Psyché. Vol. 1
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Invenzioni dell'altro

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Invenzioni dell'altro

About this book

Recitano i dizionari che la parola occasione porta dentro di sé un rimando al caso, all'accidente, a ciò che è fortuito, ma simile connotazione, spesso giudicata negativamente, mette in ombra quanto ad essa si lega costitutivamente: l'incontro. I saggi che compongono il primo volume di Psyché. Invenzioni dell'altro sono stati ordinati da Jacques Derrida proprio a partire dall'idea che l'altro, in qualunque modo irrompa o si annunci, è sempre occasione di un incontro in cui pensieri, domande e sollecitazioni si ritrovano nell'unità di un'esigenza fondante e, nello stesso tempo, ambigua: giocare fino in fondo e senza protezioni la questione della verità. Una verità sempre inseguita e interrogata attraverso conferenze, studi, missive in cui mittente e destinatario scoprono – non senza difficoltà – di parlare una lingua che li supera entrambi, conducendoli altrove rispetto a progetti e attese: si tratti di Roland Barthes o di Lévinas, di psicoanalisi o di metafora, di impossibile definizione di «decostruzione» o di Platone, Derrida «prende la parola» nel senso letterale dell'espressione (vale a dire arrischiando la responsabilità verso l'altro a cui si parla) e lascia che essa parli al di là di intenzioni o desideri. I saggi qui riuniti sono dunque molto più che una semplice raccolta: in essi – scrive Derrida – si viene tratteggiando una «teoria discontinua» in cui i testi si richiamano e si corrispondono a partire dai «nomi propri» che ne innervano il procedere.

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Information

PSYCHÉ INVENZIONE DELL’ALTRO1

Che cosa posso inventare ancora?
Ecco, forse, un incipit inventivo per un conferenza.
Provate a immaginare un oratore che abbia il coraggio di presentarsi così davanti ai suoi ospiti, dando l’idea di non sapere che cosa dirà. Dichiara con insolenza che si appresta a improvvisare. Gli toccherà inventare sul momento, e per di più si chiede: che diamine mi tocca inventare? Ma simultaneamente sembra sottintendere, non senza tracotanza, che il discorso improvvisato resterà imprevedibile, cioè come d’abitudine, «ancora» nuovo, originale, singolare, in una parola, inventivo. In effetti un simile oratore romperebbe con le regole, il consenso, la cortesia, la retorica della modestia, in breve con tutte le convenzioni della socialità, per il fatto, almeno, di aver inventato qualcosa fin dalla prima frase della sua introduzione. Un’invenzione presuppone sempre una certa illegalità, la rottura di un contratto implicito, introduce un disordine nell’ordine pacifico delle cose, va contro le buone maniere. Senza, evidentemente, la pazienza di una prefazione – è anzi essa stessa una nuova prefazione –, ecco che elude le attese.
La questione del figlio
Cicerone non avrebbe certo consigliato a suo figlio di iniziare così. Sapete infatti che per rispondere alla richiesta e al desiderio del figlio Cicerone definì un giorno, una volta tra le altre, la retorica dell’invenzione oratoria2.
Un riferimento a Cicerone è qui d’obbligo. Per parlare dell’invenzione, occorre sempre richiamare una certa latinità della parola. Ne portano il marchio la costruzione del concetto e la storia della problematica. La prima domanda del figlio di Cicerone verte del resto sulla lingua – e sulla traduzione dal greco al latino: «Studeo, mi pater, Latine ex te audire ea quoque mihi tu de ratione dicendi Graece tradisti, si modo tibi est otium et si vis» («Vorrei proprio, padre mio, che mi esprimessi in latino quei precetti sull’arte del dire che mi hai già dato [dispensato, riportato, consegnato o tradotto, lasciato in legato] in greco; purché ne abbia il tempo e la voglia»).
