Gli Scontri tra Serbi e Albanesi
Una mattina a Pec, mentre guidavo il camion per recarmi a rifornire il mezzo di scorte alimentari per i serbi di Gorazdevac, si fermò una macchina davanti a me.
Ne uscirono di scatto due individui e cominciarono a sparare in aria, per poi rimontare in macchina come se nulla fosse. In quel momento, non sapendo ancora che per loro fosse una semplice usanza, mi si gelò il sangue.
Per me che ero alla prima missione era tutto nuovo, ma sapevo che ogni cosa che avrei appreso l’avrei custodita nel mio bagaglio personale, perché poteva succedere che sarei stato, con il tempo, nuovamente impiegato per un'altra missione. Purtroppo nel mondo ci sono innumerevoli guerre.
E dietro le guerre non ci sono soltanto le stellette e le cravatte, ma tanti interessi che vanno al di là di ogni ragione umana. Bisogna tornare un po’ indietro con il tempo per capire la storia di questo paese.
Il Kosovo, popolato in maggioranza da cittadini di etnia albanese, era entrato in tensione con la Serbia e contribuì al disfacimento della federazione Jugoslava, già avviato con la fuoriuscita prima della Slovenia, poi della Croazia ed infine della Bosnia-Erzegovina, nel quadro di nazionalismi contrapposti che ha segnato e segna le vicende balcaniche a cavallo tra il XX e il XXI secolo.
Con la morte di Tito e con il rinascere e crescere dei vari nazionalismi, l'insofferenza etnica verso la federazione aveva cominciato a sfumare in alcune frange, dalle rivendicazioni autonomiste a quelle indipendentiste.
Già dopo la concessione dello status di autonomia alla provincia kosovara gli appartenenti all'etnia albanese dimostrarono all'inizio degli anni Ottanta che con questa autonomia non si sarebbero accontentati.
All'epoca l'unica repubblica dell'allora Jugoslavia ad aver concesso una forma di autonomia alle proprie minoranze era appunto la Serbia; di preciso si trattava della Vojvodina al nord e del Kosovo e Metochia al sud.
Nonostante questo lo slogan “Kosovo republika” cominciò a farsi sentire sempre di più nelle manifestazioni di piazza a Pristina e in altre parti del Kosovo. Gli albanesi, infatti, chiedevano che il Kosovo diventasse la settima repubblica della Jugoslavia socialista e, quindi, che si distaccasse dalla Serbia.
Così facendo il Kosovo avrebbe potuto fare come la Slovenia e la Croazia, cioè al momento opportuno dichiarare l'indipendenza senza dover fare i conti con Belgrado.
Il conflitto precipitò alla fine degli anni Ottanta: nel marzo del 1989 l'autonomia della provincia risalente alla costituzione della Repubblica jugoslava di Tito, che era una repubblica federativa con diritto di secessione unilaterale delle varie repubbliche federate, ma non delle province autonome, così venne revocata su pressione del governo serbo guidato da Slobodan Milosević.
Fu revocato, tra l’altro, lo status paritario goduto dalla lingua albanese-kosovara, fino ad allora lingua co-ufficiale nel Kosovo accanto al serbo-croato; furono chiuse le scuole autonome, rimpiazzati funzionari amministrativi e insegnanti con serbi o persone fedeli o ritenute tali alla Serbia.
Dal 1989 al 1995 la maggioranza della popolazione d'etnia albanese del Kosovo mise in atto una campagna di resistenza non violenta sotto la guida del partito LDK e del suo leader Ibrahim Rugova. Dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, tra i kosovari (in maggioranza di religione musulmana) nacquero e si rafforzarono in breve tempo formazioni armate guidate da veterani di quella guerra con dichiarati intenti indipendentisti.
La guerra del Kosovo si può dividere in due fasi distinte. Prima fase, 1996 - 1999: furono i separatisti albanesi dell'UCK (Ushtria Clirimtare e Kosoves) o KLA (Kosovo Liberation Army, Esercito di liberazione del Kosovo) contro le postazioni militari e contro le entità statali.
Successivamente ci fu una repressione sempre più dura da parte della polizia e, più tardi, da parte di forze paramilitari ispirate da estremisti serbi. Seconda facse, 1999: intervento NATO contro la Serbia. Per tutto il 1998, mentre la guerriglia sul terreno si espandeva e la repressione delle forze di sicurezza serbe si faceva via via più pesante e sanguinosa, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo della Repubblica federale jugoslava guidato da Slobodan Milošević.
Esercitando forti pressioni, l'Alleanza atlantica ottenne l'avvio dei negoziati di Rambouillet, che si conclusero positivamente nonostante la resistenza dei rappresentanti dell'UCK a firmare un documento nel quale era formalmente garantita l'autonomia del Kosovo, ma non la sua piena indipendenza.
Tale resistenza fu superata grazie alle pressioni degli USA, che godevano di grande prestigio presso l'UCK e la delegazione Kosovara grazie alla loro politica di sostegno.
