Cuore di tenebra
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Cuore di tenebra

Joseph Conrad, Alessandro Pugliese

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Cuore di tenebra

Joseph Conrad, Alessandro Pugliese

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Volume numero 2 della collana "Classici" a cura di Pierluigi Pietricola. Traduzione di Alessandro Pugliesi

Prefazione di Luca di Fulvio

Uno dei testi più letti della letteratura del '900 è un capolavoro di tensione narrativa, una delle più profonde riflessioni fra la dicotomia fra bene e male, ragione e follia.

Nel 1890 Conrad si recò per sei mesi in Africa: ne ritornò quasi in fin di vita, con un bagaglio di ricordi, disillusioni e "disgustosa conoscenza" da cui, nove anni dopo, sarebbe nato Cuore di tenebra. Marlow, il protagonista, viene ingaggiato da una compagnia commerciale e mandato in Congo. Qui, viaggiando tra gli orrori del colonialismo, incontra Kurtz, enigmatico personaggio reso folle dalla solitudine e da una "volontà di potenza" nella quale la civiltà bianca rivela il suo vero volto: quel "cuore di tenebra" che non è tanto l'oscurità della wilderness africana, quanto l'identità - la colpa - dell'uomo europeo.

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Information

Year
2021
ISBN
9788869347412

I

La Nellie, una yawl da crociera, ruotò intorno all’ancora senza un battito di vele e si mise a riposo. La marea era salita, il vento si era quasi placato e, poiché venivamo trascinati lungo il fiume, l’unica cosa da fare era attendere il cambio della marea. L’estuario del Tamigi si estendeva davanti a noi come l’inizio di un corso d’acqua interminabile. Al largo, il mare e il cielo erano saldati assieme senza una qualche visibile giuntura, e nello spazio luminoso le vele brunite delle chiatte che salivano con la marea parevano immobili grappoli rossi di tela tagliati a punta le cui aste scintillavano al sole. Una foschia aleggiava sulle rive basse che si protendevano verso il mare in una pianura svanita. L’aria era scura sopra Gravesend, e più indietro sembrava ancora condensata in una lugubre oscurità, minacciosa e immobile sulla città più vasta e più grande della terra.
Il direttore delle Compagnie era il nostro capitano e ospite. Noi quattro guardavamo affettuosamente le sue spalle mentre lui stava a prua guardando verso il mare. Lungo tutto il fiume non c’era niente che sembrasse più marinaresco. Somigliava a un pilota, che per un marinaio è la personificazione dell’affidabilità. Era difficile immaginare che il suo lavoro non fosse là fuori, sull’estuario luminoso, ma dietro di lui, nell’oscurità minacciosa. Tra noi c’era, come ho già detto da qualche parte, il legame e il vincolo del mare. Oltre a tenere i nostri cuori uniti durante lunghi periodi di separazione, aveva l’effetto di renderci tolleranti nei confronti delle storie degli altri, nonché delle loro convinzioni. L’avvocato, il migliore dei vecchi amici, per via dei suoi molti anni e delle sue tante virtù, godeva dell’unico cuscino disponibile sul ponte, e giaceva sull’unico tappeto. Il ragioniere aveva già tirato fuori una scatola di domino, e se la spassava a costruire architetture con le tessere. Marlow sedeva poco più in là a gambe incrociate, appoggiato all’albero di mezzana. Aveva guance incavate, carnagione di un colorito giallastro, schiena dritta e l’aspetto di un asceta; e con le braccia abbassate, i palmi delle mani rivolti all’infuori, somigliava a un idolo. Il direttore, soddisfatto che l’ancora avesse una buona presa, si diresse a poppa e si sedette in mezzo a noi. Dopo aver scambiato pigramente con lui qualche parola, ci fu silenzio a bordo dello yacht. Per un motivo o per l’altro, non iniziammo a giocare a domino. Ci sentivamo distratti, assorti; lo sguardo fisso e placido di chi se ne sta immerso nel proprio pensiero. La giornata stava finendo in una quieta serenità e in un incantevole splendore. L’acqua baluginava