Capitolo 1.1
Dissesto idrogeologico
Sin dagli albori della civiltà, l'uomo si è stabilito nei pressi di corsi d'acqua, bacini idrici e sulle coste per sfruttarne le potenzialità, primarie (estrazione) e commerciali (indotto), e trarne ricchezze. Per gli stessi motivi, tali aree strategiche sono terreno di scontro dacché l'uomo ha iniziato a essere sedentario.
Con dissesto idrogeologico non si intendono solo le precipitazioni violente o incessanti e i relativi danni, ma anche la siccità.
Desertificazione e siccità sono catastrofi naturali poco evidenti in quanto lente e silenziose, ma comportano situazioni croniche che non lasciano scampo alle specie viventi. Il loro evolversi si dilata nel tempo, stravolgendo gli assetti socio-economici di intere regioni del mondo e mietendo vittime. Ne abbiamo prova anche in Italia, dove le aree desertiche avanzano indisturbate.
Cosa porta alla siccità? Oltre alle scarse precipitazioni dovute ai cambiamenti climatici, contribuiscono in maniera determinante l'agricoltura intensiva e lo spreco di risorse. Si stima che, a oggi, il 25% della popolazione mondiale viva in aree ad altissimo stress idricoe gli esperti prevedono un incremento drammatico entro il 2050.1
A causare questo stress sono proprio l'eccessivo sfruttamento di sostanza organica e i sistemi di irrigazione a scorrimento o inondazione, i quali disgregano e dilavano costantemente i primi centimetri di terreno, quelli più fertili.
È altrettanto vero, però, che in altre aree del mondo, al contempo, i livelli di acqua si innalzano a causa dello scioglimento dei ghiacci. Sembrano fenomeni antitetici, eppure derivano entrambi dal surriscaldamento globalee, a monte, dalle attività umane.
I ghiacci polari sono un termometro naturale per la Terra, la paziente di cui tutti dovremmo avere cura, visto che è al contempo l'unica in grado di garantirci la sopravvivenza o determinare la nostra estinzione.
I ghiacci polari, come ben sappiamo, sono l'Artico e l'Antartico. Esiste una sostanziale differenza tra Polo Nord e Polo Sud. L'Artide ha ghiacci spessi poco meno di 3 m e arretra e si espande attorno al
Circolo Polare ogni anno, seguendo le stagioni. L'Antartide, il continente più inospitale e inesplorato di tutto il nostro pianeta (sebbene ne rappresenti la più grande riserva di acqua dolce), è un continente propriamente detto e il suo ghiaccio ha uno spessore medio di 2.200 m. Il ghiaccio artico è, quindi, di gran lunga più sensibile agli aumenti di temperatura, che ne accelerano lo scioglimento. Eppure, anche l'Antartide non è da meno, in quanto il processo che si innesca è il medesimo: non appena il ghiaccio si scioglie, i raggi del Sole non vengono più riflessi dal bianco della neve ma assorbiti dall'acqua e il calore che trasmettono a quest'ultima, aumentando progressivamente, accelera il processo. Il crescente numero di giorni caldi alimenta questo circolo, tanto che nel gennaio 2020 ha fatto scalpore la notizia di temperature medie di 18°C al Polo Sud.2
Gli scienziati definiscono il clima globale un sistema non lineare, in quanto i suoi cambiamenti non sono graduali, bensì repentini.
Il battito cardiaco terrestre è scandito da correnti oceaniche e venti, dovuti a una delicata equazione di temperatura e concentrazione salina dei mari. Ciò che rischia di rompersi negli equilibri terrestri è proprio questa pompa termosalina(che gli scienziati chiamano anche conveyor be!t, "nastro trasportatore"). Si tratta di un fenomeno ampiamente studiato, che disciplina i venti e le correnti in tutto il mondo, un sistema a serpentina che raccoglie e disperde calore, viaggiando tra gli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano. Un tratto noto di questa pompa è la corrente del Golfo, che disperde calore lungo l'Atlantico ed è in parte responsabile del fenomeno degli uragani. Questa "cinghia", quindi, regola anche le stagioni e le relative temperature, disperdendo gran parte del calore accumulato nel suo percorso vicino alla Groenlandia (all'altezza del Circolo Polare Artico). Non è un caso, dunque, che città vicine alla corrente calda, come Londra e Madrid, siano più temperate di altre che insistono sulla stessa latitudine, quali New York e Boston, esposte invece alla corrente già raffreddata dal passaggio in Groenlandia.
Figura 1 - Il flusso della corrente del Golfo nell'Oceano Atlantico.3
L'ultima Era glacialerisale a 10.000 anni fa circa. Allora in Nord America si erano sciolti i ghiacci e si era creato un enorme lago (corrispondente all'attuale regione dei Grandi Laghi) che aveva esondato gli argini naturali, portando migliaia di tonnellate di acqua dolce nell'Oceano Atlantico e innescando gli scompensi termo-salini da cui scaturirono ben 1.000 anni di Era glaciale. Infatti, lo scioglimento dei ghiacci varia salinità e temperatura degli oceani, "annacquandoli" e compromettendo il percorso delle correnti sopra illustrato.
Se osservate la Figura 1, potete notare come la cinghia passi molto vicino alla Groenlandia.
