Il momento Malebranche
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Il momento Malebranche

Lettere 1920-1936

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Il momento Malebranche

Lettere 1920-1936

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Quella qui presentata per la prima volta in traduzione italiana è l'edizione commentata della straordinaria corrispondenza (1920-1936) intrattenuta da Étienne Gilson (1884-1978) col suo discepolo Henri Gouhier (1898-1994), con un saggio (1904-1907) del giovane Gilson, studente alla Sorbona, su Malebranche e la Scolastica, corredato dalle osservazioni di Victor Delbos (1862-1916), suo professore.Malebranche è il filo conduttore di quest'opera, che documenta la genesi di due avvenimenti cruciali della storiografia filosofica novecentesca: il riconoscimento di una vera cittadinanza accademica a Malebranche in storia della filosofia, che si deve alla tesi dottorale sull'oratoriano che Gilson suggerì al suo discepolo; le ricerche sui rapporti fra Scolastica e filosofia moderna, cui un impulso decisivo fu dato, come noto, dall'Index scolastico-cartésien, pubblicato da Gilson nel 1913, ma la cui intuizione di fondo Il Momento Malebranche ravvisa già nel saggio giovanile su Malebranche.Questa edizione italiana vede la luce in un frangente di rinnovato interesse, in ambito internazionale, nei confronti dell'opera di Gilson: nel 2019, è apparso presso Vrin il primo volume delle OEuvres complètes, cui fa seguito il Nouvel Index scolastico-cartésien di Igor Agostini.

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Information

Appendice 1

UN SAGGIO DI GILSON STUDENTE SU MALEBRANCHE

Lavoro svolto con intelligenza e precisione. I testi più importanti sono conosciuti e analizzati in modo chiaro.
Soltanto un po’ ridondante qui e là.
Mi sembrano un po’ sopravvalutati il ruolo giocato da Malebranche e la critica di alcuni temi con lo scopo di dar conto della vivacità della sua polemica contro la Scolastica.
Un errore piuttosto singolare sui rapporti di perfezione.

