Stephen Hawking
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Stephen Hawking

Storia di un genio

Leonard Mlodinow

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Stephen Hawking

Storia di un genio

Leonard Mlodinow

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Icona della fisica, Stephen Hawking sembra l'incarnazione stessa del genio; dai tempi di Albert Einstein, è la prima figura scientifica tanto ammirata dal pubblico. In questa coinvolgente biografia, lo scrittore e fisico Leonard Mlodinow racconta la storia del suo amico e collega, offrendo un'intima descrizione di questo gigante della scienza.I due si incontrarono nel 2003, quando Stephen chiese a Leonard se volesse scrivere un libro con lui. Negli anni trascorsi a lavorare alla Grande storia del tempo e poi al Grande disegno, forgiarono un legame profondo e Leonard arrivò a capire e interpretare la vita quotidiana di Stephen, nelle sue difficoltà e nel suo humour. Insieme discutevano in modo ossessivo sulla frase perfetta, ragionavano di fisica e a volte facevano punting sui canali di Cambridge con champagne e fragole.Con il tempo, Leonard imparò a finire le battute di Stephen e capì come gli ostacoli determinati dalla malattia lo avessero aiutato a elaborare una prospettiva unica sull'universo.Intrecciando la storia della loro amicizia con una descrizione chiara e accessibile delle conquiste scientifiche di Hawking, Mlodinow ritrae Stephen come uomo brillante, irriverente e generoso, la cui vita è stata non solo eccezionale ma anche un esempio stimolante.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2021
ISBN
9788836006533