Cicerone padre risponde a suo figlio. Gli dice anzitutto, come in un’eco o in una replica narcisistica, che il suo primo desiderio è che suo figlio sia il più istruito possibile (doctissimum). Con la sua ardente richiesta, il figlio ha prevenuto la richiesta paterna. Il suo desiderio brucia del desiderio del padre che ne è subito contento e pronto, accontentandolo, a riappropriarselo. Poi il padre insegna al figlio che la forza propria, la vis dell’oratore, consiste tanto nelle cose di cui tratta (le idee, gli oggetti, i temi) quanto nelle parole; bisogna perciò distinguere l’invenzione e la disposizione, l’invenzione che trova o scopre le cose, e la disposizione che le situa, le localizza, le pone disponendole: «et res, et verba invenienda sunt, et collocanda». Nondimeno l’invenzione si applica «propriamente» alle idee, alle cose di cui si parla, e non alla elocuzione o alle forme verbali. Quanto alla disposizione, che situa sia parole che cose, sia la forma che il contenuto, spesso, precisa quindi Cicerone padre, viene collegata all’invenzione. La sistemazione, l’ordine dei luoghi riguarda le parole come le cose. Avremmo quindi, da una parte, la coppia «invenzione-disposizione» per le idee o le cose, e, dall’altra, la coppia «elocuzione-disposizione» per le parole o per la forma.
Ecco bello e costituito uno dei topoi filosofici tra i più tradizionali. Quello richiamato da Paul de Man nel bellissimo testo intitolato Pascal’s Allegory of Persuasion3. Vorrei dedicare la presente conferenza alla memoria di Paul de Man. Consentitemi di farlo con molta semplicità, nuovamente mutuando da lui, tra tutte le cose che da lui abbiamo ricevuto, qualche tratto di quella serena discrezione che contrassegnava la forza e il fascino del suo pensiero. E ci tenevo a farlo a Cornell perché qui egli ha insegnato e qui, tra i suoi ex colleghi o studenti, annovera molti amici. L’anno scorso, in occasione di un’analoga conferenza4, e poco tempo dopo il suo ultimo passaggio tra di voi, ricordavo che egli dirigeva nel 1967 il primo programma della vostra Università a Parigi. Fu allora che imparai a conoscerlo, a leggerlo, ad ascoltarlo, e che incominciò tra noi, tanto gli debbo, un’amicizia la cui fedeltà fu senza ombre e che resterà, nella mia vita, in me, un tratto di luce dei più rari.
In Pascal’s Allegory of Persuasion, Paul de Man persegue dunque la sua incessante meditazione sul tema dell’allegoria. Ed è anche dell’invenzione come allegoria, altro nome per l’invenzione dell’altro, che oggi vorrei, più o meno direttamente, parlare. È l’invenzione dell’altro, una allegoria, un mito, una favola? Dopo aver sottolineato che l’allegoria è «sequenziale e narrativa», benché la «topica» della sua narrazione non sia necessariamente «temporale», Paul de Man insiste sui paradossi di quel che si potrebbe chiamare il compito o l’esigenza dell’allegoria. Quest’ultima porta in sé delle «verità esigenti». Ha il compito di «articolare un ordine epistemologico della verità e dell’inganno con un ordine narrativo e compositivo della persuasione». Nell’ambito di questo stesso discorso, ecco che viene a imbattersi nella distinzione classica della retorica come invenzione e della retorica come disposizione: «un gran numero di questi testi sul rapporto tra verità e persuasione appartiene al corpus canonico della filosofia e della retorica, spesso cristallizzati attorno a topoi filosofici tradizionali quali la relazione tra giudizi analitici e sintetici, logica preposizionale e logica modale, logica e matematica, logica e retorica, retorica come inventio e retorica come dispositio, ecc.».