LA POLEMICA DI MALEBRANCHE CONTRO ARISTOTELE E LA FILOSOFIA SCOLASTICA

Soddisfacente nell’insieme.
Étienne Gilson
Correzione di V. Delbos1
[1] È banale affermare che, nella fondazione di ogni filosofia, vi sono due parti di cui ciascuna ha la sua funzione: una ‘pars destruens’, cui spetta sgombrare il terreno e fare spazio alla nuova dottrina, una ‘pars costruens’, deputata a innalzare un nuovo edificio al posto di quello vecchio2. E, sebbene queste due parti siano strettamente legate l’una all’altra, si comprende che è il fondatore della nuova filosofia a dover combattere contro i vecchi pregiudizi con il più grande ardore, mentre i suoi successori non avranno che da seguire la strada già tracciata. Ma il cartesianismo ci offre un esempio molto interessante del contrario: da un lato, Descartes, che doveva – sembra – incontrare le resistenze feroci o del principio di autorità o dei metodi o delle teorie precedenti, e che si accontenta di criticarle sommariamente e si affretta a costruire il suo edificio; dall’altro, Malebranche, che, al contrario, pur elaborando una dottrina originale, la fondava su basi simili a quelle di Descartes, e che, non pago di riprendere le critiche che il suo Maestro aveva indirizzato all’aristotelismo, le esaspera, in modo singolare, e finisce per farne quasi una parte integrante del suo sistema. Una ragione di questo accanimento nei critici dell’aristotelismo è senz’altro da imputare al fatto che Malebranche, più di Descartes, aveva a che fare direttamente con i peripatetici. In che cosa sia consistita questa polemica di Malebranche contro Aristotele e gli scolastici e perché, contro ogni superficiale previsione, abbia preso una tale direzione, è ciò che cercheremo di mostrare in questo lavoro.
[2] Per Malebranche, la prima superstizione da cui ci si deve liberare è quella del principio di autorità. Sentiamo ripetere sempre: «Questo è vero perché lo hanno detto gli antichi». Ma credere che il libro che scriviamo sia il codice eterno della verità è altrettanto assurdo che credere che gli autori antichi siano dei Maestri infallibili e non dei semplici Maestri. Come si può pensare che, duemila anni dopo, non si possa scoprire qualche errore in Aristotele? Aristotele avrebbe dunque scoperto in un colpo solo tutta la verità? Ma si guardino, piuttosto, le lotte e le dispute senza fine sulla sua dottrina e ci si convincerà che la verità, che è essenzialmente ‘un indivisibile’, non può esservi contenuta.
[3] D’altronde, fare filosofia è davvero accettare, senza verificarle, le idee degli altri, siano essi antichi o meno? La filosofia non è forse, prima di tutto, l’opera della ragione che, essendo la facoltà maestra dell’uomo, è la sola che può far raggiungere la ricerca della verità? Di conseguenza, che sia istruttivo leggere gli antichi per discuterne le opinioni è incontestabile, ma altrettanto incontestabile è il fatto che immagazzinare nella memoria delle formule preconfezionate e tramandarle tali e quali significhi solo perdere tempo e farlo perdere agli altri. Se lo si facesse, Malebranche sarebbe poco d’accordo, credo. Possiamo dunque dire che, anche se gli antichi avessero posto e risolto tutti i problemi, si avrebbe comunque torto ad ammettere i loro argomenti senza discussione e per autorità, poiché una filosofia che consiste nello stipare nel proprio cervello le opinioni altrui è ben poca cosa.
[4] Numerose, peraltro, sono le ragioni che spiegano la cecità dei difensori del principio di autorità. La pigrizia di uno spirito che si rifiuta di meditare, l’odio per le verità astratte, la vanità, soprattutto, che fa in modo che si studi meno per apprendere che per costruirsi la reputazione di sapienti e di uomini dalle grandi letture. Ed è tutto questo che ha fatto della filosofia della Scuola una scienza della memoria, più che della ragione, una scienza nella quale ‘pensare’ consiste nel raccontare i pensieri di un altro. Occorre aggiungere a queste ragioni quel «misto di rispetto e di stolta curiosità che ci fa ammirare di più le cose da noi più lontane, le più vecchie, quelle che vengono o da paesi più remoti o meno conosciuti», le più antiche e oscure. «Si va in cerca delle medaglie antiche, anche se corrose dalla ruggine, e si conservano con gran cura il lume e la pantofola di qualche antico, anche se son mangiati dai vermi; la loro antichità costituisce un valore» (Recherche, O.c., I, 282, tr. it., pp. 197-198)3. Ma allora! Cosa è dunque l’antichità se noi non fossimo qui con lo stesso diritto di Platone, Aristotele ed Epicuro, visto che Aristotele, Platone ed Epicuro erano degli uomini come noi, della stessa nostra specie e, anzi, che «ai tempi in cui viviamo, il mondo ha duemila anni di più, ha più esperienza, deve saperne di più; a farci scoprire la verità, sono la vecchiaia del mondo, l’esperienza del mondo» (Recherche, O.c., I, 282, tr. it., p. 198, modificata).
Esposizione chiara ed interessante.
[5] Una volta sbarazzatici del principio d’autorità, possiamo guardare Aristotele in faccia e giudicarlo, lui e i suoi successori, con la giusta libertà d’animo. Ora, ciò che anzitutto colpisce, quando si percorrono i loro scritti, è la mancanza d’ordine nella disposizione delle idee, la quasi assoluta mancanza di metodo. Mai, per esempio, Aristotele si è domandato se vi fosse un ordine progressivo da seguire nello studio dei problemi e se non occorresse forse cominciare dai più semplici per giungere ai più complessi. Oggi, sappiamo in quale modo dobbiamo cercare la verità; Viète4 e Descartes, che hanno rinnovato l’algebra e l’analisi, ci hanno insegnato come condurre i pensieri con ordine. Non si possono comprendere le teorie delle sezioni coniche prima di aver studiato la geometria ordinaria; e si tratta di lezioni di cui Aristotele avrebbe avuto bisogno. Infatti, senza dubitare neanche per un momento che la mente umana sia o meno capace di risolvere immediatamente i problemi più difficili, prima di sapere alcunché sulla natura della materia o sulla composizione dei corpi, egli cerca la ragione per cui i capelli degli anziani diventano bianchi e perché, in alcuni cavalli, gli occhi sono di due colori diversi. Non c’è da meravigliarsi del fatto che un tale ordine nella ricerca lo porti a scrivere che la ragione per cui i capelli dei vecchi diventano bianchi e alcuni cavalli hanno gli occhi di colore differente è la stessa. Non è difficile vedere il valore di una scienza di questo tipo.