1

Non sono il tipo che si sorprende facilmente, ma la prima visita a Cambridge, nel 2006, mi lasciò a bocca aperta. Quell’estate Stephen compiva sessantaquattro anni, e benché molti dettagli della sua vita non corrispondessero a quanto descrive il film che Hollywood gli ha dedicato, i dettagli di Cambridge somigliavano molto a ciò che avevo visto in un altro film, su Harry Potter. Cambridge era Hogwarts. Forse le zone più periferiche sono meno antiche e affascinanti, ma rimasi praticamente sempre vicino alla “vecchia Cambridge” ben nota a Newton, un accumulo di stradine ed edifici di pietra spuntati qua e là, apparentemente a caso. Essi ospitano molte strutture dell’università, mescolate a chiese e cimiteri medievali. Abbondano alte mura costruite secoli fa per proteggere gli studenti dagli abitanti della città, vicoli stretti e stradine quasi altrettanto strette lastricate di mattoni, che formano un groviglio a mo’ di linguine flaccide.
Si capisce bene la pianta irregolare e non pianificata della città quando ci si rende conto che l’università fu fondata ottocento anni fa, secoli prima che René Descartes inventasse il suo comodo sistema di coordinate perpendicolari. Eppure “vecchio” è un termine relativo: la zona di Cambridge è in realtà abitata dall’epoca preistorica. Oggi l’università è composta di trentuno college più o meno autonomi e in città vivono oltre 100.000 persone.
Per quanto Cambridge somigliasse a Hogwarts, c’era una differenza essenziale: vi si fanno magie vere. Essa ospita il porticato dove Newton misurò la velocità del suono grazie all’eco creata pestando i piedi; il laboratorio costruito da James Clerk Maxwell, che carpì i segreti dell’elettricità e del magnetismo, e dove J.J. Thomson scoprì l’elettrone; il bar dove Watson e Crick bevevano birra e parlavano di genetica; l’edificio che ospitò gli esperimenti accurati di Ernest Rutherford, scopritore dei misteri della struttura atomica.
Cambridge va giustamente fiera della sua tradizione scientifica e chiama Oxford “quell’altra scuola”, più orientata alle discipline umanistiche. Il direttore del dipartimento di Stephen mi disse che lui, come Stephen, aveva fatto l’università a Oxford, dove gli studenti dovevano comporre temi su argomenti scientifici, invece di ricevere i soliti esercizi come compito a casa. Raccontava che aveva provato ad assegnare temi a Cambridge ma gli studenti non li avevano mai svolti. Erano scienziati irriducibili; se nel loro destino c’era un Nobel, non sarebbe stato per la letteratura.
Nelle mie visite, Stephen aveva fatto in modo che fossi ospitato al college cui apparteneva, Gonville & Caius,* in una zona della vecchia Cambridge che risaliva al Trecento. Nel primo giorno della mia prima visita decisi di andare a piedi fino allo studio di Stephen. Ci volevano solo venti minuti, ma il sole picchiava e non ero abituato all’umidità. Stephen aveva sempre apprezzato l’inverno al Caltech, che godeva del clima tipico della California meridionale. Là aveva meno infezioni polmonari, mentre odiava i gelidi inverni di Cambridge. Una volta arrivato a Cambridge mi resi conto che neanche le sue estati erano tanto piacevoli. Gli inglesi si lamentano molto del tempo atmosferico. E hanno ragione.
Una volta arrivato al Centre for Mathematical Sciences, il complesso di edifici dove Stephen aveva lo studio, non vedevo l’ora di trovarmi al chiuso. Ma era difficile individuare l’edificio giusto. Il Centre è formato da sette padiglioni disposti a parabola, fatti di mattoni, metallo e pietra, con grandi finestre e un aspetto futuristico che ricorda un po’ i templi giapponesi. Mi piacevano le finestre, ce n’erano molte. I progettisti del complesso avevano vinto qualche premio per l’architettura, ma l’elemento architettonico che avrei apprezzato di più sarebbero state frecce su cartelli che dicevano “Per trovare Stephen Hawking, di qua”.
Il padiglione di Stephen era adiacente a un edificio più vecchio chiamato Isaac Newton Institute. Quando si conosceva Stephen il nome di Newton ricorreva spesso. Addirittura lo paragonavano a Newton, il che è curioso perché Stephen non lo apprezzava. Newton si era dato a molti battibecchi meschini e quando si trovava in una posizione di potere ne approfittava per tessere intrighi e vendicarsi. Rifiutò di riconoscere i contributi di altri in qualsiasi sua scoperta, neanche ammise che era stato influenzato da idee altrui. Era inoltre privo di senso dell’umorismo. Una persona di famiglia che lo aveva assistito per cinque anni disse di averlo visto ridere una sola volta, quando gli fu chiesto perché mai si dovrebbe studiare Euclide. Avevo letto varie biografie di Newton e, nonostante i titoli variassero, una qualsiasi avrebbe potuto chiamarsi Isaac Newton: che razza di idiota.
