Il teatro dell'essere
eBook - ePub

Il teatro dell'essere

Ermanno Bencivenga

Share book
  1. 144 pages
  2. Italian
  3. ePUB (mobile friendly)
  4. Available on iOS & Android
eBook - ePub

Il teatro dell'essere

Ermanno Bencivenga

Book details
Book preview
Table of contents
Citations

About This Book

Per anni Bencivenga ha sostenuto che ciascuno di noi è un teatro: sul nostro palcoscenico interagiscono numerosi personaggi, echi di tutti coloro che hanno avuto influsso su di noi. Ma come fare in modo che questa interazione sia ricca e produttiva, che non si trasformi in un rito monocorde o in un incubo distopico? Per rispondere Bencivenga si è rivolto ai maestri del teatro. Da Konstantin Stanislavskij ha imparato che le voci sommesse cui perlopiù non diamo ascolto vanno sollecitate a mettersi in luce, come un cacciatore attira un uccello fuori dalla boscaglia. Le diverse ma complementari formulazioni offerte dai suoi allievi Lee Strasberg e Stella Adler gli hanno spiegato come far crescere quelle voci evocando ricordi o coltivando atteggiamenti fisici. La sperimentazione di Jerzy Grotowski ha portato in primo piano il ruolo degli spettatori. Bertolt Brecht ha sottolineato come lo sdoppiamento sia essenziale per non lasciarsi interamente sedurre da un ruolo, per poterlo insieme vivere e giudicare, per prenderne insieme le misure e le distanze. Platone aveva scacciato gli attori dalla sua repubblica ideale, per evitare la molteplicità che incarnavano e la distrazione che causavano, impedendo ai cittadini di concentrarsi unicamente sul loro ruolo sociale. Con un'inversione di centottanta gradi, Bencivenga propone una repubblica degli attori, in cui la molteplicità sia la regola e la distrazione uno strumento prezioso.

Frequently asked questions

How do I cancel my subscription?
Simply head over to the account section in settings and click on “Cancel Subscription” - it’s as simple as that. After you cancel, your membership will stay active for the remainder of the time you’ve paid for. Learn more here.
Can/how do I download books?
At the moment all of our mobile-responsive ePub books are available to download via the app. Most of our PDFs are also available to download and we're working on making the final remaining ones downloadable now. Learn more here.
What is the difference between the pricing plans?
Both plans give you full access to the library and all of Perlego’s features. The only differences are the price and subscription period: With the annual plan you’ll save around 30% compared to 12 months on the monthly plan.
What is Perlego?
We are an online textbook subscription service, where you can get access to an entire online library for less than the price of a single book per month. With over 1 million books across 1000+ topics, we’ve got you covered! Learn more here.
Do you support text-to-speech?
Look out for the read-aloud symbol on your next book to see if you can listen to it. The read-aloud tool reads text aloud for you, highlighting the text as it is being read. You can pause it, speed it up and slow it down. Learn more here.
Is Il teatro dell'essere an online PDF/ePUB?
Yes, you can access Il teatro dell'essere by Ermanno Bencivenga in PDF and/or ePUB format, as well as other popular books in Philosophy & Philosophy History & Theory. We have over one million books available in our catalogue for you to explore.

