II. LA RETORICA DEL TRATTO: PITTURA, DISEGNO
Testo pubblicato nel 1979 dal Centro Georges-Pompidou (Musée national d’art moderne, Paris) e ripreso in Psyché. Inventions de l’autre1.
Jacques Derrida lo presenta come segue: «Accompagnava, negli Ateliers Aujourd’hui, un’esposizione congiunta di alcuni manoscritti del mio libro Sproni. Gli stili di Nietzsche e di disegni a penna di François Loubrieu, destinati, secondo le parole dell’autore, a ‘illustrare’ il libro».
All’inizio – è questa la finzione – ci sarebbe la scrittura. Vale a dire una favola, della scrittura. L’altro legge e, pertanto, scrive a sua volta [à son tour], quando tocca a lui [selon son tour]. A partire – udite bene – dalla sua lettura: lasciandola così allontanarsi o perdersi, recandosi altrove. Nel migliore dei casi vi sarà sempre da ridire, il processo delle due iscrizioni sarà interminabile. Farà sempre appello al suo supplemento, a qualche aggiunta di discorso, poiché parlavo di testi verbali, voglio dire delle parole.
Adesso immaginate, altra favola, che un testo letto venga riscritto, e in maniera completamente diversa, immaginatelo trasfigurato dal disegno o dal colore. Trasformato, cambiato nella sua linea o nelle sue forme, ma trasportato in un altro elemento fino a perdere qualcosa come il suo luogo e il suo rapporto con sé. Allora può capitargli (talvolta) di apparire preceduto da ciò che lo asseconda, come duplicato dalla sua conseguenza – e una specie di pace viene a immobilizzare con un solo tratto i due corpi, il corpo delle parole e quello degli spazi, affascinati l’uno dall’altro. Entrambi fuori da se stessi, una sorta di estasi. Estasi singolare, avete la sensazione che l’organismo verbale sia stato radiografato in base allo spazio malgrado lo spazio, all’istante attraversato dai tratti del pittore o del disegnatore, voglio dire filmato, fissato, sottoposto al rivelatore2 prima ancora del tempo della sua produzione, alla vigilia dell’inizio, avanti lettera.
François Loubrieu vuole cioè mantenere o conservare per questi raggi, i suoi, la parola «illustrazione». Sì, a condizione di cambiarla un po’ d’uso e di sottometterla ancora allo stesso processo. Di passarla al rivelatore e di insistere, in effetti, sull’inseparabile, l’indistaccabile di un’illustrazione. Di una che sia una e valga soltanto una volta, per un solo corpus.
Anche se questa alleanza indistruttibile riceve tutta la sua energia da un’interruzione, da un abisso insuperabile e da una dissimmetria assoluta tra il visibile e il leggibile.
E ancora: questa condivisione tra il visibile e il leggibile, non ne sono sicuro, non credo al rigore dei suoi limiti, né soprattutto che essa passi tra la pittura e le parole. Prima di tutto, attraversa senza dubbio ciascuno dei corpi, il pittorico e il lessicale, secondo la linea – ogni volta unica, ma labirintica – di un idioma.
Sproni: approntati in primo luogo per la scena, adattati per la cripta di un teatro. Ci giocavo gli effetti di una lettura politica, un’estate del 1972 al castello di Cerisy-la-Salle. E già in vista di un certo tableau vivant carico di geroglifici. Ciò che allora si offriva per sottrarsi alla scena, nelle pieghe di un simulacro – un certo «ombrello» di Nietzsche –, era già una molteplicità di oggetti, tutto un catalogo. Li mettevo sotto gli occhi come enigmi silenziosi, li facevo avanzare attraverso i cavilli di un’argomentazione lenta, accurata, ma anche discontinua, con salti e spazi bianchi – e questi oggetti, altri potevano credere che attendessero la loro rappresentazione per prestarvisi naturalmente: penne, stili e stiletti, velieri e vele di tutti i generi, daghe o dardi, ragni, gru, farfalle, tori, la fiamma e il ferro, le rocce, delle orecchie, un labirinto, la gravidanza o meno di tutte le donne di Nietzsche, una matrice enorme, dei ventri di vergine, l’occhio e i denti, persino un dentista che aspettava Wagner a Basilea – o una piega segreta, un plico segreto3, un piccolo pacchetto consegnato alla posta dal firmatario un giorno della frase «Ho dimenticato il mio ombrello»4. In breve, una scarica di cartoline nella retorica di un ombrello a Cerisy-la-Salle, non lontano da una «macchina da ricucire su un tavolo da castrazione»5.
Eppure, nel disegno di una dimostrazione sospesa alla fine, senza oggetto, che esibiva soltanto il suo segreto, tutto rifiutava l’immagine. Niente doveva lasciarsi arrestare dall’icona, fermare nella presenza di uno spettacolo, i contorni bloccati di un quadro o, infine situabile, nella posizione di un tema. Soprattutto non la donna, impossibile soggetto del discorso («Ma – la donna sarà il mio soggetto»6, è all’inizio, e più avanti, a partire da lì, «[…] la donna non era perciò il mio soggetto»7). Heidegger si vede addirittura sospettato di ignorarla, la donna, in uno scritto di Nietzsche e di trattarla come un’immagine, «[…] un po’ come si salta un’immagine troppo corposa in un libro di filosofia, o come si strappa una pagina illustrata o una rappresentazione allegorica in un libro serio. Il che permette di vedere senza leggere o di leggere senza vedere»8.