Oggi in Groenlandia si stanno ripresentando le stesse condizioni ambientali della regione dei Grandi Laghi di 10.000 anni fa. Le ricerche condotte in loco dalla Comunità Scientifica Internazionale hanno portato a conclusioni sconfortanti: i ghiacci dei poli si stanno sciogliendo a una velocità di 6 volte superiore rispetto a quella degli anni '90.4
Tra il 1980 e il 1990, quando il surriscaldamento globale era già una realtà, la quantità di ghiaccio disciolto arrivò a toccare i 40 gigatoni l'anno (1 gigatone [Gt] corrisponde a 1 miliardo di tonnellate, l'equivalente di 400.000 piscine olimpioniche). Oggi, secondo la NASA, siamo arrivati a una media di 318 Gt all'anno (200 in Groenlandia e 118 in Antartide).5 In particolare, la Groenlandia nel 2019 ha superato il record del 2012 con 532 Gt e il ghiaccio perso supera ormai dell'80% quello riformatosi in seguito alle nevicate.6
Il ghiaccio che si scioglie e non si rigenera consente la penetrazione delle acque oceaniche fino ai ghiacci posposti e ne velocizza lo scioglimento.
Già nel 1958, poi, i mutamenti nello spessore dei ghiacci furono correlati alla presenza di anidride carbonica dagli scienziati americani Roger Revelle e Charles David Keeling. I loro studi constarono di misurazioni quotidiane della concentrazione di C02 nelle Hawaii (località Mauna Loa). Dopo poche settimane, si resero conto che i dati che stavano raccogliendo erano in costante crescita e fu facile in seguito correlare questa impennata all'aumento delle temperature medie globali (effetto serra o g!oba! warming).
Fino ad allora, infatti, era convinzione comune che l'atmosfera fosse troppo grande per poter essere turbata dalle attività umane. Il professor Carl Sagan, tra i più famosi astrofisici e astrobiologi del Novecento, smenti questa teoria (vedi Capito!o 1.2), che non è stata la sola sull'argomento a essere smentita. Infatti, i carotaggi effettuati dalle équipe scientifiche tra i ghiacci hanno permesso di calcolare con esattezza la temperatura e la concentrazione di anidride carbonica nel tempo, risalendo fino a 650.000 anni fa. La concentrazione di anidride dall'anno 1000 fino al 1900 ha oscillato attorno alle 280 parti per milione (ppm) mentre nel 2019 si sono registrate 415,26 ppm (rilevazione sempre ottenuta a Mauna Loa [11 maggio 2019]).
In merito a queste rilevazioni gli scettici sostengono che già altre volte si erano registrati picchi di temperatura più alti. Ciò che, però, smentisce l'ipotesi secondo la quale si tratterebbe di fluttuazioni cicliche, è che i periodi caldi nel XIII e nel XIV secolo erano decisamente più contenuti e più brevi di quelli a cui assistiamo oggi.
Studi incrociati tra climatologi e storici hanno addirittura messo in correlazione la "mini era glaciale" del XV secolo con lo sterminio spagnolo delle civiltà precolombiane. Infatti, la scomparsa degli insediamenti indigeni nelle aree boschive e la preferenza dei colonizzatori per le coste portarono a un rinfoltimento dei boschi.
Queste nuove foreste avrebbero, dunque, assorbito grandissime quantità di anidride carbonica, causando un raffreddamento momentaneo del pianeta.
Come se non bastasse, l'abbassamento di temperatura implica una forte diminuzione delle precipitazioni nevose nell'entroterra, da cui consegue uno squilibrio che mette a dura prova la conservazione dei continenti stessi.
Questi esempi sono tra i più studiati ed evidenti, ma non serve andare tanto lontano per individuare zone interessate dal dissesto idrogeologico.
Il nostro stesso Paese, per la sua conformazione geo-morfologica connotata da coste, catene montuose, fiumi e torrenti, ghiacciai e colline, ci convive da sempre. Si tratta di una convivenza che mette a rischio l'ambiente e la vita di chi ci abita, pertanto i soldi che versiamo sotto forma di tributi e imposte dovrebbero confluire in interventi di prevenzione piuttosto che in sommarie riparazioni che incidono più sulla spesa pubblica, che sulla sicurezza a lungo termine. Dal 1945 al 2012, l'Italia ha speso circa 61 miliardi di euro nel contrasto al dissesto idrogeologico. Secondo il rapporto ISPRA del 2018, il 91,1% dei comuni italiani sorge in aree in cui il rischio di dissesto idrogeologico è di particolare rilievo.7 La superficie delle aree classificate a rischio frana medio o alto e/o con pericolosità idraulica di media intensità ammonta complessivamente a 50.117 km2, pari al 16,6% del territorio nazionale. Ne consegue che 1,3 milioni di italiani sono esposti al rischio di calamità.
Se volessimo spostare la nostra lente d'ingrandimento sull'area, tra queste, che ci tocca in prima persona, la bergamasca, è naturale che i territori più soggetti a simili problemi siano quelli montani e collinari, ma non è possibile escludere del tutto la Bassa Bergamasca, che presenta problematiche diverse, ma sempre concernenti il dissesto idrogeologico e non meno rilevanti. Se, infatti, il territorio orobico conta numerosi torrenti montani, fiumi e laghi, è altrettanto vero che nelle aree pianeggianti il territorio è modificato a fini agricoli.
Da un lato l'urbanizzazione massiccia senza una pianificazione territoriale preventiva comporta frane e/o alluvioni, dall'altro l'abbandono delle aree rurali montane e collinari rende il territorio più vulnerabile, in quanto non monitorato né protetto.
Dal rapporto ISPRA già citato emerge che in provincia di Bergamo quasi 10.000 persone vivono in aree a rischio frana elevato e molto elevato, mentre sono 4.162 le case e 822 le aziende che si trovano in queste zone. I comuni maggiormente a rischio sono Fuipiano Valle Imagna, dove il 97% della popolazione vive in aree a rischio elevato, e Schilpario, dove ci sono 420 edifici esposti al dissesto.
È, però, necessario tener presente quanto è stato fatto finora in materia di opere di assestamento e infrastrutture strategiche, come le dighe. Per evitare i problemi connessi al dissesto, bisogna considerare l'orografia del territo...