Lavoratrici al margine
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Lavoratrici al margine

Donne#Che lavorano#Con altre donne

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Lavoratrici al margine

Donne#Che lavorano#Con altre donne

About this book

In questa indagine l'autrice, attraverso l'esplorazione di alcune relazioni specifiche, ci regala uno sguardo «al margine» del lavoro femminile: le donne che lavorano per altre donne, i centri per l'impiego; il lavoro delle braccianti, delle operaie, delle addette alle pulizie; di expat, cooperanti, scienziate, che si confrontano con il mercato del lavoro globale. Ascoltando le «parole per farlo» – quel linguaggio utilizzato dalle donne straniere per indicare lavori, gesti, relazioni nelle lingue di origine – Nannicini ricostruisce alcuni aspetti del lavoro di oggi, frammentato e intermittente, la cui precarietà si diffonde a velocità accelerata coinvolgendo, in spazi non convenzionali, soggetti imprevisti: di questi moltissime sono donne. Questo libro è anche uno dei primi titoli della collana Parola di Donna, un piccolo spazio a disposizione perché la differenza è un valore da narrare e soprattutto da condividere.

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Information

Year
2020
eBook ISBN
9791280124104
Topic
History
Index
History

Lontane da casa

Sostare sul margine di chi parte, lascia l’Italia per cercare lavoro e vita altrove e osservare le donne tra loro; una partenza femminile che appare diversa da quella degli uomini, ma diversa anche da quella femminile del secolo precedente: chi sono e dove sono dirette? Tra queste, osservare chi parte verso contesti sociali e geopolitici particolari, verso i paesi in via di sviluppo (dicitura internazionale), dunque i paesi del Sud, considerando che se il numero è risibile rispetto al totale delle partenze (7 mila l’anno al massimo, finora), la specificità della loro collocazione costituisce un crocevia molto interessante.
Perché lavorare nella cooperazione internazionale, nello sviluppo come nell’emergenza, è «un mestiere difficile» e «fuori dall’ordinario», come riportano i report annuali di SISCOS1. Quanto difficile certo dipende, ma di sicuro il genere, intersecando altre categorie identitarie come l’età, il colore della pelle, l’etnia, il ruolo professionale e la nazionalità, colloca le cooperanti in posizioni di privilegio rispetto alle donne dei paesi di destinazione, perché la whiteness e la Westerness garantiscono alle cooperanti un potere sociale maggiore. Il loro viaggio è diverso da quello delle altre, delle cosiddette expat? Le partenze femminili in che modo fanno parte di quella che viene chiamata «la nuova emigrazione italiana», diventata un tema dibattuto sui media, – che rilevano come il numero delle partenze di giovani e neolaureati sia in aumento negli ultimi anni –, raccontata come un fenomeno che sollecita una più ampia e aperta discussione pubblica? Affermano che la crisi italiana abbia riarticolato i flussi, rendendo il loro percorso più precario, che il numero degli «italiani che lasciano il paese» comincia a pareggiare o superare (a seconda degli anni di riferimento e degli indicatori utilizzati) quello dei migranti in ingresso.
Rappresentato come una sorta di paradosso sulle copertine dei giornali, il fenomeno appare talvolta un invito a un sincero confronto tra le diverse direzioni e popolazioni; talaltra lo sguardo è allarmato dalla reiterata affermazione della «perdita dei cervelli»: la partenza dei giovani, il conseguente svuotamento del paese dai suoi talenti. La stampa, ma anche parte della letteratura corrente, esprime un’attenzione rivolta ai giovani istruiti, ai laureati, costruendo una sorta di retorica sui
«cervelli in fuga» o sul giramondo «alternativo». Nascono così nuove icone che diventano luoghi comuni.
La crescita e la proliferazione di blog, siti, inchieste giornalistiche ci permettono di intravedere l’eterogeneità e la frammentarietà che caratterizzano il racconto come registro comunicativo, il prevalere della percezione sull’analisi dei dati.
A differenza del dibattito pubblico, la ricerca ha rivolto un’esigua attenzione allo studio dell’emigrazione italiana degli ultimi anni, ad eccezione di un recente saggio del sociologo Enrico Pugliese, studioso da sempre dei temi dell’emigrazione, che rappresenta una significativa discontinuità: Quelli che se ne vanno2. È uno studio che non privilegia l’impronta accademica, quanto la necessità di prendere parte a un dibattito pubblico, di contribuire alla divulgazione della complessità dell’emigrazione italiana contemporanea. In questa direzione, a mio avviso, l’intento di ridisegnare il quadro generale, nello spazio e nel tempo, dice dell’esigenza di ricomporre la pluralità di coordinate utili alla descrizione e alla problematizzazione del fenomeno, che parla di chi se ne va, ma anche di resta.
Quelli che se ne vanno sono più numerosi di prima, fino dall’inizio della crisi e sono da allora «cambiati i protagonisti dell’emigrazione, la loro estrazione sociale, le loro condizioni di partenza e gli stessi fattori che li hanno spinti a emigrare». Ciò mostra che torniamo a essere un paese da cui emigrare come prima. Quel paese che siamo già stati alla fine dell’800 e durante il ’900?