Se qui ne avessimo il tempo, ci saremmo chiesti perché e come, nel diritto positivo che si istituisce tra il XVII e il XIX secolo, il diritto d’autore o quello di un inventore nel campo delle arti e delle lettere si limita a tener conto della forma e della composizione. Tale diritto esclude qualsiasi considerazione delle «cose», del contenuto, dei temi o del senso. Tutti i testi di diritto lo sottolineano, spesso a costo di difficoltà e di confusioni: l’invenzione non può marcare la propria originalità se non nei valori di forma e di composizione. Quanto alle «idee», queste appartengono a tutti. Universali per essenza, non potrebbero dar luogo a un diritto di proprietà. Abbiamo qui un tradimento, una cattiva traduzione o uno spostamento dell’eredità ciceroniana? Lasciamo in sospeso la questione. Per cominciare farei solo un elogio di Cicerone padre. Non avesse mai inventato altro, debbo riconoscere una grande vis, forza inventiva, a chi apre un discorso sul discorso, un trattato dell’arte oratoria e uno scritto sull’invenzione, con quella che chiamerei la questione del figlio in quanto questione de ratione dicendi che risulta essere anche una scena di traditio in quanto tradizione, transfert e traduzione – si potrebbe dire anche: una allegoria della metafora. La prole (l’enfant) che parla, che interroga, che chiede con zelo (studium), è il frutto di un’invenzione? Si inventa una prole (enfant)? Se la prole s’inventa, è come la proiezione speculare del narcisismo genitoriale oppure è come l’altro che, nel parlare, nel rispondere, diventa l’invenzione assoluta, la trascendenza irriducibile del più prossimo, tanto più eterogenea e inventiva in quanto pare rispondere al desiderio genitoriale? La verità del figlio, quindi, si inventerebbe in un senso che non sarebbe quello dello svelamento né quello della scoperta, né quello della creazione, né quello della produzione. Si troverebbe là dove la verità si pensa al di là di ogni eredità. Il concetto di questa stessa verità resterebbe senza eredità possibile. È possibile? La questione rispunterà più avanti. Riguarda anzitutto il figlio, prole (enfant) legittima e portatrice del nome?
Che posso inventare ancora?
Da un discorso sull’invenzione ci si aspetta certamente che risponda alla sua promessa o che onori un contratto: dovrà trattare dell’invenzione. Ma si spera anche, la lettera del contratto lo implica, che esso proponga qualcosa di inedito, nelle parole e nelle cose, nell’enunciato o nell’enunciazione, a proposito dell’invenzione. Per poco che sia, per non deludere, dovrà inventare. Da esso ci si aspetta che dica l’inatteso. Nessuna prefazione l’annuncia, nessun orizzonte d’attesa ne pre-faziona la ricezione.
Per quanto equivoca sia la parola, o il concetto, di invenzione, state capendo già qualcosa di ciò che vorrei dire.
Questo discorso deve dunque presentarsi come un’invenzione. Senza pretendere di essere inventivo da cima a fondo e senza soluzione di continuità, deve sfruttare un fondo largamente condiviso di risorse e di possibilità regolate per firmare, in qualche modo, una proposizione inventiva, almeno una, e non potrà interessare il desiderio dell’uditorio se non nella misura di questa innovazione firmata. Ma, ecco dove cominciano la drammatizzazione e l’allegoria, avrà anche bisogno della firma dell’altro, della sua controfirma, diciamo qui, quella di un figlio che non sia più l’invenzione del padre. Un figlio dovrà riconoscere l’invenzione come tale, come se l’erede restasse unico giudice (tenete a mente la parola giudizio), come se la controfirma del figlio avesse titolo di autorità legittimante.
Ma presentando un’invenzione e presentandosi come un’invenzione, il discorso di cui sto parlando dovrà fare valutare, riconoscere e legittimare la propria invenzione da un altro che non sia della famiglia. Dall’altro come membro di una comunità sociale e di una istituzione. Ché una invenzione non può mai essere privata dato che il suo statuto d’invenzione, diciamo il suo brevetto la sua patente – la sua identificazione manifesta, aperta, pubblica – deve essergli notificata e conferita. Traduciamo: parlando dell’invenzione, questo vecchio soggetto avito che oggi si tratterebbe di reinventare, un simile discorso dovrebbe vedersi accordare un brevetto d’invenzione. Ciò suppone contratto, promessa, impegno, istituzione, diritto, legalità, legittimazione. Non c’è invenzione naturale, e tuttavia l’invenzione suppone anche originalità, originarietà, generazione, procreazione, genealogia, valori che si associano spesso alla genialità, e quindi alla naturalità. Di qui la questione del figlio, della firma e del nome.
