Giustizia e carceri secondo papa Francesco
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Giustizia e carceri secondo papa Francesco

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Giustizia e carceri secondo papa Francesco

About this book

Un discorso potente e radicale quello di papa Francesco sulla giustizia e sulle carceri. Indignata è la sua critica alla giustizia, definita selettiva, populista con tendenze razziste. Il carcere viene definito luogo di produzione di dolore. La tortura è un plus di sofferenza, l'ergastolo una pena di morte nascosta. Papa Francesco non si accontenta di offrire una prospettiva di salvezza, come spesso la Chiesa si è limitata a fare. Non si affida alla retorica della rieducazione del reo. Il suo è un manifesto contro le derive securitarie degli ultimi decenni e contro un diritto penale che tratta le persone come nemici. La giustizia per papa Francesco deve essere sempre una giustizia "pro homine". In questo volume i curatori e altri ventuno autori, tra loro molto diversi per storia e professione, commentano le parole del Pontefice.

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Information

Capitolo 1
LA DIGNITÀ UMANA

1
IL PRIMATO DEL PRINCIPIO PRO HOMINE

Marco Ruotolo
La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana (papa Francesco).
Il discorso di papa Francesco può ben collocarsi entro quel filone teorico che guarda alla pena (specie carceraria) come extrema ratio, imponendo, in funzione della tutela dei diritti della persona, rigidi limiti alla previsione legale dei reati e al loro accertamento giudiziario. Il suo sviluppo, nella parte qui oggetto di commento, si sposta sul piano della concreta esecuzione della pena, la quale deve conformarsi al rispetto della dignità della persona, nonché, secondo le più recenti declinazioni costituzionali, mettere il reo nelle condizioni di poter ricostruire quel legame sociale che si è interrotto con la commissione del fatto-reato (c.d. reinserimento sociale). Ma questo è, appunto, sviluppo di un discorso unitario che guarda alla pena nella sua “totalità”, dalla astratta previsione alla concreta esecuzione. Perché vi possa essere “cautela” nell’applicazione della pena, è necessario, infatti, che l’astratta previsione normativa lo consenta, che il sistema preveda, nella misura più ampia possibile e nel rispetto del criterio di proporzionalità, il ricorso a sanzioni penali diverse dalla reclusione in un carcere. Non è un caso, ad esempio, che la Costituzione italiana declini il termine “pena” al plurale, non accettando, implicitamente, quella equazione con il carcere che invece pare così radicata nel comune sentire e che ha trovato spesso significativo seguito nelle scelte del legislatore ordinario. Sono «le pene» – e non soltanto la sanzione carceraria – che, in base all’art. 27 della Costituzione italiana, «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»!
Ma la “cautela” che il Pontefice ci invita a rispettare può anche intendersi in modo parzialmente diverso, come esigenza di sfuggire alle conseguenze troppo rigide che potrebbero discendere da un atteggiamento supino rispetto al dato letterale della legge, da molti operatori preferito anche in quanto deresponsabilizzante. Un invito alla “prudenza”, al “discernimento” che deve orientare l’operato del giudice nella scelta del mezzo più idoneo per il raggiungimento del fine, che nel nostro caso è rappresentato dall’obiettivo del reinserimento sociale del reo e, ancor prima, dalla necessità di assicurare in ogni circostanza il rispetto della dignità della persona.
