La storia insegna
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About this book

Con "La storia insegna……." sia in forma cartacea che Audiolibro, l'autore si cimenta con una raccolta di poesie, racconti brevi, fiabe eccentriche e pensieri unici, ponendosi domande e cercando soluzioni, com'è nella natura dell'uomo in generale. Un viaggio nel tempo coinvolgendo non solo le persone umane ma anche animali ed altre creature di Madre Natura. Pietro è una persona positiva, guarda con ottimismo al futuro, persino durante la disarmonica stagione del presente. Pazienza e ragionevolezza sono per l'autore le migliori qualità per affrontare la vita, con le sue insidie e bellezze. In Pietro vince sempre il bene, non si avvilisce davanti al male. Conoscere la storia dei libri di scuola è un dovere, provare a guardarla con occhi sempre nuovi e curiosi è ciò che fa la differenza tra chi impara e dimentica e chi ne fa tesoro per la vita. Un autore d'altri tempi, al passo coi tempi.

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Information

Publisher
Youcanprint
Year
2020
Print ISBN
9788892679948
eBook ISBN
9788831666800
Subtopic
Poetry

PARTE SECONDA



Racconti brevi

Racconto fantastico

(Ashi­ra, la fa­ta tur­chi­na)
I
A se­gui­to di una ca­ta­stro­fi­ca col­lu­sio­ne del­la co­me­ta Aster con il no­stro pia­ne­ta una pic­co­la par­te del­la Ter­ra di cir­ca die­ci­mi­la chi­lo­me­tri qua­dra­ti era sta­ta, in un ba­le­no, sca­ra­ven­ta­ta nel­lo spa­zio for­man­do un ul­te­rio­re sa­tel­li­te dell’astro mar­zia­no.
Il fe­no­me­no ave­va avu­to un im­pat­to in­cre­di­bi­le: quel­la por­zio­ne ter­re­stre si era as­se­sta­ta nell’uni­ver­so uni­ta­men­te al­la sua po­po­la­zio­ne sen­za su­bi­re al­cu­na fram­men­ta­zio­ne né per­di­te uma­ne. L’uni­co neo era co­sti­tui­to dal fat­to che per­so­ne sin­go­le e fa­mi­glie ave­va­no per­so co­gni­zio­ne del tem­po e non ri­cor­da­va­no chi fos­se­ro né da do­ve pro­ve­nis­se­ro; per­tan­to ave­va­no as­sun­to nel vi­ve­re quo­ti­dia­no for­me e con­di­zio­ni di vi­ta di se­co­li e se­co­li ad­die­tro.
Il sa­tel­li­te era mu­ni­to di una su­per­fi­cie in­du­ri­ta ed era a for­ma ova­le con due po­li co­me la ma­dre Ter­ra. Non c’era­no di­ste­se di ma­re. Esi­ste­va­no, pe­rò, mon­ti e col­li­ne le cui ci­me, nel pe­rio­do in­ver­na­le, si cin­ge­va­no di ne­ve. La ne­ve a pri­ma­ve­ra si scio­glie­va e le con­se­guen­ti ac­que ri­ver­san­do­si giù per le val­li da­va­no luo­go a fiu­mi e tor­ren­ti che sfo­cia­va­no in nu­me­ro­si la­ghi.