Rispetto a come Stephen valutava il carattere di Newton, però, è forse più rilevante che al liceo si era annoiato a studiare la fisica newtoniana. Gli scienziati si entusiasmano per le scoperte, quando vengono rivelati fenomeni di tipo ancora sconosciuto, o quando riescono a ottenere una descrizione mai concepita da altri. Ma poiché le leggi di Newton descrivono il mondo quotidiano, e sono vecchie di secoli, la fisica liceale non riservava alcuna sorpresa. Al liceo gli insegnanti usano le leggi di Newton per descrivere le oscillazioni del pendolo o predire che cosa succede quando si scontrano due palle da biliardo. A Stephen la conclusione sembrava: le persone divertenti giocano a biliardo; i fisici scrivono le equazioni per descriverlo. In quei primi anni di studio, perciò, la fisica spazientiva Stephen. Preferiva la chimica, dove almeno ogni tanto esplode qualcosa.
Il padiglione di Stephen al Centre for Mathematical Sciences ospitava il Department of Applied Mathematics and Theoretical Physics o DAMTP, come veniva chiamato con familiarità, omettendo la P nel pronunciare l’acronimo. Il DAMTP era famoso in tutto il mondo in quanto dipartimento universitario di Stephen Hawking.
L’edificio di Stephen aveva solo tre piani, e le rampe di scale giravano attorno al pozzo dell’ascensore. Salii a piedi fino al secondo piano. L’edificio era accessibile alle sedie a rotelle; Stephen si irritava spesso di fronte alle barriere architettoniche. Questa è un’altra cosa che gli faceva apprezzare il Caltech: nel 1974, quando aveva accettato di trascorrervi un anno, tra le iniziative intraprese per accoglierlo l’università aveva reso l’intero campus accessibile ai disabili. Negli Stati Uniti una tale ristrutturazione fu resa obbligatoria soltanto nel 1990, quando fu approvato l’Americans with Disabilities Act.
Arrivai in cima alle scale e girai a sinistra, trovandomi di fronte allo studio di Stephen. La porta era chiusa. Non potevo sapere che cosa significasse, ma presto lo avrei imparato. La situazione mi rese un po’ nervoso, oltre al fatto di trovarmi per la prima volta nel luogo dove era di casa lui.
Mentre mi avvicinavo alla porta di Stephen, la guardia del suo palazzo venne a intercettarmi. Si chiamava Judith. Lo studio di Stephen era sull’angolo e lei aveva quello accanto. Si frappose fra me e la porta di Stephen. Judith incuteva soggezione: sulla cinquantina, aveva una corporatura robusta e un carattere che non era da meno. Da giovane aveva trascorso quattro anni alle Figi, dove aveva studiato l’arteterapia come alternativa pionieristica all’elettroshock per i criminali malati di mente. Laggiù le avevano assegnato un paziente che aveva tagliato la testa al padre; nel giro di poche settimane aveva ottenuto che disegnasse palme con le matite colorate. Se era stata in grado di gestire lui, avrebbe saputo gestire anche me.
“Sei Leonard?” chiese. Aveva una voce forte. Assentii. “Piacere di conoscerti di persona”, disse. “Ci vorranno pochi minuti. Stephen è sul divano.”
Stephen è sul divano. Che cosa significava? Io mi metto sul divano per schiacciare un pisolino e guardare i film. Non credevo che in quel momento lo scopo fosse analogo. Ma poiché mi sembrava scortese fare domande, assentii come se fosse normale aspettare uno scienziato famoso mentre se la prende comoda sul divano.
