7.1. Dante contro Tommaso. La crisi del Medioevo in Gilson
Ne Les métamorphoses de la cité de Dieu, Gilson rifiutava di enfatizzare in senso mistico-religioso, nello scontro che divideva Est ed Ovest, l’idea di Occidente. La Città di Dio, l’unità tra gli uomini resa possibile dalla grazia, non è soggetta a metamorfosi: questa era la tesi di fondo del saggio del ’52. L’Occidente non è, hegelianamente, la terra dello “Spirito”. Ciò non toglie nulla alle sue ricchezze culturali e di civiltà. La società universale è, però, un’altra cosa. Essa è il portato del messaggio cristiano, di una Chiesa che dilata la presenza di Cristo in tutto il mondo. Ciò significa che la società umana può aspirare a tale universalità solo nella misura in cui accoglie la provocazione cristiana; non può aspirare al fine senza condividerne i mezzi. Gli ideali universalistici del dopo ’45 s’incrociavano così, nella mente di Gilson, con l’ideale dell’ordre catholique1. Con ciò mostrava di condividere le speranze di coloro che dopo la tragedia del conflitto, vedevano nella Chiesa il punto di rinnovamento dell’umanità. Il quadro, tuttavia, era complicato, nell’ottica gilsoniana, da una certa approssimazione che rifuggiva dal precisare criticamente i rapporti tra spirituale e temporale, Chiesa, Stato e società. Ne è riprova la modalità con cui Gilson rifiuta di distinguere tra potere diretto e potere indiretto della Chiesa.
Per mutuarne l’unità, ogni società che si rifà alla Chiesa deve accettarne la giurisdizione religiosa e, a maggior ragione, morale, ossia estesa a tutto l’ordine temporale nella misura in cui si pongono problemi di moralità. Che non sono i soli che si pongono, ma che si pongono ovunque: a proposito dell’ordine politico e sociale, la cui tranquillità si chiama pace; a proposito della guerra, che può essere giusta o ingiusta, ma che in nessun caso sfugge alle regole del diritto o della morale; a proposito dei governi e dei loro sudditi, nessuno dei quali è al di sopra delle leggi di Dio e dei doveri imposti da queste leggi. Si chiami essa diretta o indiretta, poco importa, purché questa giurisdizione sia riconosciuta negli stessi termini e nello spirito in cui la definisce san Tommaso d’Aquino: in materia spirituale conviene obbedire al papa; in materia temporale è meglio obbedire al principe, ma meglio ancora al papa che occupa il vertice dei due ordini2.
L’asserzione finale, tratta da san Tommaso, è accolta senza essere problematizzata. In forma esplicita Gilson rifiuta, per la Chiesa, la formula di potestas indirecta: «la distinzione degli ambiti non è mantenuta dal fatto che la giurisdizione della Chiesa sia indiretta, ma perché essa si rivolge direttamente al temporale in vista di un fine che temporale non è»3. L’azione della Chiesa non è «soltanto indiretta, essa è assolutamente diretta e immediata»; ha «autorità religiosa diretta sulla politica» anche se è «di un altro ordine» rispetto a quello secolare4. Per questo «anche se Cesare è il popolo, il papa ha un diritto di governo diretto su di lui; ma non lo governa come un Cesare»5.
La distinzione, sulle modalità di esercizio del potere, è certo importante. Non sufficiente però a chiarire l’effettiva distinzione degli ambiti conservata nella distinzione agostiniana delle duo civitates e diluita, invece, nell’ottica dell’unica società “cristiana”. È significativo, da questo punto di vista, il disaccordo che separa Gilson da quei commentatori tomisti, come Martin Grabmann e Charles Journet, per i quali «san Tommaso ha, se non professato, almeno preparato la dottrina della subordinazione “indiretta” del potere temporale allo spirituale»6. Questa espressione – “potere indiretto” – è giustificata «in quanto esprime il fatto rilevante che il papa anche nel temporale, resta un sovrano spirituale»7. Essa presenta, tuttavia, «l’inconveniente di far credere che il potere temporale dei papi sui principi, dal momento che è d’essenza spirituale, sia solo un potere di consiglio e di correzione, senza un effetto diretto sull’autorità temporale del principe in quanto tale»8. Questa non è, secondo Gilson, la concezione di san Tommaso.
Ogni affermazione della autonomia del temporale in san Tommaso conferma dunque la supremazia del papa, precisamente perché, successore e vicario di Cristo, il papa sta al vertice dei due poteri, del temporale come dello spirituale. La distinzione tra “potere diretto” e “potere indiretto” è teoricamente importante; ma in pratica il fatto di essere deposto dal papa resta uguale per il principe: direttamente o indirettamente deposto, egli è nondimeno deposto9.
