S'è svejatooo!
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Ricciotto racconta Il marchese del Grillo

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S'è svejatooo!

Ricciotto racconta Il marchese del Grillo

About this book

Aneddoti, curiosità, segreti e retroscena di una delle commedie più famose, rappresentative e ironicamente dissacranti del cinema italiano. Con la prefazione di MAX TORTORA e tante FOTO INEDITE DI BACKSTAGE dell' Archivio Enrico Appetito.

La voce narrante è quella di Giorgio Gobbi, l'immortale "Ricciotto", l'aiutante del "sor marchese" nell'orchestrare scherzi e tiri mancini nella Roma ottocentesca insidiata dall'avanzare delle truppe napoleoniche. Ed è una voce ironica, a volte velata di malinconia, quella che racconta la genesi, i dietro le quinte, le vicissitudini che caratterizzarono il set de "Il marchese del Grillo", capolavoro firmato da Mario Monicelli e interpretato da un Alberto Sordi di istrionica bravura.

Un volume che raccoglie tutto quello che c'è da sapere di un film che, a quarant'anni di distanza, mantiene inalterata la sua vis comica grazie ad un'armonia d'insieme e ad una compattezza narrativa sorprendenti.

S'è svejatooo! è la summa riepilogativa di una pellicola, ormai considerata una pietra angolare della comicità, non solo romana, ma dell'intero Stivale.