Ai pie­di di una mon­ta­gna, col pas­sa­re de­gli an­ni, era sor­to un re­gno dal­le ap­pa­ren­ze an­ti­che che si chia­ma­va De­lai­sten, go­ver­na­to da un so­vra­no di­spo­ti­co e cru­de­le dal no­me Hu­ster. Ave­va, co­stui, gu­sti e abi­tu­di­ni ter­ri­bi­li e si at­tor­nia­va di con­si­glie­ri al­tret­tan­to mal­va­gi. In vent’an­ni di tro­no ave­va man­da­to a mor­te mi­glia­ia di per­so­ne. La sua con­dot­ta mal­va­gia in­cu­te­va tan­ta pau­ra: tan­to che nes­su­no si era mai la­men­ta­to co­sic­ché il rea­me ap­pa­ri­va fe­li­ce e se­re­no. Im­mu­ne da qual­sia­si tur­bo­len­za. I so­pru­si e le sva­ria­te pre­va­ri­ca­zio­ni del tre­men­do Hu­ster sui sud­di­ti e mal­ca­pi­ta­ti ospi­ti era­no del tut­to sco­no­sciu­ti all’ester­no del ca­stel­lo.
I suoi sud­di­ti, su­bi­va­no di­su­ma­ne umi­lia­zio­ni ed era­no sot­to­po­sti a la­vo­ri du­ri svol­ti in con­di­zio­ni im­pie­to­se, dall’al­ba al tra­mon­to. Mai un po­po­lo ave­va vis­su­to in sif­fat­ta schia­vi­tù e to­ta­le di­pen­den­za di una ti­ran­nia co­sì fe­ro­ce.
Un gior­no Hu­ster, per dir­ne una del­le sue pre­po­ten­ze, or­di­nò la car­ce­ra­zio­ne del gio­va­ne Amir che dap­pri­ma ave­va soc­cor­so un po­ve­rac­cio che era ca­sca­to a ter­ra, stre­ma­to dal la­vo­ro, e poi si era ri­bel­la­to al­le as­sur­de ri­chie­ste del­la guar­dia che con­trol­la­va il cam­po di la­vo­ro. Hu­ster non die­de al­cu­na pos­si­bi­li­tà ad Amir af­fin­ché po­tes­se di­scol­par­si. Pre­se per van­ge­lo ciò che gli ave­va ri­fe­ri­to, a suo mo­do, il cu­sto­de dei suoi or­di­ni e do­po un pro­ces­so in­giu­sto e som­ma­rio con­dan­nò il po­ve­ro gio­va­ne a mor­te, pre­vio tre an­ni di la­vo­ri for­za­ti e du­re fru­sta­te al­la fi­ne di ogni gior­na­ta di de­ten­zio­ne.
Fu un mi­ra­co­lo che per­mi­se ad Amir a so­prav­vi­ve­re al­le tor­tu­re a cui era sta­to sot­to­po­sto, per poi at­ten­de­re il pa­ti­bo­lo che avreb­be po­sto fi­ne al­le sue sof­fe­ren­ze.
Si av­vi­ci­na­va il gior­no dell’ese­cu­zio­ne e la fa­mi­glia del gio­va­ne sven­tu­ra­to era de­so­la­ta poi­ché non sa­pe­va co­me sal­va­re il ra­gaz­zo de­sti­na­to al­la mor­te cruen­ta, tra­mi­te im­pic­ca­gio­ne. Il pa­dre, qua­si cen­te­na­rio ma an­co­ra co­scien­te, si strug­ge­va dal fat­to che nul­la po­te­va sal­va­re il fi­glio. Si era ri­fu­gia­to nel to­ta­le si­len­zio e at­tra­ver­so pro­fon­de me­di­ta­zio­ni bra­ma­va un se­gno dal Cie­lo.