François Loubrieu non ha tentato di restituire. Il suo gesto fende in tutti i sensi uno spazio estraneo al debito: niente da rendere di questi sproni, di queste tracce o di queste fenditure (Spuren) che si danno per annullare lo scambio, la circolazione, il mercato, l’esposizione. È quello che chiama, con un termine dopotutto piuttosto nuovo, l’illustrazione.
Il dolce accanirsi dell’innesto, l’incisione assillante del disegno, le compenetrazioni [télescopages] in espansione non hanno lavorato su oggetti presenti, sul passato anteriore di uno scritto che li avrebbe tesi all’incisore, al disegnatore, al pittore. Loubrieu ha girato tutto questo con una violenza discreta, ha messo in opera tutti questi oggetti possibili, li ha manovrati come strumenti piuttosto che come immagini: strumenti, i suoi ormai, per dissodare uno spazio nuovo e con essi solcare – imprevedibili deviazioni. Forme completamente diverse e tuttavia tratto per tratto somiglianti, il ritratto di un libro, somiglianti come un sogno, il sogno sognato attraverso lo scritto che mi ritorna qui da altrove. Attraverso l’invenzione dell’altro.
Loubrieu si è «dato da fare» [s’est «attaqué»], sono parole sue.
Si è dato da fare con quella che chiama una «materia» (ma non è un supporto passivo, come talvolta si vorrebbe credere, non più di quanto si figuri di preferenza al femminile).
L’ha fatto con dei corpi ermafroditi, forse, secondo il «terzo sesso» di cui, in questo luogo, appunto, parla Nietzsche: delle piume, degli sproni, un ombrello.
Se volete sapere come si disegna, incide o dipinge con un ombrello, con questo ombrello e nessun altro, seguite Loubrieu nel suo atelier. Vi vedrete ancora dell’altro, tutt’altro rispetto a Le vacanze di Hegel, l’ombrello di Magritte sospeso sotto il suo bicchiere d’acqua al virtuosismo di un discorso.
E sapreste che, armato di questa cosa, passa attraverso tutte le parole di cui mi ero invaghito [épris], dalle quali mi ero lasciato prendere, impressionare direttamente sul corpo, per averle fin da subito amate, i due sproni per esempio.
Ma passando [passant] attraverso le parole, ne fa anche a meno [il s’en passe] – ed è bene.
Là dove questo mi era appena accaduto, egli sapeva già.
Ed ecco che mi accade ancora, come la prima volta quando sono rimasto sbigottito. È stato qualche anno fa, mi aveva appena mostrato degli schizzi, puntesecche e acqueforti, delle prove per un’edizione veneziana in quattro lingue, un lavoro in comune con Stefano Agosti.
Da allora, intorno a fuochi diversi, lo spazio di Loubrieu avrà guadagnato altre ellissi, non ha smesso di estendersi – vedete.
1 Cit., pp. 105-108; nuova ed., Psyché, cit., t. I, pp. 105-108 [trad. it. Psyché, cit., vol. 1, pp. 113-116. Il testo viene qui riproposto in una nuova traduzione (NdC)]
2 Il rivelatore è il reagente responsabile della reazione chimica che provoca lo sviluppo fotografico. (NdC)
3 Il termine usato da Derrida è «pli», che significa sia «piega» che «plico». Si è scelto di presentare ambedue le traduzioni per mantenere l’ambiguità del suo discorso. (NdC)
4 Cfr. J. Derrida, Éperons. Les styles de Nietzsche, prefazione di Stefano Agosti, disegni e copertina di François Loubrieu, Flammarion, coll. «Champs», Paris 1978, pp. 102-119; trad. it. e cura di S. Agosti, Sproni. Gli stili di Nietzsche, Adelphi, Milano 1991, pp. 113ss. Questo testo è stato inizialmente pubblicato presso le Edizioni Corbo e Fiore, Venezia, 1976, prefazione di Stefano Agosti, disegni di François Loubrieu, in versione quadrilingue (francese, italiano, inglese, tedesco). (Salvo indicazioni contrarie, tutte le note in questo testo sono degli editori francesi.) Cfr. infra, Figura 3.
5 Ibid., p. 110; trad. it. p. 120. Jacques Derrida fa qui riferimento alla famosa frase dei Canti di Maldoror: «[…] bello […] come l’incontro fortuito sopra un tavolo di anatomia fra una macchina per cucire e un ombrello!» (Lautréamont, Œuvres complètes, a cura di Pierre-Olivier Walzer, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1970, Canto sesto, strofa 3, pp. 224-225; trad. it. di Nicola M. Buonarroti, I canti di Maldoror, a cura di Laura Colombo, Feltrinelli, Milano 2010, p. 162).