soavemente; il cielo, senza una sola macchia, era un’immensità benigna di luce immacolata; la stessa nebbia sulle paludi dell’Essex pareva un velo di luminosa stoffa, sospeso sopra le alture boschive dell’entroterra, drappeggiante con pieghe diafane le basse sponde. Solo l’oscurità a ovest, incombente sui tratti più alti, diventava ogni minuto più cupa, come se fosse irritata dall’approssimarsi del sole. E alla fine, nella sua caduta curva e impercettibile, il sole calò basso e da bianco splendente si trasformò in rosso opaco senza raggi e senza calore, come volesse spegnersi all’improvviso, colpito a morte da quel tocco d’oscurità gravante su una folla di uomini.
Subito un cambiamento avvenne sulle acque e la serenità divenne meno brillante ma più profonda. Il vecchio fiume nella sua vasta portata rimase imperturbabile al tramonto del giorno, dopo secoli di buon servizio reso alla razza che popolava le sue sponde, distesa nella tranquilla dignità di un corso d’acqua che conduceva agli estremi confini della Terra. Guardavamo quel venerabile suo flusso, non con il vivido rossore di un breve giorno che viene e se ne va per sempre, ma attraverso la luce augusta di duraturi ricordi. E, in effetti, niente è più facile per un uomo che, come la frase recita, “seguì il mare” con riverenza e affetto, evocare il grande spirito del passato sull’ultimo tratto del Tamigi. La corrente di marea scorre avanti e indietro nel suo lavoro incessante, popolata dei ricordi di uomini e navi che ha portato al riposo della casa o alle battaglie in mare. Aveva conosciuto e servito tutti gli uomini di cui la nazione è fiera, da Sir Francis Drake a Sir John Franklin, cavalieri tutti, titolati o meno: i grandi cavalieri erranti del mare. Aveva portato tutte le navi i cui nomi sono simili a gioielli che brillano nella notte del tempo, dalla Golden Hind che torna con i suoi fianchi tondi colmi di tesori, per essere visitata da Sua Altezza la Regina e sancire così la sua grandiosa leggenda, all’Erebus e al Terror, legati ad altre conquiste e mai più ritornati. Aveva conosciuto le navi e gli uomini. Erano salpati da Deptford, da Greenwich, da Erith: avventurieri e coloni; le navi dei re e le navi dei cambiavalute; capitani, ammiragli, oscuri ‘affaristi’ del commercio orientale e gli incaricati ‘generali’ delle flotte dell’India Orientale. Cacciatori d’oro o inseguitori di fama, erano usciti tutti su quella corrente, portando la spada, e spesso la torcia, messaggeri della potenza del paese, portatori di una scintilla del sacro fuoco. Quale grandezza non era fluttuata sulla marea di quel fiume, diretta verso il mistero di una terra sconosciuta!… I sogni degli uomini, il seme delle confederazioni, i germi degli imperi.
Il sole tramontò; il crepuscolo cadde sul fiume e le luci cominciarono ad apparire lungo la riva. Il faro di Chapman, una sorta di treppiedi emergente su una distesa di fango, brillava vividamente. I fanali delle navi scivolavano nel canale d’ingresso – in un grande fermento di luci che si alzavano e si attenuavano.
Più a ovest, nei tratti più alti, la ridda di luci lambiva il luogo della mostruosa città che era ancora segnata sinistramente nel cielo, un’oscurità minacciosa nella luce del sole, uno sguardo lascivo sotto le stelle.
“E anche questo” disse improvvisamente Marlow, “è stato uno dei luoghi oscuri della terra”.