Non si tratta di un invito alla disapplicazione della legge, ma a una sua interpretazione conforme a valori etici e civili, che trovano puntuale riscontro nei principali documenti internazionali e costituzionali, traducendosi nell’affermazione del principio pro homine. Un principio che si risolve anche, inevitabilmente, in un criterio ermeneutico che induce a privilegiare un’interpretazione estensiva quando si tratta di assicurare la tutela di diritti fondamentali e, viceversa, un’interpretazione restrittiva quando occorre stabilire limitazioni al loro esercizio.
Rivendicare ciò rientra, senza dubbio, nella missione del giurista, inserendosi peraltro a pieno titolo nell’ambizione primaria del costituzionalismo: limitare il potere a garanzia dei diritti di ciascuno e di tutti.
Ma il principio pro homine o, se si vuole, il principio del rispetto della dignità della persona, non solo deve essere assicurato nella fase dell’esecuzione della pena ma, ancor prima, deve costituire «criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona».
L’invito alla “repressione” di simili condotte impone non soltanto l’astratto divieto di ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà (come recita l’art. 13, quarto comma, della Costituzione italiana), ma pure la sua puntuale sanzione. Non basta più affermare – come scriveva Cesare Beccaria – che in nessuna circostanza le leggi potrebbero permettere che «l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa», ma occorre pretendere che le leggi lo impediscano, anche quando una condotta gravemente lesiva della dignità e della integrità della persona umana potrebbe avere «una qualche sorta di utilità sociale».
È chiaro, in questo passo, il riferimento alla necessaria introduzione del reato di tortura negli ordinamenti giuridici nazionali, volto a sanzionare un comportamento indiscutibilmente lesivo della dignità della persona. Un comportamento non ancora previsto come specifico reato nell’ordinamento italiano – che pure non è certo restio a comprendere sempre nuove fattispecie incriminatrici (si è superata la soglia di 35.000!) – nonostante la previsione costituzionale sopra richiamata e i molteplici obblighi internazionali che ne imporrebbero la sanzione. Un passo necessario che il Santo Padre ha concretamente realizzato con motu proprio del luglio 2013, introducendo il reato di tortura nel codice penale dello Stato della Città del Vaticano. Nella consapevolezza che tollerare o addirittura legittimare la tortura (sia pure nella ricorrenza di particolari presupposti) apre la via ad «ulteriori e più estesi abusi», i quali si potranno arrestare unicamente con il fermo impegno a «riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa».
Da costituzionalista leggo questo invito del Papa agli Stati come monito a non cedere alla tentazione del passaggio dallo Stato di diritto allo Stato di prevenzione, tanto più forte in periodi di costante e gravissima minaccia terroristica. Può essere di insegnamento, al riguardo, la giurisprudenza della Corte suprema di Israele, che in una sua decisione del 2003 ha chiaramente affermato: «l’adozione di mezzi fisici (la “tortura”) senza dubbio accrescerebbe la sicurezza… ma noi riteniamo che la nostra democrazia non sia disposta ad adottarli, anche a prezzo di un sicuro danno alla sicurezza» (HCJ 7052/03, Adalah et al. v. The Minister of Interior and the Attorney General). «A volte la democrazia combatte con le mani dietro la schiena» – scrive sempre la Corte israeliana in un’altra decisione – ma non si può negare che, «nonostante ciò, la democrazia prevale, dal momento che preservare il ruolo della legge e riconoscere le libertà individuali costituisce un’importante componente della sicurezza in una democrazia» (HCJ 5100/94, Public Committee Against Torture in Israel v. The State of Israel).
È proprio «la piena vigenza e operatività del principio pro homine» che può contribuire a rafforzare una democrazia in crisi, anche garantendo che «gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità».