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1. L’inizio di un sogno

Era un caldo pomeriggio del luglio 1981. A bordo del mio Ciao Piaggio color celeste bagnarola, sfrecciavo, si fa per dire, sul Grande Raccordo Anulare. La cosa, allora come oggi, era ovviamente vietatissima, ma dovevo raggiungere gli studi di Cinecittà in via Tuscolana in orario, non potevo arrivare tardi all’appuntamento della vita. Il tanto agognato provino per Il Marchese del Grillo era realtà.
All’epoca non avevo nemmeno un agente che mi tutelasse, cioè, in realtà ne avevo uno, Valentino Macchi che però si occupava solo di pubblicità e non aveva contatti con il cinema. Andavo alla ventura, allo sbaraglio, con la scuola di recitazione ancora da finire, insomma, senza arte né parte. Non ricordo per quale motivo scelsi il piccolo ciclomotore invece della mia amata Renault 4 bianca per andare a Roma, ma una cosa è certa: feci il viaggio che mi portava da Ponte Galeria, la piccola borgata romana dove sono nato il 28 settembre del 1957, a Cinecittà, praticamente in trance. Nella mia testa di giovane ed inesperto attore frullavano, come un volo di farfalle impazzite, le fantasticherie più assurde. Mi vedevo già premiato del David di Donatello come miglior attore non protagonista, sulle copertine dei periodici, nelle interviste televisive e – perché no – a bordo di una bella e sportiva automobile nuova. Ho sempre avuto una certa predisposizione all’ottimismo scriteriato. Ma facciamo un passo indietro.
La mia passione per il cinema e il teatro è sempre stata forte; ero assiduo spettatore all’Eliseo e all’Argentina, mentre per il grande schermo le mie sale preferite erano il Metropolitan a Via del Corso, l’Embassy ai Parioli e l’Eurcine in Via Liszt, per me molto facile da raggiungere.
Galeotti furono alcuni amici di Fiumicino, dove mia madre aveva una cartoleria in Via Torre Clementina. Venirono a trovarmi in negozio, invitandomi a vedere le prove della loro compagnia teatrale filodrammatica “Le Marionette”. Nell’oratorio della chiesa di Porto, piccolissima frazione di Fiumicino attigua alla grande Villa Torlonia, era allestito un bel palco con tanto di sipario ed un centinaio di sedie per il pubblico. È lì che ebbi il battesimo del fuoco, sì di fuoco, perché nonostante gli anni passati e le inevitabili delusioni che qualsiasi carriera comporta, ancora oggi, dopo più di quarant’anni, sento ancora quel fuoco ardere dentro di me. L’occasione si presentò quando un amico della compagnia, per improrogabili motivi di lavoro, disertò la prima di Due dozzine di rose scarlatte di Aldo De Benedetti, di fatto impedendone l’andata in scena. Lui stesso mi propose di sostituirlo e, vinte le naturali e legittime perplessità del regista, cominciai a provare. Mi piaceva! Cavolo se mi piaceva stare sul palcoscenico, anche se il ruolo del cameriere prevedeva solo poche battute, era esaltante. Venne la sera della prima, il teatro era gremito… sì, vabbè, di amici e conoscenti, ma pur sempre di pubblico si trattava. Ero devastato dall’emozione, salivazione azzerata, batticuore ed una copiosa iperidrosi alle mani. Ricordo come fosse ora il suono degli anelli metallici del sipario che scorrevano sulla corda d’acciaio tesa tra le due pareti. Non potevo più tornare indietro. Il debutto andò bene ed io me la cavai con dignità. Ci presi gusto e dissi al capocomico della compagnia che mi sarebbe piaciuto continuare. Allestimmo un paio di nuovi spettacoli dove fortunatamente ebbi dei ruoli di maggior rilievo. Tirai dentro nella compagnia anche mio fratello Luca e mia sorella Gisella. Tutti facevamo tutto. Si verniciavano quinte, si preparavano scenografie, si tagliavano e cucivano costumi e poi… in palcoscenico! Ci stavo provando gusto. Insieme ai miei fratelli proponemmo di cambiare la programmazione della compagnia: invece di fare le commedie dei “telefoni bianchi”, pur rimanendo nell’ambito del teatro comico popolare, avremmo voluto prendere in considerazione autori tipo Molière, Goldoni, Plauto. Non fummo ascoltati ed inevitabilmente la compagnia si sfasciò. Io e i miei fratelli ne fondammo una insieme ad un folto gruppo di amici che aveva sposato il nostro desiderio di cambiare drammaturgia. Nacque così la “Compagnia dei Guitti”. Beh, nome non fu mai più appropriato. All’interno del gruppo c’era un mio caro amico di Maccarese, Mario Carraretto. Mi stimava e nelle pause delle prove mi suggerì con una certa insistenza di iscrivermi ad una scuola di recitazione. Grazie ai suoi consigli mi iscrissi alla Accademia Fersen, una delle migliori scuole di teatro dopo l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Finii sotto le grinfie di Gianni Diotaiuti, un grandissimo insegnante scomparso novantenne nel 2019. Gianni ha tirato su intere generazioni d’attori. Gente che aveva serie difficoltà anche ad esprimersi con suoni gutturali e parole incomprensibili, riuscì, con metodi severi di duro lavoro, a recitare Shakespeare o Cechov con una certa efficacia. Di pari passo, con i miei fratelli, allestimmo una discreta “Locandiera” di Goldoni, andammo in scena al Cinema Teatro Traiano di Fiumicino, un luogo fino ad allora sognato dalla piccola compagnia de “I guitti”.
Dentro il mio cuore si faceva sempre più strada la convinzione che quella sarebbe diventata la mia vita. Al tempo ero iscritto alla facoltà di Biologia della Sapienza. Il mio sogno, fino ad allora, era diventare biologo marino ed imbarcarmi su di una nave oceanografica. Per non gravare troppo sulla mia famiglia – eravamo infatti quattro fratelli dopo l’arrivo inaspettato di Cristiano – decisi di lavorare. Facevo il rappresentante di attrezzature sportive per una ditta di Lurago d’Erba di lontani parenti. Le cose andavano bene, ero anche fidanzato con una bella ragazza, figlia del maresciallo dei Carabinieri di Fiumicino. La bomba però stava per scoppiare.
Per dare una svolta qualitativa alla nostra compagnia filodrammatica, decidemmo all’unanimità di portare in scena Anfitrione di Tito Maccio Plauto. Un impegno non indifferente. Mio fratello Luca progettò delle scenografie molto suggestive fatte con teli di plastica bianca e due enormi colonne corinzie, che comportarono diversi giorni di costruzione, passati nella grande aia dell’azienda agricola che mio padre dirigeva a Ponte Galeria. Luca era ignaro che quello sarebbe diventato il suo lavoro e che negli anni avrebbe firmato importanti scenografie per teatri stabili e film di successo.
