La concezione anarchica del vivente
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La concezione anarchica del vivente

Jean-Jacques Kupiec, Carlo Milani

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La concezione anarchica del vivente

Jean-Jacques Kupiec, Carlo Milani

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La genetica è nata e si è sviluppata su un presupposto deterministico: la stabilità del gene e la sua trasmissibilità ereditaria. Eppure tutta la biologia contemporanea ci parla della variabilità come di una condizione permanente ed essenziale dell'essere vivente che non può essere ridotta a puro rumore o fluttuazione: il caso non è un accidente che perturba il processo deterministico. Nel vivente non c'è un ordine stabilito bensì un disordine organizzato che rende possibile la vita e la sua evoluzione. Ampliando il campo di applicazione dell'ontologia darwiniana, che assume la variazione aleatoria come forza motrice del processo evolutivo, Kupiec delinea una concezione anarchica del vivente che contesta l'idea di un ordine cogente inscritto nei geni. Gli organismi non sono società centralizzate di cellule che obbediscono al genoma o all'ambiente esterno, ma comunità cellulari autogestite che vivono per sé stesse e che per mantenere le proprie funzioni vitali sono spinte a cooperare, realizzando delle vere e proprie reti di mutuo appoggio. Ed è questa la nuova via che deve intraprendere la ricerca biologica per uscire dalle secche in cui l'ha spinta la genetica.

