Capitolo quarto
In nome della legge
Le amministrazioni americane degli ultimi quaranta anni (democratiche o repubblicane che fossero) hanno trattato la underclass in modo analogo: elargendo sussidi e controllando il potenziale di rivolta che cova da sempre nei ghetti con un vero e proprio apparato repressivo.
Quest’ultimo ha prodotto quel fenomeno inquietante che è la crescente militarizzazione dei corpi di polizia, un fenomeno che, nato dalla necessità di tenere a bada le classi pericolose, ha finito per creare un apparato di law enforcement che ha assunto negli ultimi anni l’aspetto di un potere autonomo, temibile e poco controllabile.
Nel corso del 2020, l’uccisione di George Floyd e le proteste che ne sono seguite, hanno rivelato in piena luce quale vulnus per le istituzioni democratiche costituisca l’agire di quell’apparato. Non sorprende che Trump vi abbia visto un elemento da utilizzare per le sue tentazioni liberticide.
4.1. Tecniche di addestramento
Negli Stati Uniti è venuta a formarsi una formidabile macchina di law enforcement che include non solo i 18 mila dipartimenti di polizia, sotto l’autorità degli stati regionali e con 420 mila agenti (2,2 per ogni 1000 persone), ma anche le istituzioni giudiziarie, dai tribunali locali a quelli statali fino alla Corte Suprema.
La natura e il funzionamento di questa “macchina” si sono evoluti nel corso del tempo, fino ad assumere le caratteristiche specifiche che sono oggi osservabili.
E’ interessante ricordare che le forze dell’ordine sono nate in America sull’esempio di quelle inglesi dell’800, la polizia creata da Robert Peel come strumento di rapporti col pubblico invece che semplice apparato repressivo.
La svolta per gli Usa si ebbe a seguito della occupazione delle Filippine, quando le tecniche di contro/guerriglia applicate per domare gli insorti vennero trasferite nell’addestramento degli agenti.
E’ iniziato da allora un processo di sempre più intensa militarizzazione del corpo, per quanto non in modo continuo bensì “per salti”, e in risposta a specifiche situazioni ambientali.
In tempi a noi più vicini il passo decisivo è avvenuto negli anni Sessanta per controllare le proteste nelle università e le rivolte nei quartieri afroamericani e ispanici. Particolare importanza ha rivestito quella del ghetto nero di Watts, in Los Angeles nel 1965: si è trattato del primo caso, nel dopoguerra, di una seria ristrutturazione degli apparati repressivi, e di lì in poi l’escalation è stata inarrestabile.
Negli anni Ottanta la War on Drugs promossa da Ronald Reagan fu presentata come una questione di sicurezza nazionale e assimilata alle battaglie della prima guerra mondiale. Il Military Cooperation with Law Enforcement Act permise alle polizie locali e statali di servirsi delle basi militari e di fruire di addestramento fornito dalle forze armate. Queste ultime furono autorizzate a collaborare con le polizie locali in raid contro zone nelle quali presumibilmente agivano trafficanti.
Negli anni Novanta, un passo ulteriore, e questa volta ben più significativo.
Il National Defense Authorization Act del 1997 (presidente il democratico Clinton) permetteva a «tutte le agenzie di law enforcement di acquistare [...] strumenti che le facilitassero nella loro missione di arrestare e tenere in custodia».
In particolare il programma 1033, ideato dalla Defense Logistic Agency ha finanziato per almeno 5 miliardi di dollari un «surplus di attrezzature militari difensive». La definizione di armi “difensive” era piuttosto ampia perché includeva dagli aerei da combattimento agli “arieti idraulici” (battery ram) alle tenute antisommossa. 8000 dipartimenti di polizia poterono beneficiare di questa alluvione di mezzi meccanici, per di più a costo zero.
Nei 17 anni successivi «letteralmente milioni di pezzi di equipaggiamento militare creati per i campi di battaglia sono stati usati nelle strade dell’America contro cittadini americani».
E sempre negli anni Novanta avvenne l’inquietante fenomeno della proliferazione degli Special Weapons and Tactics team (SWAT), unità paramilitari di intervento rapido, usate dapprima per casi di eccezionale urgenza, poi sempre più per operazioni di normale pericolosità. Negli anni Ottanta vi furono annualmente 3000 operazioni degli Swat, nei novanta salirono a 30 mila, e dal 2001 a 40 mila. Negli anni Ottanta vennero usati in media una volta al mese, nei Novanta ben sette volte al mese.
Altro salto in avanti dopo l’11 settembre: la lotta alla droga fu sostituita dalla global war on terrorism, e in questo caso la corsa alla militarizzazione divenne travolgente.
Solo nel 2006 il Dipartimento della Difesa distribuì alla polizia veicoli per il valore di 15,4 milioni di dollari, aerei per 8,9 milioni, imbarcazioni per 6,7 milioni, armi per 1 milione e altre attrezzature per poco meno di 111 milioni.
Una diffusione a giusto titolo, capillare. La cittadina di Granite, nell’Illinois, non celebre per il suo tasso di criminalità vide i suoi agenti muniti di fucili M16 e M14, oltre a un furgone blindato e un robot antimine. Attrezzatura analoga in Leesburg, Florida, e in decine di altri centri minori nei quali non si segnalavano da tempo attentati dinamitardi.
Gli sceriffi furono impegnati in una competizione serrata per assicurarsi almeno un carro armato, ed era considerato umiliante venire esclusi da questo tipo di distribuzione.
I capi delle polizie locali a questo punto, non senza ragione, si chiesero perché, se si era in guerra, gli agenti non dovessero indossare divise più adeguate al loro status di warriors.
Vennero accontentati, anche se qualcuno lamentò che l’abbigliamento degli agenti «era qualcosa che sarebbe più appropriato sul un campo di battaglia». Immagini di poliziotti armati fino ai denti con marchingegni ad alta sofisticazione divennero comuni.
Intanto gli SWAT si adeguavano. Meno raid contro i trafficanti e più operazioni di ordinaria criminalità: una audace impresa contro un negozio di barbieri, l’incursione che pose fine a una partita di poker, interventi contro chi non aveva licenze edilizi...