A die­ci mi­glia dal ca­stel­lo, c’era un fol­to bo­sco po­po­la­to da uc­cel­li can­ta­ri­ni e cor­po­si bi­son­ti che nes­su­no ave­va mai ten­ta­to di cac­cia­re. Era con­si­de­ra­to un luo­go pe­ri­co­lo­so; né il ter­ri­bi­le Hu­ster né i suoi in­tre­pi­di guer­rie­ri si era­no mai av­ven­tu­ra­ti in quel pez­zo di ter­re­no. Qual­cu­no che im­pru­den­te­men­te ave­va osa­to ad­den­trar­si in quel­la bo­sca­glia non era mai usci­to ed era sta­to ri­te­nu­to am­maz­za­to da qual­che spi­ri­to ma­li­gno. C’era­no al­tre pra­te­rie che i sol­da­ti pra­ti­ca­va­no sia per pro­cac­ciar­si la cac­cia­gio­ne sia per ci­men­tar­si in spe­ri­co­la­te ga­re per osten­ta­re for­za e co­rag­gio.
Qui, vi­ve­va una fa­ta con il suo ca­val­lo ala­to, dal man­to bian­co e dal no­me Ce­le­ste. Ogni mat­ti­na, al sor­ge­re del so­le, il ca­val­lo emer­ge­va dal­la fo­re­sta, ispe­zio­nan­do ogni an­go­lo del cir­con­da­rio. Sul suo dor­so spic­ca­va una fan­ciul­la bel­lis­si­ma di no­me Ashi­ra. Sor­vo­la­va­no il mon­do sot­to­stan­te, tal­vol­ta a bas­sa quo­ta qua­si toc­can­do le ci­me de­gli al­be­ri o le te­ste dei pas­san­ti sull’im­men­sa ra­du­ra. Nes­su­no po­te­va ve­der­li. La bac­chet­ta ma­gi­ca del­la fa­ta ren­de­va in­vi­si­bi­le an­che il ca­val­lo. Lei era sem­pre in­cor­po­rea, sal­ve in ra­ris­si­me oc­ca­sio­ni quan­do si tro­va­va al co­spet­to di un’ani­ma pu­ra. La fa­ta, nel­la sua mae­sto­sa e in­can­te­vo­le di­mo­ra era coa­diu­va­ta da al­tre fan­ciul­le che si era­no di­stin­te nel­la vi­ta per qua­li­tà uma­ne ec­ce­zio­na­li. Fuo­ri dal bo­sco, era­no sol­tan­to lei e Ce­le­ste, il ca­val­lo ala­to, a ci­men­tar­si tra le bian­che nu­vo­le e l’az­zur­ro del cie­lo.
Lo sco­po era di soc­cor­re­re qual­sia­si uma­no che si tro­vas­se in dif­fi­col­tà. Op­pu­re un ani­ma­le in pe­ri­co­lo a cau­sa di un atro­ce pre­da­to­re.
Era­no tra­scor­si se­co­li dall’ul­ti­mo in­ter­ven­to del­la fa­ta Ashi­ra quan­do aiu­tò un guer­rie­ro a ri­con­qui­sta­re il suo re­gno da uno spie­ta­to usur­pa­to­re. Be­nin, il prin­ci­pe spo­de­sta­to, ave­va per­so il re­gno do­po l’uc­ci­sio­ne del pa­dre e dei suoi fe­de­lis­si­mi quan­do egli era an­co­ra bam­bi­no. Era sta­to al­le­va­to da una fa­mi­glia di pa­sto­rel­li che ave­va­no ben na­sco­sto la sua iden­ti­tà per sot­trar­lo al fu­ro­re del so­praf­fat­to­re.
Ashi­ra, col suo ca­val­lo ala­to, pur co­no­scen­do la tri­ste vi­cen­da at­te­se che Be­nin di­ve­nis­se adul­to pri­ma di in­ter­ve­ni­re e re­sti­tuir­gli il tro­no.
Per lun­go tem­po era ri­ma­sta inat­ti­va. Do­po quell’in­ter­ven­to, tut­to era tra­scor­so in co­stan­te se­re­ni­tà. Era­no pas­sa­ti due se­co­li e non si era ma­ni­fe­sta­ta un’oc­ca­sio­ne di si­mi­le azio­ne; op­pu­re le era sfug­gi­to qual­che det­ta­glio di re­cen­te.