Alla ripresa di Parigi, di lì a pochi giorni dalla conclusione di Rambouillet, una sessione non politica che avrebbe dovuto occuparsi degli aspetti attuativi e organizzativi dell'accordo, la delegazione serba abbandonò sin dall'inizio la seduta rimettendo in discussione gli esiti politici di tutta la trattativa, dichiarando che non accettava più quella che considerava un’indipendenza di fatto mascherata da autonomia. I serbi si sentirono presi in giro e provocati.
“I serbi” aggiunse Kissinger, “si sono comportati barbaramente per reprimere il terrore dell'UCK”. Ma l'80% delle violazioni del cessate il fuoco tra ottobre e febbraio sono da imputare alla guerriglia.
Se si fosse analizzata correttamente la situazione, si sarebbe forse potuto cercare di rafforzare la tregua, senza gettare tutto il biasimo sui serbi. Io avrei rafforzato il numero di osservatori internazionali e lasciato che la guerriglia facesse il suo corso, com’è accaduto in Sudafrica e altrove fino a indebolire il potere centrale e forse avrei minacciato un intervento di truppe di terra, ma non bombardato. Sulla moralità dei bombardamenti nutro molti dubbi.
La stampa di quel periodo notò il ruolo di Madeleine Albright, Segretario di Stato USA sotto la presidenza di Bill Clinton. L'equivalente americano di un ministro degli esteri spingeva per un intervento militare, mentre l'amministrazione americana era propensa alla neutralità, vedendo il Kosovo più come una questione europea.
La Albright, come alcuni giornali notarono, è ebrea di origine polacca e visse in prima persona l'esodo forzato di un popolo e le deportazioni naziste durante la seconda guerra mondiale, fatti che furono paragonati a quelli compiuti dai serbi sulla popolazione albanese kosovara.
Il 24 marzo 1999 l'Alleanza Atlantica prese atto del fallimento dei negoziati ed iniziò senza un provvedimento in questo senso da parte dell'ONU, a causa del minacciato veto di Russia e Cina alcune operazioni militari di dissuasione nella speranza di ottenere una replica di quanto già avvenne per i negoziati per il conflitto bosniaco, dove anche lì la delegazione serba abbandonò improvvisamente la trattativa riprendendo immediatamente le operazioni militari.
In quell’occasione poche operazioni militari di dissuasione sulle linee serbe convinsero il regime di Milošević a ritornare al tavolo delle trattative e a firmare e rispettare la fine del conflitto.
Tale circostanza non si ripeté nel caso del Kosovo, presumibilmente perché Milosevic, che puntava in modo piuttosto trasparente ad una sua spartizione tra Serbia e Albania, riteneva di poter contare su determinate alleanze, o semplicemente su di un mutato quadro internazionale che pensava avrebbe giocato a suo favore.
La Cina aveva manifestato una netta contrarietà nei confronti della neonata repubblica di Macedonia (verso la quale l'esercito serbo cercò di spingere la popolazione del Kosovo in fuga) a causa del riconoscimento di Taiwan da parte di quest'ultima, circostanza che sembra essere stata la motivazione dominante della minaccia di veto cinese ad ogni intervento in sede ONU.
La Russia aveva iniziato un recupero della conflittualità con gli USA in chiave nazionalista, e inoltre tra russi e serbi esiste storicamente un legame particolare su base etnico-religiosa. La NATO iniziò quindi un’escalation di bombardamenti aerei su tutto il paese che sono durati oltre due mesi operazione Allied Force.
I jet della NATO partivano soprattutto da basi militari italiane, come quella di Aviano, in Friuli Venezia Giulia. Da Aviano e dalle altre basi NATO italiane presero il volo i cacciabombardieri: la guerra si tenne tutta su questo livello eminentemente aereo, senza presenza di truppe sul suolo, per minimizzare – si disse – i rischi per i soldati della NATO; a posteriori si è anche sostenuto che la scelta fu dettata dall'assenza di una chiara strategia su che cosa si volesse veramente ottenere e come ottenerla.
A seguito della decisione della NATO, il governo D'Alema autorizzò l'utilizzo dello spazio aereo italiano. Fu il secondo intervento militare italiano a carattere offensivo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo la prima Guerra del Golfo contro l'Iraq nel 1991.
In media, la Serbia subiva almeno 600 raid aerei al giorno. Il numero esatto di vittime della guerra, sia serbe che albanesi, militari e civili, non è ancora oggi conosciuto con esattezza, ma è presumibile sia dell’ordine di qualche migliaia.
Si tratta di un’ulteriore tragedia che si somma a quella dei dieci precedenti anni di conflitti balcanici, che hanno fatto circa 250.000 vittime, in gran parte civili.
Siti del Kosovo e Serbia sud-orientale dove l'aviazione NATO ha utilizzato munizioni all'uranio impoverito durante i bombardamenti del 1999.
Nel corso del conflitto ci sono stati diversi gravi episodi: in un'occasione un attacco aereo colpì un convoglio di civili in fuga facendo una strage.
Un'altra volta, un missile finì per errore in Bulgaria, senza provocare danni. Tra le infrastrutture prese di mira anche alcuni ponti e centrali elettriche inizialmente bombardate con speciali bombe alla grafite che non provocano ...