2
LA FUNZIONE DEL DIRITTO PENALE E I DIRITTI UMANI

Marta Cartabia1
Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative (papa Francesco).
Papa Francesco richiama il principio generale della cautela in poenam, articolandone varie implicazioni, tra le quali meritano di essere sottolineate: la concezione del diritto penale come extrema ratio; la necessaria diversificazione della forma della pena; il principio della proporzionalità della stessa; il problema della garanzia delle libertà e dei diritti dei detenuti. Egli esprime con fermezza il convincimento che il ricorso al diritto penale deve rimanere contenuto nei limiti strettamente necessari ad assicurare la sua funzione sanzionatoria, utile a stigmatizzare la violazione delle fondamentali regole della convivenza. Viceversa – prosegue il Pontefice – esso eccede dal suo ambito, quando mira a una finalità preventiva, deterrente, «la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare neppure per le pene più gravi come la pena di morte».
Così, Francesco interviene nell’inesauribile dibattito sulle funzioni della pena – retributiva, emendativa, preventiva, rieducativa o riabilitativa – esprimendo un inequivocabile scetticismo circa la sua valenza preventiva ed escludendo ogni rapporto di causalità tra la severità della pena e la sua efficacia deterrente. Del resto, dati alla mano, non è difficile dimostrare quanto affermato da Michel Foucault nel suo saggio Sorvegliare e punire2, circa il fatto che la restrizione carceraria – tutt’ora al centro del sistema penale – non diminuisce il tasso di criminalità e, anzi, tende a incentivare la recidiva.
Merita attenzione il fatto che il discorso in commento si rivolga a un pubblico internazionale.
La situazione delle carceri in Italia è tristemente nota per lo stato di sovraffollamento che rende disumana la permanenza dei detenuti3: queste condizioni, oltre a presentare dei profili fortemente problematici in sé, sono terreno di coltura della violazione di molti altri diritti dei detenuti.
Se ciò è vero per il nostro Paese, oltre i nostri confini le cose non vanno affatto meglio. Anzi.
Benché non manchino strumenti di diritto internazionale volti a sostenere lo sviluppo del diritto penale verso modalità di trattamento meno severe, meno crudeli, meno dolorose, più rispettose e umane nei confronti del condannato, tuttavia la recezione di tale tendenza è assai diversificata nelle varie regioni del mondo. Varia è la severità delle pene; varia è l’ampiezza dei comportamenti attratti nell’ambito del diritto penale; varia la situazione del detenuto in carcere.
Lo stesso mondo occidentale è tutt’altro che riconducibile ad un medesimo sentire in materia di pena e statuto dei detenuti. Come ha bene osservato e documentato J.Q. Whitman: «Contemporary American criminal punishment is more degrading than punishment in continental Europe», dove non solo la pena di morte è abolita da tempo, ma anche il carcere presenta un volto assai diverso, in quanto tentativamente ispirato al principio che «life in prison should approximate life in the outside world as closely as possible»4.
Simboleggiato dalla spada – ius gladii – attributo gelosamente riservato al “sovrano”, il potere punitivo è tuttora forgiato prevalentemente nel chiuso delle singole esperienze nazionali: il confronto e la contaminazione con esperienze straniere, sovranazionali e internazionali è ancora limitato, mentre potrebbe proficuamente contribuire al diffondersi di un volto più umano della pena.
Il diritto penale risponde al male con il male, non interrompe la «catena del male»5 e tende a generare odio e conflittualità. Ciò vale in particolare per la pena tipica che tuttora campeggia al centro dei sistemi penali contemporanei, vale a dire la reclusione in carcere. Per questo occorre farne uso con misura, come extrema o ultima ratio.
Il principio del diritto penale come ultima ratio, sottolineato nel discorso di Francesco, ha vari risvolti.
Anzitutto, a livello sistemico questo principio si rivolge al legislatore perché non ecceda nella penalizzazione, resistendo agli allarmi sociali alimentati dalle derive emotive che taluni fatti di cronaca agitano nella collettività. I nostri ordinamenti offrono, anzi, ampi margini per la depenalizzazione.
Inoltre, il diritto penale come ultima ratio è un invito ad abbandonare la centralità del carcere – come pena tipica – e a diversificare le tipologie di sanzioni6; meglio, è un appello a pensare a un “sistema plurale della pena”7, in cui il carcere non costituisca più il paradigma della pena rispetto al quale tutte le altre forme di afflizione – non a caso dette “misure alternative” (sottinteso: al carcere) – sono commisurate. In molti casi, i grandi illeciti che si consumano sul piano economico e finanziario e la stessa corruzione – che papa Francesco stigmatizza così duramente – sono più efficaceme...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Avvertenza
  6. DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLA DELEGAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DI DIRITTO PENALE
  7. Capitolo 1: LA DIGNITÀ UMANA
  8. Capitolo 2: LA CRISI DELLA RAGIONE PENALE
  9. Capitolo 3: BULIMIA PENITENZIARIA E CULTURA GIURIDICA
  10. Capitolo 4: IL CARCERE COME PENA DISUMANA
  11. Capitolo 5: IL DIRITTO PENALE È SELETTIVO
  12. Capitolo 6: LA PENA CHE TOGLIE LA VITA
  13. Capitolo 7: I CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ
  14. Note a margine
  15. Note sugli autori
  16. Note sui curatori