Era l’unico di noi che ancora ‘seguiva il mare.’ La cosa peggiore che si potesse dire sul suo conto era che non rappresentasse la sua classe. Era un marinaio, ma anche un vagabondo; mentre la maggior parte dei marinai mena, se così si può dire, una vita sedentaria: le menti votate all’ordine casalingo e la casa, ovvero la nave, sempre con loro, così come la loro patria, ovvero il mare. Le navi si rassomigliano tutte, e il mare è sempre lo stesso. Nell’immutabilità del loro ambiente, le coste straniere, i volti stranieri, la mutevole immensità della vita scivolano via velati non da un senso di mistero, ma da un lieve disprezzo di ignoranza; poiché non v’è nulla di misterioso per un marinaio se non il mare stesso, che è l’amante di tutta una vita ed è imperscrutabile come il destino. Per il resto, dopo le sue ore di lavoro, una passeggiata informale o qualche occasionale baldoria sulla riva sono per lui sufficienti a svelargli il segreto di un intero continente, ed egli generalmente trova che non valga la pena svelare quel mistero. I racconti dei marinai hanno una semplicità diretta, la cui intera morale è racchiusa in un guscio di noce. Marlow, però, non era un tipico uomo di mare (se si esclude la sua propensione a tessere racconti), e per lui il significato di una storia non era contenuto all’interno come un gheriglio, ma stava fuori e avviluppava il racconto dall’esterno, e lui lo rivelava come un bagliore che fa emergere una foschia, simile a uno di quegli aloni brumosi a volte resi visibili dal baluginio spettrale del chiaro di luna.
La sua osservazione non parve affatto sorprendente. Era tipico di Marlow. Venne accettata in silenzio. Nessuno si prese la briga di borbottare qualcosa; così egli subito aggiunse, molto lentamente: “Stavo pensando a tempi molto antichi, quando i romani vennero qui per la prima volta, millenovecento anni fa… l’altro ieri… La luce irradia da questo fiume sin da… dai Cavalieri, che dite? Sì, ma è come una fiammata che spazza una pianura, come un lampo tra le nuvole. Noi viviamo nel suo sfarfallio, che possa durare finché questo vecchia terra continui a girare! Eppure, solo ieri qui vi era l’oscurità. Immaginatevi i sentimenti di un comandante di una… com’è che si chiama? una triremi nel Mediterraneo, a cui venisse ordinato d’improvviso di dirigersi al nord; trascinato via terra a rotta di collo in mezzo ai Galli, per governare una di quelle barche dei legionari – e che meraviglioso nugolo di uomini devono essere stati – che ne costruivano, a quanto pare, un centinaio in uno o due mesi, se dobbiamo credere a quello che si legge in giro. Be’, figuratevelo qui, alla fine del mondo, su un mare color piombo, un cielo fumé, su una specie di nave rigida come una concertina, mentre risale il fiume con provviste, ordini o quello che vi pare. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, assai poco di commestibile a disposizione per un uomo civile, e nient’altro che acqua del Tamigi da bere. Niente vino falerno qui, niente scali. Qua e là un accampamento militare sperduto in mezzo al deserto, come un ago in un pagliaio, freddo, nebbia, tempeste, malattie, esilio e morte – morte che si nasconde nell’aria, nell’acqua, nella boscaglia. Devono essere morti come mosche, qui. Oh sì, lui ce la fece. Se la cavò benissimo, senza dubbio, e senza pensarci troppo, se non forse per vantarsene in seguito di ciò che aveva passato ai suoi tempi. Erano abbastanza uomini per affrontare l’oscurità. E, forse, di tanto in tanto fu rallegrato dal pensiero di una possibile promozione alla flotta a Ravenna, se avesse goduto di buone entrature a Roma e fosse sopravvissuto al terribile clima. Oppure pensate a un rispettabile giovane cittadino in toga… forse con un’eccessiva debolezza per i dadi, dico… be’, giungere da queste parti al seguito di qualche prefetto, o esattore delle tasse, o anche un mercante, per rinfoltire le sue finanze. Sbarca in una palude, marcia attraverso i boschi e, in qualche postazione dell’entroterra, sente tutta la ferocia, la ferocia assoluta, chiuderglisi attorno, tutta quella vita misteriosa del deserto che si agita nella foresta, nelle giungle, nei cuori degli uomini selvaggi. Non c’è alcuna iniziazione per tali misteri. Egli deve vivere in mezzo all’incomprensibile, che è anche detestabile. Ma in fondo emana anche un fascino che via via agisce su di lui; il fascino dell’abominio, dico. Immaginate i crescenti rimpianti, il desiderio di fuggire, il disgusto impotente, la resa, l’odio”.
Fece una pausa.
