A GIUSTA DISTANZA
KANT E IL PROBLEMA
DEL “PUNTO DI VISTA” COSMOPOLITICO
Matteo Amori
«La morale conduce alla filosofia della storia, la filosofia della storia all’antropologia filosofica», così Eric Weil sintetizzava, in un suo celebre testo degli anni ’60, la posizione della filosofia della storia nel contesto dell’ultima produzione critica di Kant1. Si può certamente vedere nella breve e icastica affermazione di Weil la riproposizione dell’effettivo e ben riconoscibile corso dell’opera kantiana, dalla seconda Critica all’Antropologia pragmatica, passando attraverso quegli scritti che conterrebbero la sua “filosofia della storia”. Questa assumerebbe una posizione quindi centrale e, evidentemente, di vero e proprio passaggio obbligato verso quella «conoscenza del mondo» e quell’«aver uso del mondo», formule nelle quali, nel 1798, Kant significativamente esprimeva la sintesi antropologica del proprio pensiero2.
In realtà, come è noto, tanto il valore quanto l’esistenza di una vera e propria filosofia della storia di Kant sono state oggetto di dispute3. Ciò da cui intendo tuttavia prendere le mosse in questo studio non è tanto una ricostruzione di quei tratti della filosofia kantiana dai quali sia possibile aggiungere (o togliere) qualche ingrediente a tali dispute, in una direzione o nell’altra. Il mio interesse è in primis quello di prendere sul serio un aspetto del variegato approccio kantiano a questo tema: la costante preoccupazione, implicita o esplicita, per il reperimento del punto di vista adeguato da cui sia possibile esercitare con fecondità uno sguardo sulla storia. Il breve e celebre testo con il quale il Kant critico inaugura, in un certo senso, la propria riflessione tematica sulla storia qualifica come «cosmopolitico» tale punto di vista4. La particolare ricchezza e, soprattutto, complessità, di questo termine, come meglio si vedrà più avanti, impedisce di pensare ad un contorno solo politico-“mondano” della questione. Quella complessità, tuttavia, dipende in gran parte proprio dalla molteplicità e dalla profondità dei piani su cui si costruisce l’esigenza kantiana di un punto di vista sulla storia. La stessa comprensione teleologica di essa, quella teleologia che secondo Weil, come abbiamo visto, agirebbe dal di dentro stesso dell’etica kantiana, è possibile solo avendo guadagnato un punto di osservazione. Non certo uno qualsiasi, ma neppure basta per la sua determinazione una mera aggiunta o estensione – tematica o di ambiti – dell’etica o del criticismo di questo pensatore.
Lo scopo di questo studio è dunque quello di una sintetica ricostruzione e di un tentativo di decifrazione della costituzione di questo punto di vista fin dall’inizio del periodo critico ed una valutazione di alcune questioni sollevate da Kant nella sua ultima produzione che mantengono un nesso significativo – se non addirittura costitutivo – con la questione del cosmopolitismo, riguardato, come si è detto, nel suo funzionare da punto di vista.
La necessità del possibile
La presentazione della dimensione cosmopolitica nei termini di un «punto di vista» dal quale sia possibile osservare «la grande scena del mondo» storico dell’uomo non rappresenta per Kant una mera opzione di ingresso nel tema, quanto piuttosto una intima necessità. Una necessità di metodo e quindi di contenuto, vista l’intima compenetrazione tra questi due aspetti esigita dall’approccio trascendentale. Come ben mostra l’esordio del celebre testo kantiano dedicato alla Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, il problema della storia è il problema della riconoscibilità in atto del suo «filo conduttore» teleologico e morale più che della effettiva valenza costitutiva di esso. In tal senso la filosofia della storia kantiana rappresenta, se così si può dire, il tentativo di passare all’incasso della speranza generata dall’agire conforme alla legge morale in anticipo rispetto a quella «prospettiva su un avvenire beato» che Kant considera, tanto sul piano epistemologico quanto su quello etico, una prospettiva eccedente la condizione dell’essere razionale finito, della «creatura» umana5. Il punto di vista che Kant cerca sulla storia è quindi, innanzitutto, il punto dal quale la si possa sorprendere assumere la forma (tendenzialmente) adeguata alla sua inesorabile destinazione etica.
Non si può d’altra parte dimenticare che la filosofia kantiana della storia si esercita, per gran parte, sul terreno della ricerca della risposta a quella terza domanda, insieme «pratica e teoretica», posta nel cuore della Dottrina trascendentale del metodo della Prima Critica: «che cosa mi è lecito sperare?»6. La densa riflessione con la quale il filosofo di Königsberg accompagna il chiarimento dell’“intreccio” tra gli «interessi» della ragione tratteggia i lineamenti di un «mondo morale» nel quale prende dimora l’uomo che agisce in obbedienza all’imperativo categorico. A questo Kant assegna il carattere di idealità (pratica) ma, nondimeno, di realtà oggettiva (anche qui, in senso pratico) e mistica. Tale mondo è infatti il «corpus mysticum degli esseri razionali che si trovano in esso, in quanto il libero arbitrio di tali esseri, sotto leggi morali, implica in sé un’unità sistematica completa, sia con se stesso sia con la libertà di ogni altro»7. La realtà morale di questa unità è di una necessità sui generis, perché è una necessità del possibile; se, infatti, la ragion pratica comanda che «queste azioni dovrebbero accadere, esse devono anche poter accadere»8. Ciò istituisce un altrettanto peculiare canone di intellegibilità della storia. Un canone però complesso, che da una parte si regge sulla necessità ideale della moralità, dall’altra sulla causalità efficiente di un Dio che garantisca un esito degli accadimenti conforme ai nostri «fini supremi».