6 J. Derrida, Éperons, cit., p. 27; trad. it. Sproni, cit., p. 39.
7 Ibid., p. 100; trad. it. pp. 110-111.
8 Ibid., p. 68 e p. 70; trad. it. pp. 79-80.
IL DISEGNO DEL FILOSOFO1
Intervista con Jérôme Coignard
Questa intervista è apparsa nella rivista Beaux Arts Magazine (Publications Nuit et Jour, Paris), 85 (1990), pp. 88-91, in concomitanza con la mostra «Mémoires d’aveugle, l’autoportrait et autres ruines [Memorie di cieco, l’autoritratto e altre rovine]» presentata nella Sala Napoleone del Museo del Louvre, dal 26 ottobre 1990 al 21 gennaio 1991.
L’intervista era illustrata da sei riproduzioni fotografiche dei seguenti quadri: tre autoritratti di Fantin-Latour (carboncino, penna e inchiostro nero, 1860-1871, Museo del Louvre, dipartimento delle arti grafiche, fondo del Museo d’Orsay), con questa frase posta come didascalia: «L’occhio del disegnatore, irrigidito nella ricerca del proprio sguardo rinviato dallo specchio, somiglia all’occhio di un cieco. Si acceca lui stesso, altro non vedendo se non un occhio che nulla vede. Così l’autoritratto è, per eccellenza, il luogo della cecità dell’artista»; un dettaglio di Allégorie chrétienne [Allegoria cristiana] (1520), di Jan Provost (1470-1529) (olio su tavola, 50x40 cm, Museo del Louvre), e un dettaglio di Elimas colpito da cecità (1527-1538) di Giulio Clovio (1498-1578) (guazzo, 33x23 cm, Museo del Louvre): «Il cieco che tende la mano in avanti per orientarsi, per non cadere, è anche una metafora dell’artista, la cui mano brancola nell’invisibile da cui sorgerà il disegno. Esposizione d’occhi, ‘Memorie di cieco’ è dunque anche un’esposizione di mani»; e infine Autoportrait en trompe-l’œil [Autoritratto in trompe-l’œil] (ca. 1866), di Jean-Marie Faverjon (1828-1873) (pastello, 56x46 cm, Museo d’Orsay): «La mostra del Louvre analizza le strutture complesse dell’autoritratto, identificabile in quanto tale grazie soltanto a un’indicazione esterna al disegno stesso».
Il testo era preceduto da questo preambolo: «Hanno questo in comune il disegnatore e il cieco: afferrano o figurano il visibile con la loro mano, a tentoni. Le loro rispettive cecità diventano la condizione di un’altra maniera di ‘vedere’ il mondo. Tale è il principale postulato che il filosofo Jacques Derrida propone allo spettatore con l’esposizione ‘Memorie di cieco’ presso il Museo del Louvre. A occuparvi un posto di rilievo è l’autoritratto, la figura stilistica in cui l’artista ‘non perviene mai a sorprendere il proprio sguardo’».
JÉRÔME COIGNARD: Se non lo stesso disegnatore, è il disegno a essere cieco. Questo tema paradossale, per non dire provocatorio, è stato da lei preso in considerazione per la mostra di cui il Museo del Louvre le ha chiesto di essere il curatore. In che cosa consiste tale «cecità» del disegno?
JACQUES DERRIDA: Non si tratta di presentare direttamente il disegnatore come un cieco, ma, come indica il titolo della mostra, di interessarsi a ciò che ha potuto portare il disegnatore a interessarsi ai ciechi. Vale a dire alla vista, e questo va da sé, ma anche alle mani. È una mostra sull’occhio esposto alla ferita, all’infermità, a tutti i tipi di minacce, ma è anche una mostra di mani, nella misura in cui il cieco è qualcuno che si orienta, che va a tentoni mettendo le mani avanti. Vi si possono vedere, dunque, molte mani – quelle dello stesso cieco, ma anche quelle del Cristo che guarisce i ciechi toccandoli. Interessandosi all’occhio e alla mano, il disegnatore è già nella situazione della riflessione speculare. Coglie se stesso come un possibile cieco, qualcuno che cammina con la mano – se si può dire così –, che lavora con la mano. Da questo punto di vista, «memorie di cieco» significa, nella nostra cultura, tutto quello che hanno rappresentato i grandi ciechi della Bibbia e dell’antichità greca. Si potranno vedere, dunque, un certo numero di figure di ciechi leggendari. Tale interesse del disegnatore per lo sguardo conduce alla questione dell’autoritratto, vale a dire del disegnatore che cerca di sorprendersi mentre disegna. In mostra si vedono dei bellissimi autoritratti di Fantin-Latour o di Chardin, unitamente alla questione teorica di sapere che cos’è un autoritratto, se un autoritratto sia possibile e se, nell’esperienza dell’autoritratto, il disegnatore non si accechi, data l’incapacità in cui si trova di sorprendere il proprio sguardo, e anche il fatto strutturale per il quale un autoritratto mai s’identifica mediante una semplice lettura interna dell’opera. Non basta guardare un autoritratto...