“Tenete conto” riprese di nuovo, sollevando un gomito, il palmo rivolto verso l’alto, in modo da assumere, con le gambe incrociate, la posa di un Buddha che predica in abiti europei e senza fior di loto… “Tenete conto, nessuno di noi si sentirebbe esattamente così. Ciò che salva noi è l’efficienza: la devozione all’efficienza. Ma per quella gente non aveva molta importanza l’efficienza, davvero. Non erano coloni; sospetto che la loro amministrazione fosse solo tesa a spremere, nient’altro. Erano conquistatori, e per questo basta solo la forza bruta – niente di cui vantarsi, quando ce l’hai, poiché la tua forza è solo un caso e deriva dalla debolezza altrui. Arraffavano quel che potevano per il piacere di prendere. Si trattava di pura rapina violenta, di omicidio aggravato su larga scala, e di uomini che ci si gettavano alla cieca, il che si confà alla perfezione a coloro che affrontano l’oscurità. La conquista della terra, che per lo più significa portarla via a chi ha un colore della pelle diverso o un naso leggermente più piatto del nostro, non è una cosa carina quando ci si riflette abbastanza. Ciò che può riscattare è solo l’idea, un’idea che vi sta dietro, non una sentimentale finzione… ma un’idea; nonché una fede disinteressata nell’idea, qualcosa che puoi fissare e verso cui inchinarti, in nome della quale puoi immolare un sacrificio a…”.
Si interruppe. Sul fiume scivolavano fiamme, piccole fiamme verdi, fiamme rosse, fiamme bianche che si inseguivano, si sorpassavano e si fondevano, s’incrociavano per poi separarsi lentamente o in fretta. Il traffico della grande città proseguiva nella notte più profonda lungo il fiume insonne. Stavamo a guardare, in paziente attesa; non c’era altro da fare finché la corrente non fosse mutata. Ma fu solo dopo un lungo silenzio, quando disse, con voce esitante, “Suppongo che voi ragazzi vi ricordiate che una volta feci il marinaio d’acqua dolce per un po’”, che sapemmo di essere destinati, intanto che il riflusso iniziasse a scorrere, a sentire il racconto di una delle inconcludenti esperienze di Marlow.
“Non intendo annoiarvi troppo con ciò che mi successe personalmente” iniziò, mostrando con questa osservazione la debolezza di molti narratori di storie che paiono così spesso inconsapevoli di ciò che il loro pubblico gradirebbe di più ascoltare; “tuttavia, per farvi capire l’effetto che ebbe su di me, dovreste sapere come mi cacciai là fuori, cosa vidi, come feci a risalire quel fiume fino al luogo in cui incontrai per la prima volta quel disgraziato. Fu, quello, il punto estremo della navigazione e il punto culminante della mia esperienza. Sembrò, in qualche modo, gettare una sorta di luce su tutto ciò che mi circondava – e nei miei pensieri. Fu anche abbastanza cupo – e pietoso – nient’affatto straordinario, e neppure tanto chiaro. No, non tanto chiaro. Eppure, sembrò gettare una specie di luce.
“Allora, come ricorderete, ero appena tornato a Londra dopo un bel po’ di Oceano Indiano, Pacifico, e Mar della Cina – la consueta dose di Oriente: sei anni o giù di lì – e me la stavo prendendo comoda senza far niente, importunando voialtri sia al lavoro sia nelle case, proprio come se avessi una missione celeste per civilizzarvi. Andò piuttosto bene per qualche tempo, ma poi mi stancai di oziare a quel modo e iniziai a cercarmi una nave: di sicuro, il lavoro più difficile al mondo. Ma le navi non mi consideravano nemmeno. E così finii per stancarmi anche di quel gioco.
“Quando ero un ragazzino avevo una passione per le mappe. Per ore me ne restavo a fissare il Sud America, l’Africa, l’Australia, sognando ad occhi aperti tutte le glorie dell’esplorazione. A quel tempo, c’erano parecchi spazi vuoti sulla terra, e quando ne vedevo uno che sembrava particolarmente invitante su una mappa (ma sembrano tutti così), piazzandoci sopra il dito mi dicevo: “Quando sarò grande ci andrò”. Il Polo Nord era uno di quelli, ricordo. Be’, non ci sono ancora stato e non ci proverò ora. Il suo fascino si è spento. Altri posti erano sparsi per l’equatore e in ogni sorta di latitudine su entrambi gli emisferi. In alcuni di essi ci sono stato, e… insomma, non ne parleremo. Ma ce n’era ancora uno: il più grande, il più grande vuoto, per così dire, verso il quale nutrivo un desiderio ardente.