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Information

Publisher
Eleuthera
Year
2021
ISBN
9788833021393
capitolo secondo
Cos’è la genetica?
La genetica ha invaso tutta la biologia. E pretende di fornire una spiegazione a tutti i fenomeni del vivente. All’inizio si trattava di una teoria dell’ereditarietà con la vocazione di spiegare la trasmissione delle caratteristiche degli esseri da una generazione all’altra; poi è arrivata fino al punto di spiegare il loro stesso funzionamento attraverso l’azione dei geni. Eppure la genetica ha fallito in quanto teoria esplicativa, malgrado l’enorme aumento delle conoscenze fattuali ottenuto dal xix secolo, e malgrado le possibilità biotecnologiche che ha generato. Questo fallimento non è cosa nuova. La genetica ha incontrato difficoltà insormontabili ben prima dell’avvento della biologia molecolare. Il riduzionismo genetico è già stato criticato da parecchi ricercatori, compresi alcuni genetisti, che hanno mostrato fino a che punto sia una semplificazione ridurre i fenomeni biologici all’azione dei geni. Questi ricercatori hanno messo in evidenza il ruolo dell’ambiente, così come quello dell’essere vivente considerato nella sua totalità, facendo anche emergere le difficoltà poste dal concetto di «gene»1. C’è però un aspetto che non è stato analizzato a sufficienza e sul quale porteremo la nostra attenzione. Nell’analisi che segue si mostrerà che in ultima istanza i problemi della genetica derivano da un’ontologia essenzialista che paralizza la vita postulando che sia al tempo stesso in ordine e governata da un principio d’ordine originario.
2.1. La costruzione della genetica
2.1.1. Il mito fondatore. Il racconto abituale della storia della genetica comincia con Gregor Mendel (1822-1884), che avrebbe scoperto il gene e le sue leggi fondamentali. Si tratta di un mito che vuol farci credere che i geni sono entità materiali scoperte per via empirica: contestarne l’esistenza sarebbe quindi altrettanto assurdo che contestare l’esistenza della luna. Per la verità, anche se è possibile far risalire a Mendel l’inizio della genetica, essa rimane pur sempre il risultato di una costruzione durata una cinquantina d’anni. Tale costruzione, come accade per ogni disciplina scientifica, poggia su progressi sperimentali e teorici. Il concetto di «gene» è stato inventato quarantaquattro anni dopo la pubblicazione dei lavori di Mendel per descrivere un insieme di risultati sperimentali; a tali risultati non è mai stato possibile associare in maniera definitiva alcuna entità materiale chiaramente definita2.
Mendel era un monaco austriaco. Abitava a Brno, nel territorio dell’attuale Repubblica Ceca. Aveva studiato scienze all’università di Vienna. Mentre si interessava all’ibridazione delle piante, aveva analizzato la trasmissione dei caratteri qualitativi dei piselli (Pisum sativum), i cui tratti sono riconoscibili a occhio nudo. Si tratta ad esempio della forma dei semi, che possono essere lisci o rugosi, o della lunghezza del fusto, che può essere corto o lungo3. Per realizzare i suoi esperimenti Mendel selezionò in primo luogo delle linee pure di piselli secondo uno di questi caratteri. Una linea pura è una popolazione di esseri viventi che non mostrano mai variazioni del carattere studiato quando si riproducono fra loro. Ad esempio, la progenie di due piselli di linea pura a seme liscio presenta sempre semi lisci. Poi Mendel incrociò queste diverse linee pure e ne studiò la discendenza. Cominciò a incrociare piselli di linea pura dal seme liscio con piselli di linea pura dal seme rugoso. Tutti gli ibridi derivati da questo primo incrocio presentavano semi lisci. Da questo risultato concluse che il tratto «liscio» si impone sul tratto «rugoso». Chiamò il primo un carattere (tratto) dominante e il secondo un carattere (tratto) recessivo. Lasciò poi che gli ibridi si riproducessero fra loro e osservò che nella loro progenie i tratti dominante (liscio) e recessivo (rugoso) erano presenti in proporzione costante, rispettivamente di tre a uno. La ricomparsa del tratto recessivo «rugoso» provava che non era espresso ma si trovava latente, e intatto, negli ibridi derivati dal primo incrocio, e che poteva essere trasmesso alla generazione successiva. A questo punto Mendel suppose che i piselli dai semi lisci che aveva ottenuto da questo secondo incrocio potevano essere di due tipi: simili a piselli dai semi lisci della linea pura con cui aveva iniziato l’esperimento, oppure simili agli ibridi dai semi lisci derivati dal primo incrocio. Per differenziarli li lasciò autofecondare. La sua ipotesi era che la progenie dei piselli di linea pura dai semi lisci avrebbe presentato sempre il carattere liscio, mentre la progenie dei piselli ibridi dal seme liscio sarebbe stata eterogenea, manifestando i tratti liscio e rugoso in un rapporto di 3 a 1, identico a quello che aveva ottenuto con il secondo incrocio. Grazie a questo nuovo esperimento poté constatare che effettivamente erano presenti i due tipi di piselli dai semi lisci, la linea ibrida e la linea pura, in una proporzione rispettivamente di 2 a 1. Per quanto riguarda i piselli recessivi dai semi rugosi derivati dal secondo incrocio, essi avrebbero generato sempre piselli recessivi dai semi rugosi. Da questi risultati Mendel dedusse che il rapporto di 3 a 1 fra i piselli dai tratti dominanti derivati dal secondo incrocio era più precisamente di 1 pisello dai semi lisci simile alla linea pura per 2 piselli dai semi lisci simili agli ibridi derivati dal primo incrocio e 1 pisello dai semi rugosi (ovvero rispettivamente 25%, 50% e 25%, si veda l’equazione alla pagina successiva). Mendel ripeté la stessa serie di incroci con sette diversi caratteri, ottenendo gli stessi risultati. In seguito condusse un’altra serie di esperimenti nei quali studiò la trasmissione di più caratteri contemporaneamente invece che di un solo carattere alla volta: ad esempio, la forma del seme e la lunghezza del fusto. Contò i diversi tipi di piselli portatori di combinazioni diverse dei tratti di questi caratteri, ottenuti da diversi incroci: poté così dimostrare che i caratteri da lui studiati erano indipendenti fra loro; la trasmissione dell’uno non influiva sulla trasmissione dell’altro.
Il lavoro di Mendel è rimasto sconosciuto per trentacinque anni dopo la sua pubblicazione; eppure oggi nei manuali ci si riferisce a lui come al padre fondatore della genetica. Si afferma che ha scoperto i geni ma che li ha chiamati «fattori» o «elementi». Si tratta di una formidabile esagerazione, a dir poco. Per quanto i suoi risultati possano essere stati di capitale importanza per la successiva evoluzione della genetica, Mendel non poteva comprenderli nella maniera in cui sono stati compresi durante l’effettivo sviluppo della genetica, all’inizio del xx secolo. E questo proprio perché non aveva a sua disposizione il concetto di «gene» per interpretare i risultati ottenuti, un concetto che non esisteva ancora e che era lontano mille miglia dall’intravvedere, persino sotto mentite spoglie.
In tutto il suo saggio Mendel parla di caratteri. Non parla di geni che determinerebbero i caratteri come accadrà più tardi, quando la genetica si sarà sviluppata davvero. E fa ricorso al termine «carattere» sia parlando di esseri adulti, sia parlando dei loro gameti. Quando nel suo saggio scrive l’equazione che descrive la proporzione dei piselli derivati dal secondo incrocio (equazione 1) parla sempre di caratteri e non di geni, come invece accade oggi (equazione 2):
(1) L’equazione di Mendel così come lui l’ha scritta:
A + 2 Aa + A
(2) L’equazione di Mendel così come viene scritta oggi:
AA + 2 Aa + aa
Mendel ha utilizzato una lettera, l’A maiuscola, per indicare il carattere dominante di una linea pura, e una lettera, l’a minuscola per indicare il carattere recessivo di una linea pura, accostando le due per indicare il carattere dominante ibrido (Aa). Ha scritto quindi l’equazione (1) per indicare la composizione delle popolazioni di terza generazione dopo aver lasciato che gli ibridi si autofecondassero durante i suoi esperimenti. Oggi invece la linea pura dominante viene indicata con AA, non con A; la linea pura recessiva con aa e non con a; e l’ibrido con Aa. Questi nuovi simboli sono destinati a descrivere la composizione genica e non i caratteri come faceva Mendel. I cromosomi si presentano a coppie. Ognuno dei cromosomi di una coppia proviene da un genitore diverso. Di conseguenza, un essere vivente riceve due copie, o alleli, di uno stesso gene: un allele da un genitore e l’altro allele dall’altro genitore. AA (detto omozigote dominante) significa avere due alleli che causano il carattere dominante; aa (detto omozigote recessivo) significa avere due alleli che causano il carattere recessivo, e Aa (detto eterozigote) significa averne uno di ciascuno. Secondo la teoria genetica moderna, l’allele A possiede un effetto dominante sull’allele a nell’ibrido e impone in questo modo il carattere dominante. Così l’equazione (1) è stata trasformata nell’equazione (2).
Questo punto è cruciale perché l’i...

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