Information

Publisher
Hoepli
Year
2021
ISBN
9788836006649

1. Tre ipotesi sul soggetto

In America le primarie per la nomina di un candidato alla presidenza possono prendere due forme diverse. Può avere luogo una normale consultazione elettorale: i votanti si recano ai seggi e vi depositano una scheda (o vi schiacciano un bottone). Oppure può svolgersi una sorta di assemblea (in inglese caucus): un gruppo di iscritti a un partito si riunisce, discute e fa una prima valutazione; i candidati che non raggiungono una certa percentuale di consensi (diciamo il 15%) non sono considerati «praticabili» e i loro sostenitori, se vogliono che il loro voto conti, devono distribuirsi sugli altri candidati. Questo processo può essere ripetuto; alla fine, i delegati alla convenzione (ciascuno vincolato a un particolare candidato) vengono selezionati in proporzione ai voti espressi.
Nelle primarie 2020, il sistema dei caucus è stato vivacemente criticato: in Iowa, per il fallimento di un’applicazione digitale che ha reso i dati a lungo inaccessibili, e in Nevada, dove è stato consentito di votare in absentia presentando una lista ordinata di preferenze ma senza partecipare all’assemblea, perché molti erano preoccupati che il loro voto (se le loro prime scelte non fossero risultate praticabili) finisse per non rappresentare adeguatamente le loro intenzioni. Questo secondo tipo di critica è di grande interesse ai miei scopi attuali perché, più di sofisticate teorie filosofiche, mostra qual è la nozione di io, di soggetto, corrente nella società contemporanea (occidentale, mi affretto ad aggiungere, perché di altre società so poco). L’io è un luogo originario di scelta: nelle sue scelte (o decisioni) manifesta le sue intenzioni e in senso globale la sua volontà, e di tali scelte è consapevole e responsabile; può maturarle in un confronto anche serrato con altri soggetti, ma quando il confronto arriva a termine è suo diritto e dovere assumersi il carico di quanto ha deciso, in totale indipendenza dalle decisioni altrui. Una persona può essere costretta, con la violenza o con le minacce, a comportarsi in modo contrario alle sue intenzioni; ma nessuno può costringerla a volere qualcosa di diverso da quel che vuole. Chi dunque, in Nevada, non avesse partecipato alla discussione dell’assemblea non avrebbe saputo come ne sarebbero state influenzate le sue intenzioni e avrebbe temuto che l’uso fatto del suo voto finisse per violarle; come risultato, la sua soggettività, ciò che lui (o lei) era, sarebbe stato soppresso e negato.
In un’elezione è in gioco il futuro politico di uno Stato, che inciderà sul destino di ogni votante; è un punto insomma in cui i nodi della vita vengono al pettine e ideologie altrimenti implicite (in questo caso, l’ideologia della soggettività: l’idea che abbiamo del soggetto) emergono con notevole chiarezza. Da altri punti di analoga intensità e delicatezza emerge un identico messaggio. Se ho danneggiato qualcuno o qualcosa e affronto un processo penale, diventa di fondamentale importanza determinare le mie intenzioni: se infatti il danno fosse accaduto al di là delle mie intenzioni, o addirittura in contrasto con esse, la mia responsabilità diminuirebbe, o addirittura scomparirebbe. Se a conclusione di un negoziato appongo la mia firma su un contratto, quella firma esprime la mia volontà, quindi io ne risulto vincolato e dovrò adempiere agli obblighi che il contratto prevede. Se scelgo di battezzarmi, agli occhi di una certa religione è una scelta che mi salva – salva la mia anima, che per quella religione costituisce la mia identità – dal flagello del peccato originale.
Cartesio offre una variante radicale di questa comune interpretazione del soggetto. Per lui io sono la mia mente, e di essa e dei suoi contenuti ho assoluta certezza. Tutto il mondo intorno a me potrebbe essere un miraggio, un sogno (o un incubo); io potrei non avere un corpo; perfino le verità che mi sembrano più ovvie (per esempio che 2 + 2 = 4) potrebbero essere false, e la mia convinzione che siano vere essere frutto dell’inganno sistematico perpetrato da un genio maligno; ma niente potrà mai attentare alla certezza che ho della mia esistenza e coscienza. Ai contenuti della mia mente – a ciò di cui sono conscio – ho un accesso veridico, trasparente e privilegiato. Se ho coscienza di pensare a mia moglie, è vero che penso a mia moglie. Se ho coscienza di volere un gelato, so esattamente che cosa voglio. E, se tu vuoi sapere che cosa penso, voglio, immagino, affermo o nego devi chiederlo a me, perché io sono non solo la maggiore, ma l’unica autorità al riguardo.