II
Il ca­val­lo ala­to, du­ran­te una sua ga­lop­pa­ta so­li­ta­ria, tan­to per sgran­chir­si le gam­be, no­tò una per­so­na dai ca­pel­li gri­gi e una bar­ba bian­ca che pian­ge­va ac­can­to al­la fon­te, all’im­boc­co del­la fo­re­sta.
«Per­ché pian­gi?» il ca­val­lo gli chie­se do­po aver at­ter­ra­to a fian­co dell’an­zia­no di­spe­ra­to.
Il vec­chio gli rac­con­tò la tri­ste sto­ria del fi­glio e dell’im­mi­nen­te ese­cu­zio­ne ca­pi­ta­le. Il ca­val­lo lo ras­se­re­ne­rò e gli pro­mi­se che l’avreb­be aiu­ta­to ma non gli sve­lò co­me.
Tho­mas, il ve­ne­ran­do vec­chiet­to, ri­ma­se stu­pi­to da ta­le ras­si­cu­ra­zio­ne. Non riu­scì a im­ma­gi­na­re co­me il ca­val­lo avreb­be po­tu­to ri­sol­ver­gli il pro­ble­ma ma con­fi­dò in ta­le pro­mes­sa. Quan­do tor­nò a ca­sa rac­con­tò all’in­te­ra fa­mi­glia che re­stò in­cre­du­la pur spe­ran­do nel mi­ra­co­lo.
Ashi­ra, la bel­la fa­ta, do­po aver ascol­ta­to ciò che era ca­pi­ta­to al suo ca­val­lo si im­pie­to­sì e ri­vol­ta al pu­ro­san­gue dis­se: «Hai fat­to be­ne a fa­re ta­le pro­mes­sa. Sal­ve­re­mo il gio­va­ne Amir e lo re­sti­tui­re­mo al­la fa­mi­glia».
Il ca­stel­lo si eri­ge­va al cen­tro di un la­go e si ac­ce­de­va at­tra­ver­so pon­ti le­va­toi i qua­li era­no ben cu­sto­di­ti da guar­die da­van­ti all’en­tra­ta e da sen­ti­nel­le in ci­ma al­la tor­re. Il ca­val­lo con le sue lar­ghe ali fa­ce­va al ca­so. La fa­ta in grop­pa al­lo stal­lo­ne sor­vo­lò la tor­re e aven­do in­di­vi­dua­to il sot­ter­ra­neo do­ve gia­ce­va Amir sce­se dal ca­val­lo e si di­res­se ver­so la cel­la do­ve il pri­gio­nie­ro era rin­chiu­so. Nes­su­no po­té ve­de­re la fa­ta poi­ché era av­vol­ta in un ve­lo tur­chi­no che la ren­de­va in­vi­si­bi­le. Le sen­ti­nel­le sul­la tor­re era­no sta­te sba­lor­di­te dal­la vi­sta del ca­val­lo che svo­laz­za­va nell’aria ce­le­ste e, av­vin­ti dal­la pau­ra, era­no scap­pa­ti per na­scon­der­si. Amir, in­tan­to, fu trat­to dal­la cel­la che si era spa­lan­ca­ta al toc­co ma­gi­co del­la fa­ta e bal­zò in grop­pa al ca­val­lo in­sie­me ad Ashi­ra.
La fa­mi­glia riu­ni­ta fu con­dot­ta lon­ta­na in un re­mo­to vil­lag­gio do­ve po­tet­te­ro vi­ve­re al si­cu­ro, fe­li­ci e con­ten­ti.
Amir spo­sò la fi­glia del ca­po del vil­lag­gio e die­de ul­te­rio­re si­cu­rez­za al­la sua fa­mi­glia.
«Era­no pas­sa­ti an­ni e an­ni da quan­do ave­vo com­piu­to un ge­sto co­sì bel­lo» dis­se la fa­ta al ca­val­lo il qua­le con cen­ni del ca­po an­nuì all’os­ser­va­zio­ne del­la sua pa­dro­na.
FI­NE