Già vediamo annunciarsi la singolarità di struttura di un simile evento. Chi la vede annunciarsi? Il padre, il figlio? Chi si trova escluso da questa scena dell’invenzione? Quale altro dell’invenzione? Il padre, il figlio, la figlia, la moglie, il fratello o la sorella? Se l’invenzione non è mai privata, qual è ancora il suo rapporto con tutte le scene di famiglia?
Struttura singolare, perciò, di un evento, dato che l’atto di parola di cui parlo deve essere un evento: nella misura in cui è singolare, per un verso, e, per l’altro, in quanto tale unicità farà venire o avvenire qualcosa di nuovo. Dovrà fare o lasciar venire il nuovo di una prima volta. Il «nuovo», l’«evento», il «venire», la «singolarità», la «prima volta» (first time dove il tempo è marcato in una lingua senza esserlo in un’altra) sono tutte parole che portano l’intero peso dell’enigma. Mai un’invenzione ha luogo, mai si dispone senza qualche evento inaugurale. Né senza qualche avvento, se con quest’ultima parola si intende l’instaurazione per l’avvenire di una possibilità o di un potere che resterà a disposizione di tutti. Avvento, per il fatto che l’evento di una invenzione, il suo atto di produzione inaugurale deve, una volta riconosciuto, una volta legittimato, controfirmato da un consenso sociale, secondo un sistema di convenzioni, valere per l’avvenire. Non riceverà il suo statuto d’invenzione, del resto, se non nella misura in cui questa socializzazione della cosa inventata sarà garantita da un sistema di convenzioni che le assicurerà nello stesso tempo l’iscrizione in una storia comune, l’appartenenza a una cultura: eredità, patrimonio, tradizione pedagogica, disciplina e catena di generazioni. L’invenzione comincia a poter esser ripetuta, sfruttata, reinscritta.
Attenendoci a questa griglia che non è soltanto lessicale e che non si riduce ai giochi di una semplice invenzione verbale, abbiamo visto concorrere più modi del venire o della venuta, nella enigmatica collusione dell’invenire o dell’inventio, dell’evento e dell’avvento, dell’avvenire, dell’avventura e della convenzione. Come tradurlo fuori delle lingue latine; un tale sciame lessicale, conservandone l’unità, quella che lega la prima volta dell’invenzione al venire, alla venuta dell’avvenire, dell’evento, dell’avvento, della convenzione o dell’avventura? Tutte queste parole di origine latina sono senz’altro accolte per esempio in inglese (e anzi nel suo uso giudiziario molto codificato, molto ristretto, quello di «venue», e anche quello di «advent» riservato alla venuta di Cristo), non però, al centro della famiglia, il venire stesso. Certamente un’invenzione equivale, dice L’Oxford English Dictionary, a «the action of coming upon or findings». Anche se questa collusione verbale sembra avventurosa e convenzionale, essa dà da pensare. Che cosa dà da pensare? Che altro? Chi altro? Che cosa bisogna ancora inventare quanto al venire? Che cosa vuol dire, venire? Venire una prima volta? Ogni invenzione suppone che qualcosa o qualcuno venga una prima volta, qualcosa a qualcuno, o qualcuno a qualcuno, e che sia altro. Ma perché l’invenzione sia un’...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Premessa
  6. PSYCHÉ INVENZIONE DELL’ALTRO
  7. IL RITRARSI DELLA METAFORA
  8. QUEL CHE RESTA A FORZA DI MUSICA
  9. ILLUSTRARE, LUI DICE…
  10. INVIO
  11. IO [MOI] – LA PSICOANALISI
  12. IN QUESTO MEDESIMO MOMENTO IN QUEST’OPERA ECCOMI
  13. DES TOURS DE BABEL
  14. TELEPATIA
  15. EX ABRUPTO
  16. LE MORTI DI ROLAND BARTHES
  17. UN’IDEA DI FLAUBERT: «LA LETTERA DI PLATONE»
  18. GEOPSICOANALISI «AND THE REST OF THE WORLD»
  19. MES CHANCES APPUNTAMENTO CON ALCUNE STEREOFONIE EPICUREE
  20. L’ULTIMA PAROLA DEL RAZZISMO
  21. NO APOCALYPSE, NOT NOW A TUTTA VELOCITÀ, SETTE MISSILI, SETTE MISSIVE