Judith e io non ci eravamo mai incontrati, ma avevamo scambiato varie e-mail e ci eravamo parlati al telefono. Sapevo che era una forza importante nell’universo di Stephen. Quando si chiedeva di incontrare Stephen, era lei a decidere se lui avesse tempo. Quando si telefonava, rispondeva lei e gli portava la chiamata (oppure no). Quando si scriveva a Stephen, era lei a decidere se informarlo della lettera e, se era importante, a leggergliela. L’unica volta a me nota in cui qualcuno ebbe la meglio su di lei fu durante una visita in Sudafrica, quando Stephen incontrò Nelson Mandela, che ammirava molto. All’epoca Mandela era novantenne. Non era per niente pratico di tecnologia e per qualche motivo lo metteva a disagio il fatto che Stephen parlasse tramite il computer. Inoltre Mandela era in cattiva salute. “Un po’ oltre la scadenza”: questa fu la descrizione che ne aveva dato Stephen, curiosa perché quel giorno neanche lui era in gran forma e aveva quasi dovuto disdire l’appuntamento. Ma Judith era fra le persone che lo avevano accompagnato in quel viaggio e desiderava incontrare Mandela, così aveva fatto in modo che Stephen andasse, e insieme alla badante era salita sull’automobile che li avrebbe condotti da Mandela. Ma questi aveva una sua Judith, una signora di nome Zelda; quando Stephen e la badante furono fatti entrare nella stanza dove si trovava Mandela, Zelda si fece avanti per bloccare Judith. Aveva infatti deciso che sarebbe stata troppa gente per l’anziano Mandela. Zelda aveva così battuto Judith con i suoi stessi metodi.
Mia madre diceva sempre: “Volere è potere.” Diceva tante cose, ma questo adagio aveva senso. In effetti ogni sistema di sicurezza ha qualche punto debole, e quello di Stephen non faceva eccezione. Aveva un ingresso secondario. Era possibile aggirare Judith e contattare Stephen direttamente se si conosceva l’indirizzo e-mail che lui forniva agli amici e controllava in prima persona. Il problema era che molto spesso non rispondeva. Come mi disse Kip, grande amico di Stephen da decenni: persino a lui Stephen rispondeva solo metà delle volte. Magari Stephen aveva comunque letto l’e-mail, ma non si sapeva mai come interpretare l’assenza di risposta. Se l’aveva letta, rispondeva non a seconda della rilevanza per il mittente, ma di quanto la faccenda era rilevante per lui. Poiché comunicava alla velocità di sei parole al minuto, doveva scegliere con cura le risposte da elargire.
Se Judith aveva il mittente in simpatia, poteva essere d’aiuto anche in quell’aspetto. Quando la si metteva in copia nell’e-mail, o gliela si inoltrava, lei la stampava, andava da Stephen e gliela leggeva. E se lui esitava a rispondere, lo spronava. Oppure, se avevo bisogno di parlare con lui, chiamavo lei che si sedeva insieme a lui e rispondeva con il vivavoce sul tavolo di lui. Ma se invece Judith aveva deciso che Stephen aveva di meglio da fare che rispondere a una certa persona, lui sarebbe risultato stranamente irraggiungibile ai tentativi di contattarlo. Dopo una chiacchierata di qualche minuto il telefono di Judith squillò, e lei mi chiese di rimanere nel suo studio mentre controllava un attimo quello di Stephen. Un attimo dopo venne fuori a cercarmi. La porta di Stephen era ormai aperta.
Images
Judith mi guidò nello studio di Stephen. Lui era lì, seduto sulla famosa sedia a rotelle, dietro il famoso tavolo. Aveva lo sguardo rivolto in basso, verso lo schermo del computer. Il viso aveva un’aria giovanile per i suoi sessantaquattro anni. Indossava una camicia con bottoncini sul colletto; i primi due bottoni erano slacciati lasciando scoperto lo stoma, l’apertura alla base del collo tramite cui respirava. Sembrava un circoletto di sangue rosso scuro grande come una moneta. Poiché Stephen era molto magro, la camicia e i pantaloni laschi parevano cascanti. I soli muscoli che poteva muovere regolarmente erano quelli facciali; dato che gli altri erano deteriorati, il corpo era flaccido e la postura ne risentiva. La testa si trovava innaturalmente bassa tra le spalle, come sprofondandovi, ed era un po’ inclinata. Alla televisione tutto ciò faceva parte del suo aspetto, ma di persona era un po’ inquietante e, pur avendo lavorato con lui al Caltech, non mi ci ero ancora abituato. Eppure Stephen era una celebrità, e mi sentii un po’ intimidito: chi ero io per meritare che avrebbe trascorso tanto tempo con me, che in previsione di ogni mia visita si tenesse libero da qualsiasi impegno per una settimana o più?
“Ciao Stephen”, dissi, benché non avesse alzato lo sguardo. “Sono contento di vederti. E felice di essere qui. Cambridge mi piace molto!”
Continuava a tenere lo sguardo basso. Aspettai un minuto. Iniziai a sentirmi a disagio. Poi, per riempire il silenzio, dissi: “Non vedo l’ora di iniziare il libro.”
Non appena pronunciate queste parole, me ne pentii. Mi sembrava uno sciocco stereotipo, che in ogni caso non riempì molto il silenzio. A rigore, poi, ciò che avevo detto non era vero. Nell’ultimo paio di visite di Stephen al Caltech avevamo già lavorato un po’ al libro. Ma all’epoca ci eravamo limitati a discutere degli argomenti da trattare; non avevamo ancora scritto nulla.