“È vero, a quel punto non era più uno spazio vuoto. Sin dalla mia infanzia si era riempito di fiumi e laghi e di un mucchio di altri nomi. Aveva cessato di essere uno spazio vuoto di incantevole mistero, una macchia bianca che un ragazzo può riempire di sogni di gloria. Era diventato un luogo di tenebre. Ma in esso c’era soprattutto un fiume, un possente e grande fiume che si poteva vedere sulla mappa, simile a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare, il corpo che, a riposo, andava a curvare lontano su una vasta distesa, e la coda persa nelle profondità della terra. E mentre lo guardavo nella mappa come fosse in una vetrina, mi ammaliò come un serpente fa con un uccellino, uno sciocco uccellino. Mi ricordai poi che c’era una grossa Compagnia, una grossa impresa commerciale su quel fiume. Che mi venga un colpo! pensai, non potranno certo commerciare senza servirsi di un qualche tipo di imbarcazione su quell’acqua dolce – battelli a vapore! Perché non provare a farmene assegnare uno? Ed ecco che mi feci tutta Fleet Street senza riuscire a scrollarmi di dosso quell’idea. Il serpente mi aveva stregato.
“Dovete sapere che quella era una Compagnia continentale, una società commerciale, ma io ho tanti parenti che vivono nel continente, sia perché è economico sia perché non è poi così brutto come sembra, almeno questo dicono.
“Mi dispiace ammetterlo, ma cominciai a tormentarli. Già quella era una situazione del tutto nuova per me. Non ero abituato a procurarmi le cose a quel modo, sapete. Avevo sempre fatto da me, percorrendo la strada con le mie sole gambe, andando dove volevo. E non avrei neppure immaginato di esserne capace, ma poi – vedete – capii in qualche modo che sarei dovuto arrivarci con le buone o con le cattive. Così li tormentai. Gli uomini dicevano: “Mio caro ragazzo”, ma non facevano nulla. Sicché… ci credereste? Ci provai con le donne. Io, Charlie Marlow, incaricai le donne di occuparsene, mi affidai a loro per trovare un lavoro. Santo cielo! Be’, vedete, era quell’idea che mi spingeva a tanto. Avevo una zia, un’anima caritatevole e piena di entusiasmo. Mi scrisse: ‘Sarà un vero piacere. Sono pronta a fare qualsiasi cosa, qualunque cosa per te. È una grande idea. Conosco la moglie di un pezzo grosso dell’Amministrazione, e anche un uomo che ha molta influenza con… eccetera, eccetera’. Era determinata a fare di tutto pur di farmi nominare capitano di un vaporetto fluviale, se quello era il mio capriccio.
“Fui assunto, naturalmente; e anche abbastanza in fretta. A quanto pareva, la Compagnia aveva appena ricevuto la notizia che uno dei loro capitani era stato ucciso nel corso di una rissa con gli indigeni. Era la mia occasione e ciò mi rese ancora più bramoso di partire. Solo mesi e mesi dopo, nel tentativo di recuperare ciò che era rimasto del corpo, appurai che la lite originaria era scaturita da un malinteso circa alcune galline. Sì, due galline nere. Fresleven – questo era il nome del tizio, un danese – pensando di essere stato in qualche modo truffato, era sceso a terra e aveva iniziato a prendere a bastonate il capo del villaggio. Oh, non mi stupii affatto di questa storia, né tantomeno di sentirmi dire che Fresleven fosse la creatura più gentile e tranquilla che abbia mai camminato su due gambe. Non lo metto in dubbio, senz’altro lo era; ma si trovava laggiù da un paio d’anni, impegnato nella nobile causa, sapete, e probabilmente alla fine aveva sentito il bisogno di farsi rispettare in qualche modo. Così aveva picchiato il vecchio negro senza pietà, mentre una grande folla stava lì a guardarlo, sbalordita, finché un uomo ...

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