Quarta parte
IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO
Se di “socialismo” e di “comunismo” si potrà ancora parlare nel XXI secolo, sarà solo se si saprà di nuovo “smontare” teoricamente, e trasformare praticamente, il capitalismo del XXI secolo.
R. Bellofiore, La farfalla e il vampiro, cit., p. 43.
That there is a life after Marxism is the whole point of Marxism.
T. Eagleton, Why Marx Was Right, Yale University Press, New Haven-London 2011, p. 2.
IL PERSONALE, IL POLITICO E IL CAPITALE
PERCHÙ ESSERE ECOLOGISTA, FEMMINISTA, QUEER, ANTIRAZZISTA, ANTISPECISTA ECC. NON FA DI TE UN ANTICAPITALISTA
Lo scenario politico contemporaneo è, dalla fine degli anni ’80, caratterizzato da un costante tentativo di ricomporre il quadro di una critica del capitalismo a partire da esperienze diverse, spesso allergiche o del tutto estranee alla tradizione del socialismo novecentesco. In un certo senso, niente potrebbe meglio adattarsi a questo scenario che il modello appena enucleato di una “teoria critica della società” in grado di mettere in rapporto i diversi meccanismi di oppressione e fornire un’idea unitaria di come vada compreso, combattuto e superato il sistema capitalistico. Ma la realtà è ben diversa. E, come vedremo, è diversa perché ai diversi movimenti anticapitalisti mancano o non sono sufficientemente elaborati proprio quei due elementi che resero la teoria critica francofortese un unicum: (1) il tentativo di integrare la teoria dello sfruttamento capitalistico ponendo attenzione ai meccanismi di controllo e asservimento della vita senza abbandonare il piano dell’analisi marxiana dell’autovalorizzazione del capitale; (2) una concezione dialettico-negativa della natura che nel momento stesso in cui denuncia l’asservimento del vivente alla logica del dominio si rifiuta di vedere nella “vita naturale” un bene, una purezza incontaminata, una soluzione alle contraddizioni della civiltà. Analizzeremo in questo capitolo il primo aspetto e ci volgeremo al secondo nel prossimo.
1. Amici, ancora uno sforzo se volete essere anticapitalisti
Dunque non è un bene che si cerchi di criticare il capitalismo da più punti di vista? Che si superi l’unilateralità del socialismo del XX secolo? Assolutamente sì. Se le cose stessero veramente così. Intendiamoci, sono assolutamente convinto che costruire una prospettiva socialista che sia in grado di raccogliere e rilanciare il frutto di esperienze di lotta diverse come il femminismo, l’ecologia, la teoria queer o l’antispecismo sia un’ottima cosa. Tuttavia, il tema della cosiddetta “convergenza delle lotte” mi pare circoli da tempo sufficiente per poter cominciare a dire che non abbia prodotto risultati esaltanti, né da un punto di vista teorico, né pratico.
In quanto segue proverò a dare una spiegazione del perché, concentrandomi su quelli che mi sembrano essere i tre vizi principali dei movimenti anticapitalisti. Anzitutto, essi non sono affatto “anticapitalisti” o, se lo sono, lo sono in modo molto generico e confuso. In secondo luogo, il tema della “convergenza delle lotte” segue un modello, altrettanto discutibile, che passa sotto il titolo di “intersezionalismo”. Infine, trovo problematiche molte pratiche di resistenza “comunitarie” che circolano nell’ambito della sinistra radicale, degli ambienti anarchici e libertari.
L’anti-capitalismo, come vedremo, è il cuore del problema cui si legano gli altri due. Come aggettivo non indica infatti nulla di determinato e si presta a ogni abuso teorico. Non solo e non tanto per la sua radice negativa (anti-) che lascerebbe aperto l’orizzonte sociale che si vorrebbe riempire di contenuto, ma proprio per la costitutiva incapacità di definire in termini chiari e univoci l’orizzonte che si intende negare, ovvero quel “capitalismo” che non si sa più bene cosa significhi. Al di fuori della teorizzazione marxiana (che, come vedremo, è invece cogente perché molto ristretta1), il capitalismo denunciato da tanta parte della sinistra e dei movimenti è un confuso riferimento a pratiche di “mercificazione”, di “reificazione”, di invadenza corruttrice del “denaro” e delle “banche” ecc. È poi un curioso Giano Bifronte: qualcosa che funziona con la meccanica precisione di un “sistema” di cui però si denuncia la violenza riconducendola spesso alla “volontà” prevaricatrice di individui e gruppi di potere. È del tutto evidente che una denuncia di questo tipo potrebbe benissimo essere condivisa dalla cultura reazionaria e addirittura fascista.