È questa autorità assoluta sul proprio io che gli elettori difendono gelosamente, per essere sicuri che sia riconosciuta e tenuta nel debito conto. È a questo accesso privilegiato alla propria vita mentale che un imputato fa appello quando insiste che, sì, la vittima è morta per causa sua ma lui non voleva ucciderla, ed è il solo a poterlo dire. Portando la tendenza a un estremo che appare assurdo e ridicolo ma proprio perciò è specialmente rivelatore, era su questo indissolubile legame fra intenzione e responsabilità che si basavano i confessori delle nobildonne seicentesche quando consigliavano loro, se proprio dovevano commettere un adulterio, di ripetere costantemente a sé stesse, nel corso dell’atto, che non intendevano compierlo: tanto sarebbe bastato per garantire loro l’innocenza – perché sono le intenzioni che ci definiscono, non gli atti.
L’atteggiamento cartesiano è compendiato nella famosa clausola «Cogito, ergo sum» («Penso, dunque sono»; spesso denominata semplicemente «cogito»): sia pure tutto ciò che mi sta intorno (che sembra starmi intorno) un’allucinazione onirica, sia pure io soggiogato da un essere malevolo deciso a ingannarmi; rimane innegabile che se sogno allora penso (in un senso molto ampio di «pensare», che include ogni attività mentale), penso se sono ingannato e non potrei pensare se non esistessi. La mia esistenza, la coscienza che ne ho e la coscienza che ho di qualsiasi altra cosa, vera o falsa, reale o fittizia che sia, sono fuori discussione. Eppure, nonostante la fama di questo ragionamento e la sua apparente ineccepibilità, l’affermazione che ne segue (che sembra seguirne) potrebbe essere azzardata. Non per l’inferenza che viene compiuta dal pensiero all’essere: un sogno, un’allucinazione, un miraggio, un’opinione sbagliata certo sono qualcosa (come sono qualcosa un ricordo, un desiderio, un rimpianto, un’opinione corretta). Ma per la prima persona singolare che il cogito usa: per il passo implicito che fa dall’esistenza del pensiero all’esistenza di me come pensante. Nel Trattato sulla natura umana, David Hume contesta con eloquenza questo passo:
Ci sono alcuni filosofi, i quali credono che noi siamo in ogni istante intimamente coscienti di ciò che chiamiamo il nostro io: che noi sentiamo la sua esistenza e la continuità della sua esistenza; e che siamo certi, con un’evidenza che supera ogni dimostrazione, della sua perfetta identità e semplicità. Le sensazioni più forti, le passioni più violente, dicono essi, invece di distrarci da tale coscienza, non fanno che fissarla più intensamente e mostrarci, col piacere e col dolore, quanta sia la loro influenza sull’io. Tentare un’ulteriore prova di ciò sarebbe, per essi, indebolirne l’evidenza: non c’è nessun fatto del quale noi siamo così intimamente coscienti come questo; e se dubitiamo di questo, non resta niente di cui si possa esser sicuri. Disgraziatamente, tutte queste recise affermazioni sono contrarie all’esperienza stessa da essi invocata: noi non abbiamo nessun’idea dell’io, nel modo che viene qui spiegato. […] [N]on c’è nessuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente, e non esistono mai tutti insieme. Non può essere, dunque, da nessuna di queste impressioni, né da alcun’altra, che l’idea dell’io è derivata: per conseguenza, non esiste tale idea. Inoltre, che cosa diventano, secondo questa ipotesi, tutte le percezioni particolari? Esse sono tutte differenti, distinguibili e separabili, e possono esser considerate ed esistere separatamente l’una dall’altra senza bisogno di nulla che ne sostenga l’esistenza. (263-264)
Lasciando da parte la distinzione humiana, a sua volta controversa, fra impressioni e idee (cioè fra contenuti mentali più o meno vividi e intensi), il senso generale qui formulato è piuttosto chiaro. Esistono quelli che ho appena chiamato contenuti mentali, ma non esiste (o quantomeno non si dà alcuna evidenza che esista) un contenitore; esistono episodi di vita mentale ma non una mente, un cogitare ma non un cogito, un’esperienza ma non un soggetto di quell’esperienza, un io cui l’esperienza possa essere attribuita. Se Cartesio trova nel soggetto una certezza inattaccabile, anzi fa di tale certezza la base per una ricostruzione dell’intero edificio della conoscenza che presume di estendergli la medesima certezza, Hume offre invece, del soggetto, una visione nichilista: non esiste nulla del genere; si tratta di un’illusione. O di una finzione logico-grammaticale, come suggerisce, riproponendo in sostanza la tesi humiana (ma senza riferimenti a Hume), Friedrich Nietzsche in Al di là del bene e del male:
Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò mai di tornare sempre a sottolineare un piccolo, esiguo dato di fatto, che malvolentieri questi superstiziosi sono disposti ad ammettere, – vale a dire, che un pensiero viene quando è «lui» a volerlo, e non quando «io» lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto «io» è la condizione del predicato «penso». Esso pensa: ma che questo «esso» sia proprio quel famoso vecchio «io» è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non affatto una «certezza immediata». E infine, già con questo «esso pensa» si è fatto anche troppo: già questo «esso» contiene un’interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso. Si conclude a questo punto, secondo la consuetudine grammaticale: «Pensare è un’attività, a ogni attività compete qualcuno che sia attivo, di conseguenza…». (21-22)
Per trovare una terza via, intermedia fra certezza e nichilismo, cominciamo risalendo alle origini della nostra tradizione filosofica. Nel Gorgia platonico, il personaggio Socrate incontra Callicle, il suo nemico più formidabile: quello che, per ammissione dello stesso Socrate, ha il coraggio di dire ciò che gli altri si limitano a pensare. Callicle tesse una lode sperticata del piacere e della sua ricerca indiscriminata («il vivere felici consiste nell’avere tutte le […] passioni e nel soddisfarle piacevolmente», 211). Socrate gli obietta che la sua anima somiglierebbe allora a un vaso bucato, incapace di trattenere (come farebbe invece un vaso integro) i liquidi che gli vengono versati dentro, senza però riuscire a persuaderlo – Callicle insiste che «il piacere della vita consiste in questo: nel versare quanto più è possibile nei vasi» (209). È uno scambio interessante, perché ci riporta alla metafora di contenuto e contenitore: un vaso bucato è come se non esistesse, quindi dire che l’anima di Callicle somiglia a un vaso bucato significa che Callicle è precisamente nelle condizioni descritte da Hume e Nietzsche. Esperienze di ogni genere si susseguono, e non possiamo neanche aggiungere «in lui», perché «lui» è appunto un vaso bucato, sommerso dal puro, travolgente scorrere di quelle esperienze, incapace di offrire loro qualsiasi resistenza, di dirigerle in un modo qualsiasi. (Per giocare più a fondo con la metafora, si potrebbe dire che il vaso presenta qualche resistenza e impartisce qualche direzione, ma solo nella misura in cui non è bucato, in cui trattiene e contiene il liquido che lo attraversa; quindi per rappresentare l’anima concepita da Hume e Nietzsche, e impersonata da Callicle, ci vorrebbe forse un’immagine diversa.)
Fermiamoci un attimo per una precisazione. La parola greca «psyché» (che originariamente voleva dire farfalla) può essere resa in modo altrettanto appropriato con «anima» e con «mente». Siccome Platone crede che la psyché sia una sostanza distinta dal corpo, che non muore quando il corpo muore, la traduzione «anima» è da preferire, perché in varie tradizioni religiose così viene denominata una sostanza analoga. Ma, indipendentemente da questa tesi filosofica (e religiosa), che si può accettare o rifiutare (e io la rifiuto), va osservato che, a livello lessicale, le due parole italiane hanno nel nostro contesto lo stesso senso: si riferiscono alla componente immateriale del nostro essere, cui afferiscono pensieri, desideri, opinioni, scelte… Quindi mi riterrò autorizzato a utilizzarle in modo intercambiabile.
Torniamo a noi. L’identità del soggetto cartesiano viene affermata distinguendola da tutto quanto d’altro esiste, opponendosi a questo altro. Il soggetto non è il mondo, non è la materia estesa, non è il suo corpo e non è Dio. Per Hume e Nietzsche, il soggetto scompare e rimane solo il suo altro: una serie di impressioni e idee che, secondo Cartesio, il soggetto ha mentre secondo Hume e Nietzsche non appartengono a nessuno e stanno ognuna per conto suo – ognuna distinta da ogni altra e ognuna distinta da quel soggetto che si credeva le avesse e si è rivelato una finzione. Il soggetto-Callicle descritto da Platone si trova nelle condizioni ipotizzate da Hume e Nietzsche: si disintegra nel caleidoscopio del suo altro. Ma, per Platone, questo soggetto disintegrato è il risultato di un fallimento: se pure in origine esistesse solo l’altro del soggetto, non ne seguirebbe che questo debba essere l’esito del percorso. Un soggetto che non esisteva può essere costruito: la sua identità non è immediatamente data (come in Cartesio) ma può risultare da un opportuno lavoro.