Il testo di Pugliese mostra la necessità di ricomporre la pluralità dei piani e degli assi per poter disporre di una descrizione del tema: un quadro che solleciti una spiegazione della complessità, una visione che affini le interpretazioni e sveli le contraddizioni dei racconti semplificati che i media propongono all’opinione pubblica. Svela la retorica della narrazione dei cervelli in fuga, che omette di accorgersi che anche le braccia sono in partenza, quasi a nascondere che un tratto rilevante dell’emigrazione italiana è costituito ancora una volta dalla popolazione proletaria; altrettanto mostra come l’enfasi sulla partenza dalla regione più ricca, la Lombardia, che in effetti diventa capofila, occulta l’aumento della partenze dalle regioni del sud, anche qui laureati e giovani. Pugliese fin da subito sottolinea la condizione strutturalmente precaria in tutti i paesi di destinazione.
Una condizione che Marta Fana, ricercatrice in economia trasferita in Francia e autrice di diverse pubblicazioni sul lavoro precario, riassunse in una sarcastica e bruciante lettera aperta indirizzata all’allora ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Giuliano Poletti su L’Espresso: «Il problema, ministro Poletti, è che lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare a gratis»3.
La precarietà unita alla bassa qualità dei lavoretti in attesa dei giovani, anche laureati, italiani nei paesi dell’Europa della mobilità di Shengen è narrata da Alberto Prunetti in 108 metri, The new working class hero, dedicato (tra gli altri) «a chi per studiare partiva sui binari d’acciaio», che dice: «...correvano tempi infausti. Si diffondevano il sospetto e la miseria, il fastidio verso gli stranieri e le passioni tristi (...) chi come me laureato proletario in fuga dai contratti a chiamata italiani»4. Se cervelli e braccia sono condizioni distinte alla partenza gli italiani all’estero, e di conseguenza anche le italiane, sono inseriti in occupazioni precarie – in troppi hanno esperienze di lavori dequalificati –. Succede, così, che si incrocia e si sovrappone per molti e molte lanche a precarietà, strutturale dei paesi di destinazione.
Nell’impegno di costruire un quadro ampio e nello stesso tempo di proporre un libro accessibile alla lettura anche non specialistica, i riferimenti che Pugliese dedica al «genere» (il paragrafo si intitola: Età, genere, istruzione) sono piuttosto esigui anche se non tralascia di indicare punti rilevanti: oggi il 45% di quelli che se ne vanno sono donne e, come ricorda, «soprattutto quelle più scolarizzate si muovono indipendentemente nelle nuove catene migratorie, affidandosi anche ai nuovi sistemi di comunicazione».
I dati di genere sono messi in rilievo anche dalla stampa: «I numeri, riferiti al 2017, presentano numerosi elementi di novità. In primis le donne: nella fascia 20-30 anni stanno superando gli uomini, in determinate regioni del Paese, nella capacità di cogliere al volo occasioni di mobilità oltreconfine»5.
L’emigrazione femminile per studio e soprattutto per lavoro è autonoma, diversamente da quella storica, segue le stesse traiettorie, si indirizza verso le stesse destinazioni e per molti versi si colloca nelle stesse condizioni professionali di quella maschile appartenente alla stessa generazione; in breve sono questi i tratti evidenziati. Un quadro molto sintetico, quasi una bozza, un orientamento che non si discosta dalla tendenza attuale. Quella contraddistinta da una scarsa attenzione nei confronti del genere nell’ambito degli studi sull’emigrazione dal nostro paese. Scarsa ma non assente; il titolo che dà inizio al capitolo è preso in prestito dal convegno: Lontane da casa. Donne italiane e diaspora globale nel XX secolo, organizzato a Padova nel 2013 dal Centro Interuniversitario di Storia Culturale e dalla Società Italiana delle Storiche6. L’intenzione del convegno era quella di «sondare lo stato dell’arte e fornire un contributo innovativo e originale allo sviluppo degli studi storici su questo tema (...)».
La significativa presenza delle donne nei flussi migratori originatisi dall’Italia è, tuttavia, lontana dall’aver ricevuto l’attenzione che merita, le ricerche compiute aiutano a tracciare solo una prima mappa della storia dell’emigrazione femminile italiana sulla quale ancora molto rimane da indagare. L’incontro ha prodotto, però, la pubblicazione di una raccolta di saggi che«costituisce lo sviluppo ultimo di un dialogo iniziato»7.
La storiografia ha cominciato a illuminare diversi aspetti dell’esperienza migratoria delle donne italiane nel corso del Novecento, declinando in una «dimensione spec...

Table of contents

  1. Parola di donna
  2. Il lavoro delle donne Simona Bonsignori
  3. Prologo Adriana Nannicini
  4. Le parole per farlo 2.0
  5. Donne che lavorano per altre donne nei centri per l’impiego
  6. Lontane da casa
  7. Le parole e le immagini
  8. Epilogo