Un Reame d’altri tempi

I
C’era una vol­ta nell’an­ti­chis­si­mo Egit­to (mil­len­ni pri­ma del­la di­na­stia fa­rao­ni­ca) su una smi­su­ra­ta ru­pe, un ca­stel­lo a for­ma di pi­ra­mi­de in ci­ma al qua­le si ele­va­va una stel­la sfa­vil­lan­te che da­va lu­ce a tut­to il sot­to­stan­te cir­con­da­rio.
Il ca­stel­lo do­ve­va es­se­re di cir­ca sei pia­ni, di cui l’ul­ti­mo era ina­bi­ta­bi­le per­ché ter­mi­na­va a gu­glia, men­tre cia­scu­no de­gli al­tri era abi­ta­to da gen­ti­luo­mi­ni e da­me che ave­va­no giu­ra­to eter­na fe­del­tà al prin­ci­pe re­gnan­te. Al pe­nul­ti­mo pia­no di­mo­ra­va lo stes­so pa­dro­ne con tre ca­va­lie­ri dal­le sem­bian­ze te­tre e sel­vag­ge non­ché la ser­vi­tù più fi­da­ta. Al quar­to si or­ga­niz­za­va­no fe­ste e bal­li a cui par­te­ci­pa­va­no sol­tan­to sud­di­ti al­to­lo­ca­ti e bla­so­na­ti sia per di­rit­ti ere­di­ta­ri sia per aver com­piu­to ge­sta e im­pre­se lo­da­te e ap­prez­za­te dal­lo stes­so prin­ci­pe il qua­le go­ver­na­va con po­te­ri as­so­lu­ti e in­con­di­zio­na­ti; in­fat­ti si li­mi­ta­va ad ascol­ta­re pa­re­ri e pro­po­ste dei suoi con­si­glie­ri ma era sem­pre e so­lo lui a pren­de­re le de­ci­sio­ni fi­na­li… e nes­su­no osa­va mi­ni­ma­men­te con­tra­star­lo.
Il prin­ci­pe era un es­se­re cru­de­le e i suoi or­di­ni era­no per lo più ini­qui, be­stia­li e ter­ri­fi­can­ti. Co­pri­va la pro­pria fac­cia con una ma­sche­ra e non ave­va mai mo­stra­to il vol­to nem­me­no a Or­so, un guer­rie­ro im­pa­vi­do e de­vo­to, che era la sua guar­dia del cor­po sia di gior­no che di not­te. Or­so era il cu­sto­de del­la vi­ta e il di­ret­to ese­cu­to­re dei tre­men­di edit­ti ema­na­ti dall’as­so­lu­to so­vra­no. Si av­va­le­va di una guar­ni­gio­ne for­ma­ta da cen­to uo­mi­ni ben ar­ma­ti, im­per­ter­ri­ti e fe­ro­ci quan­to lui me­de­si­mo.
II
In tut­ti gli uf­fi­ci, abi­ta­zio­ni, ri­sto­ri e al­tri luo­ghi pub­bli­ci e pri­va­ti era osten­ta­ta una bel­la ed espan­si­va im­ma­gi­ne del prin­ci­pe che in real­tà non era mai ap­par­so al po­po­lo. E i sud­di­ti più ac­cre­di­ta­ti ave­va­no dif­fu­so tra la gen­te co­mu­ne la bon­tà e l’af­fet­to che il lo­ro si­gno­re nu­tri­va per la sua gen­te. La real­tà era ben di­ver­sa e nes­su­no osa­va met­te­re in di­scus­sio­ne l’ir­re­pren­si­bi­li­tà del prin­ci­pe per ti­mo­re di una ri­val­sa più du­ra dell’in­giu­sti­zia even­tual­men­te su­bi­ta.
In­fat­ti un gior­no un con­ta­di­no men­tre rac­co­glie­va l’uva nel fon­do, aven­do sia fa­me che se­te, in­gur­gi­tò al­cu­ni spic­chi di un grap­po­lo ap­pe­na strap­pa­to dal­la pen­den­te e fe­con­da vi­te.