Io, dovendo interpretare Anfitrione, il protagonista, mi misi a studiare con grande impegno. Una mole di lavoro improba per un neofita come me. Nel percorso che mi portò al debutto mi fu di grande aiuto il fatto che stessi frequentando contemporaneamente l’Accademia Fersen. Eravamo un bel gruppo, si lavorava con passione e divertimento, spesso finivamo le lunghe prove serali con pizza, birra e… qualche canna! Mia sorella Gisella, così come accadde per mio fratello, scoprì la sua vera passione, diresse con piglio sicuro la compagnia nell’allestimento dello spettacolo e capì che da grande non avrebbe più fatto il medico ma la regista. Avemmo un bel successo, la commedia fu replicata per diversi giorni al Cinema Teatro Traiano che poteva contare su di una capienza di circa trecento posti. Recitare mi piaceva sempre di più.
Presi il coraggio a due mani e un giorno, a pranzo, con tutta la famiglia riunita intorno al tavolo, informai i miei genitori e i miei fratelli della mia irrevocabile decisione: lasciavo l’Università e il lavoro, da grande avrei fatto l’attore. Mio padre rimase con la forchetta a mezz’aria e si fece scuro in volto: “Sei proprio sicuro di quello che fai?!”. Risposi con un laconico sì.
Oggi posso capire cosa passò nel cuore di mio padre in quel momento, il suo sogno era che almeno un paio di figli avrebbe seguito le sue orme di ricercatore. Mi parlò a monosillabi per diversi mesi.
In Accademia si veniva a conoscenza dei provini di cinema e teatro tramite passaparola; la smania di lavorare ci pervadeva come una febbre e l’idea di unire l’utile al dilettevole guadagnando qualche soldo faceva il resto.
Seppi da alcuni compagni che un agente di pubblicità incontrava aspiranti attori per rinforzare le fila della sua agenzia. Incontrai Valentino Macchi alla fine del 1980, la prima cosa che mi disse quando sedetti davanti a lui, fu: “Eh no! Quel dente rotto lo devi riparare, altrimenti non lavori!”. Avevo, anzi ho, il primo incisivo superiore scheggiato, grazie ad una botta ricevuta da mio fratello che mi colpì con un pesante vasetto di bronzo durante una stolta e giocosa litigata adolescenziale.
A giugno 1981 Valentino mi trovò un provino per una pubblicità della Buitoni. Cercavano un fornaretto in carne e soprattutto di estrazione popolare che magnificasse la fragranza e la bontà di alcune crostatine all’albicocca. Fui scelto. Era il primo lavoro da professionista, pagato! La location medioevale dove si svolgevano le gesta del giovane fornaio erano le grandi cucine del castello Orsini Odescalchi di Bracciano. Ricordo che durante le riprese dovetti fare un packshot con il prodotto; completamente in silhouette, mi misero ad un paio di metri, in controluce, un riflettore da 10.000w. Ebbi sinceramente paura di andare arrosto e capii che il lavoro dell’attore non sarebbe stato solo rose e fiori. Giulio Paradisi, il bravo regista che mi diresse, capì il mio disagio e cinicamente ne rise di gusto.
Durante le riprese di quello spot accaddero diverse cose che poi condizionarono positivamente la mia carriera. Durante una pausa, feci una passeggiata nel cortile interno del castello. Ero nei pressi delle colonne del patio quando vidi un uomo venirmi incontro abbigliato con un costume settecentesco e il tricorno calcato sulla candida parrucca, mentre fumava con gusto una sigaretta senza filtro. Quando fu ad un paio di metri trasecolai: era Marcello Mastroianni nelle vesti del vecchio Casanova ne Il mondo nuovo di Ettore Scola. Ci fu un sorriso sincero tra noi, in fondo eravamo due colleghi che si godevano la pausa. Questa folle considerazione mi frullò nella testa per un attimo, per lasciare poi spazio alla consapevolezza di aver bestemmiato, ma questo non mi impedì di sognare di lavorarci un giorno insieme. Allora non avrei mai nemmeno lontanamente immaginato che avrei fatto con lui due film, diventandone amico.
Aiuto regista di Giulio Paradisi nello spot era un giovanissimo ma già promettente Alessandro D’Alatri. Negli anni seguenti girammo insieme molte pubblicità, tra le quali ricordo con particolare piacere quella dell’Alpitour realizzata a Fuerteventura alle Canarie che diede il via ad un tormentone usatissimo in quegli anni quando qualcuno aveva problemi con la prenotazione di un hotel o perdeva un aereo: “Turista fai da te?! No Alpitour?! Ahi! Ahi! Ahi!”. Anche con lui nacque una solida amicizia che dura ancora oggi.
Ma la cosa più importante, l’evento che di fatto stava per cambiare la mia vita, sarebbe successo di lì a poco, appena ripreso il lavoro dopo la pausa pranzo. In un cambio di inquadratura, dove normalmente gli attori cialtroni ed indisciplinati (alla cui categoria appartengo di diritto) chiacchierano ad alta voce e stanno tra i piedi di elettricisti e macchinisti che si muovono come formiche indaffarate, mi misi a parlottare con Donatella Ceccarello (recentemente scomparsa), una bravissima attrice bellunese che interpretava una delle cuoche. Mi squadrò nel mio costume popolare e mi disse: “Perché non ti fai vedere da Monicelli, prepara un film sulla Roma papalina e cerca caratteristi romani”. La ringraziai e, affamato di nuove esperienze e nuovi lavori, appena venuto via dal set mi catapultai con la mia fedele Renault 4 in Viale Liegi ai Parioli dove si trovavano gli uffici della Gaumont Italia che produceva il film. Fui ricevuto da Amanzio Todini, l’aiuto di Monicelli. Mi guardò a lungo, diede una sbirciata alle poche fotografie che mi accompagnavano nei viaggi della speranza, e mi disse che avrei potuto incontrare il regista. Potevo scegliere di tornare il giorno successivo o aspettare Monicelli che era fuori sede e sarebbe tornato a fine giornata. Rimasi ed aspettai fiducioso il ritorno del Maestro. Un paio d’ore di fitti pensieri mi divisero dall’incontro con Mario. Appena rientrato in ufficio, mi fece accomodare e, con una gentilezza asciutta e senza fronzoli, mi chiese da dove venivo e cosa avevo fatto. Risposi diligente a tutte le sue domande, elencando le scarne esperienze teatrali, la frequentazione dell’Accademia Fersen, senza tralasciare il fatto che ero appena ...

Table of contents

  1. Frontespizio
  2. Colophon
  3. L’autore
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. 1. L’inizio di un sogno
  7. 2. Si comincia!
  8. 3. La febbre, ma… the show must go on!
  9. 4. “Mia cara Olimpia!”
  10. 5. Si va in Francia!
  11. 6. Titoli di coda
  12. Ricciotto intervista…
  13. Foto inedite