisa che devono essere “poveri in spirito” (Mt 5,3). In realtà la povertà, prima ancora che la mancanza di beni materiali indispensabili (per sostentarsi, per vivere), sarebbe il non essere condizionati alla ricerca della sicurezza, del “di più” che ci rende tranquilli; è il valore del gratuito, della gratuità dell’amore, che dà non in vista del contraccambio ma per la gioia di dare.
Per corollario noteremo allora come il richiamo fatto da Papa Francesco – con le sue parole ed i suoi gesti – alla Chiesa dei poveri, già annunciata dal Concilio ma progredita a stento, sia non una forma di eccentricità o di buonismo, bensì la consistenza della Chiesa, che non deve garantirsi col potere politico o finanziario, che dev’essere non solo Chiesa per i poveri (come, più o meno, è sempre stata), ma Chiesa dei poveri, se vuol essere la Chiesa di Gesù Cristo, Gesù infatti ha presentato Dio non come un Dio ricco e onnipotente45, ma come l’alternativa alla ricchezza ed al potere, riassunti – come abbiamo già ricordato – nella parola aramaica che in italiano indichiamo come “mammona”:
Nessuno può servire a due padroni, perché odierà l’uno e amerà l’altro oppure s’affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e la ricchezza. (“mammona” – Mt 6,24 e Lc 16,13)
Se torniamo al bambino di cui parla Gesù potremmo anche collegarci al fatto che Gesù aveva detto a Nicodemo (Gv 3,3): “se uno non nasce dall’alto” [n.b. altre traduzioni dicono: non nasce di nuovo] “non può vedere il regno di Dio”, tanto da far ribattere a Nicodemo (ivi, 4): “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Più tardi (Gv 16,21) Gesù osserverà:
La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo.
Verrebbe quasi da pensare che prima di tutto dobbiamo diventare bambini… che stanno nascendo, che passano da uno stato di vita all’altro, dalla vita di Adamo, orgogliosa ed egoista, a quella di Gesù, umile, povera ed aperta agli altri. San Paolo dirà:
Sta scritto infatti che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita… Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. (1Cor 15,44-46)
E preciserà:
Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. (Rom 5,18-19)
La contrapposizione tra morte e vita ci viene indicata dalla prima Lettera di Giovanni, dopo aver accennato a Caino che uccide il fratello e alla realtà dell’odio che c’è nel mondo e che esclude dalla vita: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14).
Se dunque nelle parole di Gesù si può cogliere un sottofondo di allusione al bambino appena nato che affronta una vita nuova, Gesù espressamente parla però di un bambino un po’ cresciuto, come quello che ha chiamato accanto a sé e ha messo in mezzo ai discepoli (Mt 18,2).
Il bambino, crescendo, matura la sua conoscenza e si rende capace di vivere autonomamente utilizzando le sue esperienze, da quelle più generali a quelle più specifiche che costituiranno poi il suo mestiere o la sua professione. Ma questa conoscenza – di erudizione, scientifica o tecnica – che si sviluppa col crescere, soprattutto nell’adolescenza, e lo rende padrone di un ambito di realtà che poi, via via, si allargherà in risorsa e potenza per la collettività (penso alle tante invenzioni che han fatto progredire l’umanità, dall’ambito della medicina a quello… militare), nasce e si sviluppa entro una conoscenza più ampia. Questa è fatta di presa di coscienza di essere nato in un mondo di tonalità diversa, com’è quella dell’amore, che ci ha fatto essere e ci ha accolto, il mondo degli “altri” che ci han fatto crescere, che ci hanno anche trasmesso quelle conoscenze (scientifiche e tecnologiche) che hanno poi arricchito e resa funzionale la nostra esistenza.
Verso il mondo degli “altri” sperimentiamo atteggiamenti di adesione o di ripulsa, che denominiamo “amore” od “odio”, pur con vari livelli che partono dall’indifferenza e possono giungere ad una adesione totale (ad esempio nell’amore nuziale per cui – come testimoniava già Adamo in Gen 2,24 – “l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”) o alla ripulsa totale (come quella che spinse Caino ad uccidere il fratello – Gen 4,8). Ed è questa conoscenza primordiale, fatta di intuizione dell’amore degli altri come corrispondenti a sé, e ancor privo della successiva articolazione del conoscere che tenderà a renderlo autonomo ma anche accorto, scaltro ed egocentrico, ebbene è questa situazione che costituisce “il bambino”.
Si è giunti anche a distinguere queste due dimensioni della mente umana con due denominazioni: anima e spirito. Lo fa già san Paolo (1Tess 5,23: “Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo”), si ritrova nella contrapposizione tra spirituali e carnali dei primi capitoli di 1Cor, l’han fatto nel Medioevo46 ed in epoca Moderna.47 Questo può portarci a pensare a due dimensioni del principio vitale dell’essere umano, la prima come “anima” che fa vivere il corpo, ma che dà all’essere umano la capacità...

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