La precisazione, per quanto riguarda san Tommaso, è corretta. Il problema, semmai, riguarda il punto di vista di Gilson. La sua convergenza con la visione tomista classica gli impedisce, infatti, di confrontarsi con il problema che sta al centro di Humanisme intégral del suo amico Jacques Maritain: quello dell’idea di cristianità in seno alla forma statuale contemporanea, liberale, democratica, pluralista. Certo Gilson sa bene che «la grazia non sopprime la natura; la rivelazione non sopprime la ragione; la Chiesa non sopprime lo Stato; il papa non spodesta Cesare»10. L’ultima affermazione segna la differenza tra Medioevo e modernità. «Si può, volendo, chiudere gli occhi per non vedere la realtà, ma è impossibile continuare a ragionare come se la Chiesa dovesse ancora governare come nel sec. XIII»11. Gilson, quindi, al pari di Maritain, riconosce la differenza profonda che incorre tra il modello medievale dei rapporti tra Chiesa e potere secolare e quello moderno. Così come riconosce gli abusi e l’«intolleranza propriamente civica e sociale, nell’epoca in cui la Città di Dio avrà, per così dire, assorbito gli Stati»12. Il problema è che in lui, diversamente da Maritain, questi rilievi non divengono un problema teorico, non pongono luogo a una relativizzazione storica del modello medievale. Al contrario «personalmente non pensiamo che i dati medievali del problema siano definitivamente superati. È possibile che un giorno si ripropongano»13. In tal modo Gilson non scioglie il nodo che sta dietro alla teoria del potere, diretto o indiretto che sia, della Chiesa sul temporale. Se con essa si intenda il “primato dello spirituale” e il diritto che ha la Chiesa di intervenire nelle cose temporali per tutelare l’imago Dei dell’uomo, o se questo primato spirituale implichi anche un potere di giurisdizione. Gilson non esclude questa seconda possibilità e ciò spiega, nel disegno de Le metamorfosi della città di Dio, la sua preferenza per la respublica christiana di Ruggero Bacone, rispetto al modello agostiniano delle due città così come a quello dantesco dei due poteri.
Se della differenza tra Bacone edAgostino si è detto, resta da chiarire il giudizio su Dante, un giudizio critico che rimane invariato nel passaggio dal testo del 1939, Dante et la Philosophie, al capitolo dantesco contenuto ne Le metamorfosi. La filosofia del De Monarchia è la prima «giustificazione teorica di un impero universale» che porta «a ergere per la prima volta, di fronte all’ideale cristiano di una Chiesa universale, l’ideale umano di un ordine temporale universale unico in cui l’imperatore doveva svolgere il ruolo ricoperto dal Papa nella Chiesa»14. Si tratta, secondo Gilson, di una novità assoluta.
L’idea di questa società temporale universale così nuova per la sua epoca e di cui egli sembra essere stato il primo fautore, si è formata nello spirito di Dante in modo estremamente curioso. La sola società universale di cui si aveva allora idea era una società essenzialmente soprannaturale e religiosa: la Chiesa o, se si vuole, la Cristianità. Non solo la Chiesa non aveva mai pensato che vi dovesse o potesse essere una umanità unificata per il perseguimento della felicità universale considerata come suo fine proprio, ma aveva difeso, a partire dalla Città di Dio di Agostino l’ideale di una unificazione di tutti gli uomini in forza dell’accettazione comune della fede cristiana e sotto il governo supremo del papa. Per concepire la possibilità di una società temporale universale bisognava dunque prendere dalla Chiesa l’ideale di una cristianità universale e laicizzarlo. D’altra parte, era impossibile laicizzare questo ideale senza porre la filosofia come fondamento della società universale di tutti gli uomini15.
Questa filosofia era quella di Aristotele. Essa consentiva di fissare, accanto al fine soprannaturale anche un fine naturale subordinato, tomisticamente, al primo, ma anche realmente autonomo rispetto ad esso. Nell’ambito della città terrena l’imperatore viene così a esercitare un potere effettivo, non più sottoposto alla giurisdizione papale. Realizzando il fine naturale della creazione egli dà forma a una società universale parallela a quella ecclesiale. «Pur riferendosi alla Roma di Augusto, la monarchia universale di Dante è un calco temporale di quella società universale che è la Chiesa. Il suo imperatore, la cui autorità si esercita secondo la verità della filosofia, è il corrispondente esatto del papa»16. Questa visione presuppone due postulati che, secondo Gilson, non reggono. Il primo è dato dalla pretesa della filosofia (aristotelica) di realizzare una società universale. La filosofia può presumere tanto solo perché presuppone, di fatto, un terreno comune già realizzato dalla fede.
Con l’ingratitudine verso la fede che così spesso dimostrano gli uomini la filosofia di Dante si appoggiava su ciò che essa doveva alla rivelazione cristiana per giustificare la propria intenzione di farne a meno in futuro. Il risultato è oggi sotto i nostri occhi17.
Gilson rilegge la filosofia del De Monarchia come l’inizio della secolarizzazione moderna.
Il secondo postulato che non regge deriva dal modo dantesco di intendere la subordinazione del temporale allo spirituale. «San Tommaso aveva detto e ripetuto che il fine dell’uomo è duplice (finis duplex); Dante dice e ripete che l’uomo ha due fini (fines duo). Non è la stessa cosa, ma è appunto ciò che gli consente, mentre subordina direttamente la Chiesa a Dio attrav...