Cercai di pensare ad altre cose da dire, qualcosa di più arguto, ma non mi veniva in mente nulla. Infine notai che Stephen stava contraendo la guancia: era il suo metodo per scrivere. Un sensore negli occhiali rilevava le contrazioni e le traduceva in clic del mouse, che gli permettevano di scegliere lettere, parole o frasi da un elenco man mano che il cursore si spostava sul suo schermo. Era un po’ come un gioco al computer. Poiché stava scrivendo qualcosa, immaginai che avrebbe risposto al mio blaterare maldestro. Avrebbe detto qualcosa e mi sarei sentito sollevato. Dopo un attimo risuonò infine la sua voce sintetizzata. Ma disse soltanto: “Banana.”
Fui spiazzato. Avevo fatto un volo di 10.000 chilometri, arrivando un paio di giorni in anticipo per avere la mente fresca al momento del nostro incontro, e l’unica reazione che ottenevo era “banana”? Che cosa significa quando si saluta qualcuno e l’altro risponde con il nome di un frutto? Ci pensai su. Ma a quel punto Sandi, la badante, balzò su dal divano dove leggeva un romanzo rosa.
“Banana e kiwi?”, chiese lei.
Stephen inarcò le sopracciglia, il che voleva dire sì.
“E tè?”
Di nuovo lui segnalò una risposta positiva.
Mentre Sandi raggiungeva il cucinotto alle spalle di lui, Stephen si rivolse infine verso di me. Ci scambiammo uno sguardo. A quel punto sembrava che non avesse bisogno di parole. Aveva un’espressione calorosa e felice che mi disarmò. Mi sentii in colpa per la mia impazienza. Iniziò a scrivere qualcosa. Dopo circa un minuto, vennero infine fuori le parole che aspettavo. “Benvenuto al DAMTP”, disse la sua voce.
Capivo che non ci sarebbero stati molti convenevoli, e mi andava bene. Era vero che non vedevo l’ora di mettermi al lavoro. Ma proprio in quel momento entrò un uomo di mezza età. Era un professore di Cambridge, un cosmologo abbastanza noto; lo riconobbi ma non mi venne in mente il nome. Lui non lo specificò di propria iniziativa e ovviamente Stephen non sprecò energie a presentarci. “Vorrei parlarti di Daniel”, disse a Stephen, ignorandomi. “Hai un attimo?”
Negli anni successivi trovai sempre scoccianti cose del genere. La gente capitava in qualsiasi momento e ci interrompeva durante il lavoro. Dicevano sempre: “Solo un attimo”, ma presto scoprii che “un attimo” era un eufemismo per “parecchi attimi”. In genere, una volta entrati, i colleghi di Stephen gli parlavano a lungo. Quelle interruzioni mi irritavano, ma Stephen non sembrava affatto infastidito.
Stephen inarcò le sopracciglia, il che voleva dire sì; di conseguenza avrei dovuto aspettare. Per qualche tempo la conversazione fu abbastanza interessante. Sembrava che la borsa di studio di questo Daniel fosse giunta al termine, senza che lui riuscisse a completare il dottorato. Ma si impegnava ed era ben lanciato. Forse il dipartimento avrebbe potuto trovare altri soldi per pagarlo finché avesse finito? Spettava a Stephen, in quanto direttore del gruppo di relatività generale, decidere come assegnare certi fondi a studenti e giovani ricercatori postdoc per pagare gli stipendi, i viaggi e altre necessità.
Dopo qualche minuto mi distrassi. Diedi uno sguardo in giro per la stanza. Era più o meno rettangolare, e la porta si trovava su un lato lungo. Lungo la parete opposta, varie finestre molto luminose offrivano una bella vista del complesso dall’aspetto futuristico.
Il tavolo di Stephen era appena a sinistra quando si entrava, perpendicolare alle finestre. Il divano era a destra, addossato alla stessa parete. Dietro Stephen c’era il cucinotto, un ripiano con un lavandino e un bollitore elettrico, sovrastati da scaffali di libri. A destra e a sinistra della porta c’erano equazioni buttate giù dai suoi molti studenti e collaboratori. C’era anche un’immagine creata con Photoshop di Stephen insieme a Marilyn Monroe, che da giovane chissà perché lo ossessionava.
Era grande per essere uno studio universitario, soltanto il direttore del dipartimento ne aveva uno più ampio. Ero stato in uffici dirigenziali nel mondo degli affari e a Hollywood: anche prima di entrare si vedeva subito che li occupava gente importante. Ma nella fisica non girano molti soldi e lo studio di Ste...

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