Apri­ti cie­lo! Su­bì cin­quan­ta fru­sta­te con il con­se­guen­te ri­sul­ta­to di rin­ca­sa­re a se­ra col dor­so mez­zo la­ce­ra­to.
«Nien­te so­no ca­du­to» ri­spo­se l’agri­col­to­re, ri­spon­den­do al­la mo­glie che l’ave­va vi­sto con­cia­to co­sì bru­tal­men­te. Era im­pos­si­bi­le pro­cu­rar­si ta­li fe­ri­te con una ca­du­ta ma era l’uni­ca giu­sti­fi­ca­zio­ne, sep­pur in­cre­di­bi­le, che ave­va tro­va­to in quel mo­men­to. La mo­glie in­te­se co­sa fos­se suc­ces­so ed el­la stes­sa com­pre­se che fos­se me­glio non par­lar­ne. Ser­vì la par­ca ce­na ar­re­stan­do pe­no­sa­men­te le la­cri­me.
«Ep­pu­re si di­ce in gi­ro che il prin­ci­pe sia una bra­va per­so­na» pen­sò la po­ve­ret­ta, or­mai an­ch’el­la ras­se­gna­ta.
III
Era una do­me­ni­ca di di­cem­bre e la gen­te si pre­pa­ra­va a re­car­si al Tem­pio per ono­ra­re gli Dei sot­to la gui­da del som­mo Sa­cer­do­te, at­tor­nia­to da una schie­ra di se­gua­ci ve­sti­ti di bian­co. Il som­mo sa­cer­do­te, in­ve­ce, in­dos­sa­va una tu­ni­ca ros­sa e cal­za­va scar­pe co­lo­ra­te. Era co­stui cu­gi­no del­lo stes­so prin­ci­pe e co­sti­tui­va il ca­po su­pre­mo dell’or­di­ne re­li­gio­so.
Du­ran­te la ce­ri­mo­nia, un fe­de­le tos­sì non riu­scen­do a trat­te­ne­re un mu­go­lio al­la go­la cau­sa­to dall’acre odo­re dei ce­ri. Nes­su­no si vol­tò poi­ché le re­go­le esi­ge­va­no che, per nes­su­na lo­gi­ca o al­tro sep­pur ra­gio­ne­vo­le mo­ti­vo, si po­tes­se in­ter­rom­pe­re la li­tur­gia né di­strar­re i fe­de­li in pre­ghie­ra.
Eb­be­ne! Due guar­die si ac­co­sta­ro­no al­la per­so­na che ave­va osa­to guai­re e lo tra­spor­ta­ro­no si­len­zio­sa­men­te in una te­ne­bro­sa stan­zet­ta lon­ta­no dal cen­tro di rac­col­ta. La po­ve­ret­ta, era una don­na sul­la cin­quan­ti­na co­sì mal­ri­dot­ta da­gli sten­ti che sem­bra­va un’ot­tua­ge­na­ria, fu de­nu­da­ta e sfer­za­ta qua­si a mor­te. Si udi­ro­no i col­pi del­la fru­sta ma nes­su­no osò com­men­ta­re né pen­sa­re al­tro.
Al­me­no co­sì si cre­det­te. Poi­ché la pe­no­sa e scon­so­la­ta sce­na, seb­be­ne nel­la me­ra im­ma­gi­na­zio­ne, pro­vo­cò un ef­fet­to scon­vol­gen­te nel ni­po­te il qua­le de­ci­se di zit­ti­re ma sta­va ri­mu­gi­nan­do una pro­te­sta.
Era co­stui un gio­va­ne mu­gna­io ...

Table of contents

  1. Prefazione
  2. PRIMA PARTE - Poesie
  3. PARTE SECONDA - Racconti brevi
  4. TERZA PARTE - Pensieri Sociali, culturali e politici
  5. I Romanzi di Pietro Sgambati
  6. Note