Che la speranza possa avere un orizzonte terreno – e non solo oltreterreno – costituisce il principio motore della filosofia kantiana della storia. L’insistenza con la quale il filosofo riprende tale questione, anche da diverse angolazioni e in scritti diversi, sta a dimostrarlo. E che tale questione corrisponda alla fondamentale preoccupazione critica di questo pensatore – una preoccupazione cioè del tutto interna allo sviluppo organico e sistematico della sua indagine critica sulle «facoltà dell’animo» – lo dimostra la dipendenza speculativa che il tema della speranza mantiene con i paragrafi sulla “Metodologia del giudizio teleologico” posti da Kant in appendice alla Critica del Giudizio9.
Le riflessioni che inaugurano lo scritto sull’idea di storia universale, infatti, mostrano con chiarezza che l’ostacolo principale sulla strada di un possibile sguardo sintetico sulla storia, per Kant, non è quello del potere dissolvitore di ogni sintesi pratica e morale di cui sarebbe detentore il determinismo meccanicistico, quanto piuttosto l’apparenza caotica che affligge i fenomeni della libertà umana. È infatti questo «insieme, intessuto […] di idiozia, di vanità infantile, spesso anche di infantili cattiveria e smania di distruzione» a costringerci a non sapere «quale concetto farsi del nostro genere»10. È questo spettacolo di caos e malvagità messo in mostra dall’umanità storica a determinare l’impossibilità di impostare il discorso sulla storia e sulla sua direzione su un piano meramente razionale. Su tale piano, cioè, non può apparire alcun razionale «scopo proprio» dell’uomo. Il filo conduttore per un adeguato sguardo sulla storia, se c’è, dev’essere ricercato nella natura, ossia in «un determinato piano [Plane]» di essa11.
La scoperta della distanza da sé: dalla natura alla cittadinanza
La Critica del Giudizio offre, coerentemente con questa prospettiva, i necessari punti di riferimento teoretici della posizione kantiana sulla storia proprio perché essa affronta tematicamente proprio la questione del piano della natura.
La terza Critica kantiana – ed in particolare l’Appendice dedicata alla Metodologia del giudizio teleologico –, come è noto, mette in azione la considerazione teleologica della natura secondo una articolata e dinamica complessità. Il punto di appoggio di tale trama tuttavia ritengo sia da ritrovarsi nella peculiare curvatura e vera e propria trasfigurazione che la personalità umana impone allo sguardo teleologico sulla natura.
Qui il filosofo elabora la propria soluzione dell’«antinomia dei principi del modo di generazione meccanico e di quello teleologico degli esseri naturali organici»12 delimitando così con precisione la valenza euristica e positiva della teleologia entro i confini del giudizio riflettente. Questa particolare collocazione della teleologia, che Kant qualifica come «critica», se da una parte sottrae alla presa dei fini la genesi e la struttura interna delle realtà naturali, dall’altra costituisce per il filosofo di Königsberg l’unica possibile positiva via di esercizio per la ricerca di una prospettiva sintetica ed integrale sulla natura. L’unico punto di vista, cioè, dal quale è possibile riconoscere una unità (dinamica) della natura è quello della sua considerazione secondo uno scopo. Tale punto di vista vale, naturalmente, in termini soggettivi, ma proprio tale condizione promette per Kant, l’aggancio di tale punto di vista con il «sostrato soprasensibile» della natura stessa.
L’unificazione sistematica della natura secondo fini poggia per Kant sulla possibilità che si dia uno scopo ultimo di essa. Tale scopo non può essere che l’uomo, poiché l’uomo è l’unico essere che può farsi un concetto di scopo e razionalmente concepire un «sistema di fini». L’uomo tuttavia non è solo scopo ultimo della natura ma anche scopo finale poiché, «se si deve trovare nell’uomo ciò che deve esser elevato a fine mediante il suo legame con la natura», bisognerà ricercare qualcosa di lui che possa «essere soddisfatto dalla natura nella sua benevolenza, oppure è l’idoneità e l’abilità rispetto a qualunque fine, per cui la natura (esternamente e internamente) può essere usata dall’uomo»13. Questi fini “naturali” dell’uomo sono per Kant la felicità e la cultura (Kultur).
Il riferimento alla felicità come fine ultimo naturale ripropone, ovviamente, la forte curvatura soggettivistica di essa che già chiaramente appariva nella Critica della Ragion Pratica. Qui però la natura veniva associata con nettezza alla sensibilità umana a definire quel mondo di bisogni dal quale la ragione – orientata ad un «fine superiore» e non semplice «strumento per la soddisfazione dei suoi bisogni» – si pone ad una incommensurabile distanza nel momento in cui guadagna l’orizzonte di «ciò che è buono o cattivo in sé»14. Nella terza Critica Kant, invece, sembra insistere con maggior nettezza sul carattere “drammatico” del rapporto felicità/natura. Innanzitutto l’irriducibile differenza «animalità»/umanità si mostra proprio in un dislivello altrettanto originario tra natura e felicità. Questa non è assimilabile a nulla di meramente istintuale ma si costituisce, nell’uomo, su un piano definito dal sempre ondivago gioco tra intelletto, immaginazione e sensi. La natura, però, non oppone alle pretese di una siffatta cangiante felicità solo la propria determinabilità secondo leggi, ma anche l’intero complesso sistemico della propria finalità. Un complesso al cospetto del quale – si potrebbe dire “dal punto di vista del quale” – l’uomo, qualora lo si intendesse anche come specie, risulta «soltanto un membro nella catena dei fini naturali»15. Lungi dal mettere in crisi la convergenza della teleologia della natura verso l’uomo, questo dato di fatto significa, per Kant, la necessità di un ulteriore raffinamento della comprensione di tale movimento. Se il primato “finale” dell’uomo nella natura r...