Nella Repubblica si dimostra che l’anima è composta di vari elementi. Ce ne sono almeno tre: la ragione, gli appetiti e l’orgoglio; e sono distinti perché in varie circostanze si trovano in contrasto fra loro, spingendoci in direzioni opposte – una singola cosa non potrebbe avere un comportamento così contraddittorio.
[N]on notiamo […] che, quando una persona è dominata da violenti desideri che contrastano con la ragione, essa si rimprovera e prova un senso di sdegno contro l’elemento violento che è in lei? […] E quando uno pensa di subire un torto? Non è vero che allora ribolle d’ira, si stizzisce e si fa alleato di quella che gli sembra giustizia? e, attraverso la fame, il freddo e ogni simile patimento, tenacemente resistendo vince, senza desistere dai suoi nobili sforzi finché non riesce o muore o si ammansisce alla voce della ragione che è in lui? (154)
Un’argomentazione simile, peraltro, potrebbe convincerci che di elementi ce ne sono molti di più, perché anche gli appetiti si trovano spesso in contrasto fra loro: la fame o la sete e il sesso, per esempio. Questo è il destino del tiranno, la cui anima è sempre in balìa dell’ultima passione che vi ha preso il sopravvento, vi regna temporaneamente (e tirannicamente) ma è pronta a essere soppiantata dalla successiva: la disintegrazione raggiunge qui l’apice e l’anima non ha voce in capitolo.
[L]’anima soggetta a un tiranno non farà per nulla quel che vuole (intendo parlare dell’anima nel suo insieme), ma, trascinata sempre e con violenza dall’assillo, sarà piena di confusione e di rimorso. (298)
Tale è però, ripeto, solo un esito possibile: la molteplicità può essere controllata e dominata; i molti possono diventare uno, agire all’unisono, in modo uniforme e unitario. A realizzare questo ideale provvede l’educazione dei cittadini, e in particolare dei reggenti, che causa la loro soggezione alle leggi immutabili dello Stato e introduce nelle anime individuali e nello Stato stesso (i quali hanno, per Platone, un’uguale struttura) la giustizia, così definita: sono giusti quello Stato e quell’anima in cui ogni elemento svolge il ruolo cui è destinato, senza interferire nei ruoli altrui, in cui quindi coloro che sono destinati a governare non subiscono intrusioni da parte di chi è destinato ad altro compito. Nel caso dello Stato, Platone spiega:
Quando […] uno che per natura è artigiano o un altro che per natura è uomo d’affari e che poi si eleva per ricchezza o per numero di seguaci o per vigore o per qualche altro simile motivo, tenta di assumere l’aspetto del guerriero; o un guerriero quello di consigliere o guardiano, anche se non ne ha i requisiti; e costoro si scambiano gli strumenti e gli uffici; o quando la stessa persona intraprende tutte queste cose insieme, allora, io credo, anche tu penserai che questo loro scambiarsi di posto e questo attendere a troppe cose sia una rovina per lo stato. […] Ecco dunque che cosa è l’ingiustizia. E viceversa possiamo dire così: se le classi degli uomini d’affari, degli ausiliari, dei guardiani si occupano soltanto della propria attività, quando ciascuna di esse esplica il compito suo entro lo stato, questo fatto, contrariamente al caso di prima, non sarà la giustizia e non renderà giusto lo stato? (147)
Coerentemente con tale programma, Platone esige una minuziosa disciplina nell’allevamento di bambini e giovani. Si dovranno «sorvegliare i favoleggiatori» e persuadere «le nutrici e le madri» (85) per impedire che raccontino storie indegne su dèi ed eroi: che Crono e Zeus abbiano castrato i rispettivi padri, che Latona abbia fatto uccidere i figli di Niobe, che Achille «fosse tanto attaccato al denaro da ricevere doni da Agamennone e da restituire un cadavere soltanto dopo averne riscosso il prezzo» (101). Non si dovranno cercare «ritmi variati né cadenze d’ogni specie, ma vedere quali sono i ritmi appropriati a una vita ordinata e virile; e quando si sono veduti, obbligare il piede e la melodia ad adeguarsi alle parole proprie di un simile genere di vita, e non le parole al piede e alla melodia» (111). Si dovranno imporre cibi semplici e poco conditi, che siano approntati con facilità, rifuggendo «la tavola siracusana e la varietà gastronomica siciliana» (116). Anche sui giochi si dovrà vigilare, perché per loro tramite la trasgressione non prenda a «stabilirsi piano piano e infiltrarsi dolcemente e subdolamente nei caratteri e nelle abitudini» (136). E si dovranno osservare con attenzione i bambini impegnati nei giochi, per cogliere al più presto in alcuni di loro le doti che compet...

Table of contents