1.
Margherita, oltre il pettegolezzo
«Io sono convinta che tutti i “gialli” di oggi inventano il materiale poetico di una futura canzone di gesta. Wallace e Simenon sono i troveri e cantastorie che preparano un bardo anonimo, e dopo secoli un Ariosto, a riordinarne il ciclo leggendario di amore e prodezza». È il maggio del 1937 quando Margherita Sarfatti pubblica queste righe in L’America, ricerca della felicità, il libro che raccoglie le impressioni e le riflessioni suscitate dal suo viaggio americano. Edgar Wallace era morto, appena cinquantasettenne, già da cinque anni, mentre lavorava alla sceneggiatura di King Kong. Ma aveva raggiunto una notorietà planetaria con i suoi libri, che vedono protagonisti poliziotti «buoni» piuttosto che i geniali investigatori di Arthur Conan Doyle (Sherlock Holmes), Edgar Allan Poe (Auguste Dupin), Agatha Christie (Hercule Poirot e Miss Marple). Georges Simenon, nel 1937, aveva solo 34 anni e aveva già pubblicato ventisei romanzi con protagonista il commissario Jules Maigret, con i quali rovescia la logica del «giallo»: non è più la ricerca del colpevole in quanto tale il cuore della narrazione, bensì l’indagine – psicologica e sociale − intorno al «perché» del delitto, all’ambiente in cui matura, che fatalmente conduce al colpevole.
Margherita Sarfatti, Wallace e Simenon hanno in comune solo il giornalismo − che in Simenon raggiunge l’eccellenza con i reportages di viaggio per il settimanale «Voila» − e, appunto, l’attribuzione del ruolo “eroico” a un uomo del “sistema”, simbolo dell’ordine costituito. Nel contesto della sua analisi critica degli Stati Uniti, usciti dalla grande depressione e alla prova del secondo New Deal rooseveltiano, Margherita Sarfatti registra con soddisfazione che in Europa, nella rappresentazione popolare, si verifica una rottura, sia pur parziale. Vero è che, con il suo Arsène Lupin, Maurice Leblanc segue la lunga scia della stagione letteraria del fuorilegge “eroe”, dei ladri gentiluomini. Si pensi al Robin Hood di Alexandre Dumas padre, al Rocambole di Pierre Ponson du Terrail o a I miserabili di Victor Hugo, citati dalla Sarfatti. Ma con il britannico Wallace e il belga francofono Simenon «il poliziotto di adesso è intelligente quanto incorruttibile, tipo del paladino antico rinato in vesti moderne», mentre «è curioso e grave che proprio ora l’America segua un cammino inverso. Essa non cinge più di aureola i guardiani del suo ordine; non li ama, non li rispetta più, perché non li considera più rispettabili». Accade − ritiene la Sarfatti − perché il proibizionismo, sommato all’elettività delle cariche di vertice, aveva esasperato la corruzione dei tutori della legge.
Non che sorprenda questo tipo di analisi. Stupisce, piuttosto, che Margherita Sarfatti – scrittrice politica e sociale, e innanzitutto critica d’arte – “perda tempo”, come una volta si sarebbe detto, interessandosi di una letteratura considerata nella sua epoca “minore”, persino rispetto a quella “rosa” riservata al pubblico femminile. Una letteratura comunque destinata in prima istanza ai “fogliettoni”, i feuilleton a puntate ospitati fin da metà Ottocento nei quotidiani popolari e nelle riviste. Per ragioni non solo “alimentari” non si era forse dilettato nel genere anche Mussolini, pubblicando l’anticlericale L’amante del cardinale sul «Popolo» trentino di Cesare Battisti?
L’interesse per i gialli, in realtà, non fa che confermare il complesso e profondo eclettismo culturale della signora veneziana di madre triestina. La sua figura – ha notato Rachele Ferrario − «è rimasta a lungo appiattita su quella di Mussolini. Ma è tempo di restituirle la dignità di protagonista della storia italiana d’inizio Novecento». Lodevole proposito, nei confronti di un’intellettuale che ancora oggi – a sessant’anni dalla morte − è ricordata essenzialmente come “l’altra donna”, o semplicemente “l’amante”, al meglio la “ninfa Egeria” del duce. Definirla “mecenate” è stato a lungo già un azzardo. D’altra parte è vero, come ha avvertito Simona Urso, che «Tentare di entrare nella vita intellettuale e politica di Margherita Sarfatti significa sciogliere continuamente dei nodi, e poi pazientemente trovare la logica con cui torsioni e avvitamenti si sono intrecciati. Quasi un’opera di “topologia storiografica”».
Con il passar del tempo, gli studi su Margherita Sarfatti sono lentamente usciti dal cono d’ombra dei rotocalchi, del pettegolezzo, nel quale ha interpretato solo il ruolo di “spalla”, beneficata dall’influenza innegabilmente esercitata sul dittatore, fino a quando è durata. In fondo, per quanto fosse “decaduta”, è la stessa Margherita a non sottacere – tra le righe − che nel suo viaggio americano molti suoi incontri derivino non da una sua luce propria, bensì dall’essere considerata come una sorta di alter ego di Mussolini, o di sua “portavoce” itinerante. Quel ruolo che, con ben minore bagaglio culturale, negli Stati Uniti era stata autorizzata a ritagliarsi nel 1924 Alice de Fonseca. Ma sono passati due lustri. Silente, Alice, non si vedrà mai negare un incontro. Ingombrante, Margherita, è ormai a stento tollerata e non avrà più accesso a Palazzo Venezia.
In un certo senso quei mesi di viaggio negli Usa, in Messico e a Cuba, possono essere considerati – a posteriori − un inconsapevole preludio – quasi una prova generale – del volontario esilio, prima parigino, poi sudamericano. Il 14 novembre del 1938 lascerà la sua villa del Soldo, nel Comasco, e a Chiasso prenderà poi il treno per Parigi. Con una corrispondenza dalla capitale francese, il «New York Mirror» darà la notizia che «Margherita Sarfatti, l’ebrea biondo-tiziano che è stata la stella che ha guidato l’ascesa di Mussolini, è arrivata qui questa sera in circostanze che sembrano connesse con la campagna antisemita in Italia».
Mussolini si preoccuperà molto delle sue possibili rivelazioni. Il 23 aprile 1939 confessa a Claretta Petacci: «Stamane ho avuto una notizia che mi ha molto turbato: la Sarfatti scriverà un libro per l’America su di me». E aggiunge: «Mi secca moltissimo. E non posso impedirglielo. Ho fatto sapere a questa signora che tornasse in Italia, ma fa orecchie da mercante perché qui non potrebbe scrivere». Tenterà invano di farla rientrare in quella primavera del 1939, utilizzando come intermediario il conte e deputato Livio Gaetani dell’Aquila d’Aragona, marito della figlia Fiammetta. Al ministro della Cultura Popolare, Dino Alfieri, Margherita risponderà, sostanzialmente, all’inizio di giugno, che...