[6] Cercando la ragione ultima di un così deplorevole modo di procedere, è facile vedere che essa consiste nell’ignoranza di un termine che è, insieme, l’obiettivo da conseguire e il mezzo da impiegare: l’idea chiara e distinta. Nessuno ignora, oggi, il fatto che non esista verità che in ciò che concepiamo chiaramente e distintamente. Aristotele, al contrario, parte da ciò che vi è di più confuso nelle conoscenze derivanti dalla sensazione. I dati ingannatori e imprecisiecco una parola che M. non impiegava mai – dei nostri sensi sono per lui il migliore dei punti di partenza e, poiché ad essi si aggiunge ‘l’idea generale dell’essere’, egli ricade incessantemente nella ridicola astrazione delle facoltà. In effetti, la «presenza chiara, intima, necessaria di Dio; voglio dire dell’essere senza restrizione particolare, dell’essere infinito, dell’essere in generale, allo spirito dell’uomo, agisce su di lui più fortemente che la presenza di tutti gli oggetti finiti» (Recherche, O.c., vol. I, p. 456, tr. it., p. 327). Ma questa idea dell’essere, così grande e vasta, ci è precisamente divenuta familiare per abitudine, ci tocca così poco che «crediamo quasi di non vederla»; poco a poco, perdiamo di vista la sua origine e ce la rappresentiamo come formata dall’unione confusa di esseri particolari, quando, invece, questi esseri particolari non ci appaiano che in essa. Cosa ne segue? Non appena i filosofi percepiscono nell’universo un effetto nuovo, dal momento che hanno l’animo occupato da questa idea generale e astratta dell’essere, la applicano immediatamente a questo nuovo effetto: «subito immaginano un’entità nuova che lo produca. Il fuoco riscalda; nel fuoco c’è dunque una qualche entità che produce tale effetto, ed essa è diversa dalla materia di cui il fuoco si compone» (Recherche, O.c., vol. I, p. 458, tr. it., p. 329). Nascono qui quelle innumerevoli astrazioni che così tanto ritardano il progresso della fisica: gli atti, le potenze, le cause, gli effetti, le forme sostanziali, le qualità occulte, ecc. Se si esaminano accuratamente le definizioni di questi termini, non vi troveremo altro se non qualche dato confuso dei sensi più l’idea astratta e generale dell’essere. Che cosa sarà dunque una fisica che, al posto di idee chiare e distinte, prenderà tali astrazioni come punto di partenza? Essa sarà, in realtà, una logica. B [una linea sottolinea il testo, dall’ultimo referimento fino alla fine di questa frase]. E, in effetti, i filosofi ordinari vogliono in tutti i modi che la fisica di Aristotele spieghi il fondo delle cose, ma non vedono che essi pretendono di spiegare «la natura con le loro idee generali e astratte, come se la natura fosse astratta» (Recherche, O.c., vol. I, p. 459, tr. it., p. 330).
[7] Da questa ignoranza dell’ordine logico delle dimostrazioni e da questo disprezzo delle idee chiare può risultare solo un informe guazzabuglio. Ed infatti è questa la qualifica che conviene alla scienza scolastica, che non è altro che la sua logica. Non troppo chiaro. La logica della Scolastica non doveva essere altro, in origine, che un mezzo per raggiungere la verità, ma, per uno strano rovesciamento di termini, si è ben presto ritrovata a essere un fine; e si potrebbe ritenere che la logica debba essere studiata per se stessa. Per costruire questa scienza bizzarra, non si è esitato ad accumulare regole e precetti di ogni genere e, alla fine, per ragionare in modo giusto secondo queste regole, si è obbligati a prestare tanta attenzione ai procedimenti cosicché diventa impossibile pensare nello stesso tempo agli oggetti che si studiano. Al contrario, il vero metodo non è che una guida discreta; consiste in un piccolo numero di regole molto intelligibili e strettamente dipendenti le une dalle altre. Non è dunque fatto per coloro che amano solo i misteri B [una linea sottolinea le sei linee precedenti] e le invenzioni bizzarre e straordinarie; richiede solo gusto per la chiarezza e l’attenzione necessaria «per conservare sempre l’evidenza nelle percezioni dell’anima e per scoprire le più riposte verità» (Recherche, O.c., vol. II, p. 296, tr. it., p. 580).
[8] Il risultato più chiaro del metodo impiegato dai filosofi scolastici è quello di giungere in fisica a un mucchio di assurdità e, attraverso la fisica, ai peggiori errori morali e religiosi. Ci si è potuti già rendere conto, in base a ciò che precede, di ciò che poteva essere la fisica di Aristotele: una fila di combinazioni bizzarre, effettuate attraverso definizioni puramente astratte delle cose. Le apparenze, in effetti, sembrano insegnarci che, ...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione all’edizione italiana, di Igor Agostini
  6. Introduzione, di Richard J. Fafara
  7. Lettere fra Étienne Gilson e Henri Gouhier
  8. Appendice 1: Un saggio di Gilson studente su Malebranche
  9. Appendice 2: Un ritratto di Gilson
  10. I testi francesi (Lettere, Appendice 1 e Appendice 2)
  11. Bibliografia
  12. Indice dei nomi
  13. Gli Autori
  14. I Curatori
  15. Dal catalogo