Lo stesso dicasi per l’idea di condivisione di pratiche comunitarie, sia che esse vengano ripescate da una tradizione che si vorrebbe preservare dall’influenza disgregatrice del capitale, sia che vengano sponsorizzati da spazi urbani “liberati”, luoghi di emancipazione creativa all’interno di un sistema non-libero. La critica destrorsa al “mondialismo” e il recupero delle tradizioni di popoli in lotta contro la modernità “borghese”, infatti, precede l’emergere dei movimenti no global. Questa convergenza pone questioni teoriche e politiche che non possono essere superate con un’alzata di spalle. Ciò viene detto ovviamente non per accusare di connivenza con la reazione i coraggiosi esperimenti di liberazione degli spazi sociali o di emancipazione anti-coloniale dei popoli oppressi. Che il senso di queste lotte sia, soggettivamente e moralmente, opposto e inconciliabile con il fascismo è del tutto evidente. Che lo sia anche oggettivamente e teoricamente, che cioè i concetti con cui tali pratiche pensano sé stesse e la propria opposizione al capitale siano invece fondamentalmente inconciliabili con la reazione è un altro paio di maniche. Purtroppo, come vedremo, non lo sono affatto.
L’intersezionalismo, infine, è un concetto probabilmente irricevibile dalla destra reazionaria ed è quello che ha ricevuto la maggiore attenzione accademica, tanto da essere una specie di pilastro indiscusso della mentalità “progressista” contemporanea. Proprio perciò, probabilmente, è quello più pericoloso da un punto di vista teorico, l’architrave di un’ideologia che ha due difetti principali: tende a sublimare i rapporti di potere in pratiche discorsive, traducendo tutte le forme di oppressione in forme di discriminazione; tende a immaginare che esista una struttura soggiacente alle forme di oppressione che assume la forma fantasmatica del “potere” o del “dominio”.
In tutti e tre i casi, come vedremo, il problema è che l’oggetto specifico della lotta contro il capitale diventa impensabile e quella stessa lotta illusoria.
2. Alla fiera delle identità antagoniste
L’idea di scrivere questo capitolo nasce da una constatazione che devo a Michele Dal Lago a proposito della mia analisi del movimento antispecista sviluppata in Al di là della natura2. In particolare, Dal Lago criticava la mia tendenza a considerare tipiche o esclusive dell’animalismo e del veganismo3, caratteristiche fisiologiche di buona parte della sinistra “movimentista”. A posteriori penso che abbia ragione. Per dimostrarlo proviamo a partire dalla mia analisi critica del movimento animalista – che, come ho potuto constatare, è solitamente condivisa dagli attivisti che si definiscono “anticapitalisti” – e vedremo come essa, nei suoi tratti essenziali, sia uno specchio in cui altri movimenti di lotta potranno loro malgrado contemplarsi.
Chi difende i diritti animali (semplici “animalisti”, più spesso “vegani”, talvolta “antispecisti”) non suscita solitamente molta simpatia negli ambienti antagonisti. E, occorre dire, a ragione. Di fronte allo sfruttamento della maggior parte della popolazione mondiale da parte di una manciata di famiglie miliardarie, di fronte a un potere economico che condiziona le istituzioni di interi paesi mentre distrugge ecosistemi a ritmo esponenziale, alla violenza poliziesca e alle bombe, trovi sempre l’animalista pronto a dire che il problema non è il capitalismo ma “L’uomo” che si considera “superiore” agli animali e che la soluzione non è smantellare quel potere, bensì diventare tutti “vegan” o, al limite, “estinguersi”e liberare la natura dalla nostra ingombrante presenza.
Perché accade tutto questo? Nella mia ricostruzione riconosco i seguenti deficit teorici degli animalisti: essi tendono (1) a considerare la violenza sugli animali l’esito di un pregiudizio antropocentrico nei loro confronti; conseguentemente, dal punto di vista pratico, non riescono a proporre altro che (2) un’azione di convincimento morale dei singoli individui, in particolar modo attraverso la diffusione del vegetarismo/veganismo, nella speranza di raggiungere un giorno una massa critica in grado di cambiare la società (sia come individui che come membri di esperimenti comunitari in spazi “liberati”). I punti critici di questa concezione sono evidenti e molteplici. Anzitutto, si considera il pregiudizio morale la causa della schiavitù animale. A ciò ho contrapposto l’ipotesi, forse più plausibile, secondo cui non sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, quanto piuttosto li consideriamo inferiori proprio perché li sfruttiamo. Dunque il problema vero non è solo cambiare il modo in cui pensiamo gli animali, ma come li trattiamo. L’aumento esponenziale dell’uccisione di animali negli ultimi due secoli non è né dovuto all’aumento della popolazione, né a un’intensificazione del pregiudizio nei confronti degli animali (semmai è vero il contrario: mai come oggi si è disposti a considerare moralmente degni di considerazione gli animali non-umani), bensì a qualcosa che probabilmente ha a che fare con il capitalismo. Purtroppo è tipico dell’animalismo ignorare la complessità e contraddittorietà della struttura sociale e limitarsi a colpevolizzare gli individui umani per effetti distruttivi su scala planetaria che andrebbero invece analizzati a partire dalle strutture produttive. Ma per comprendere questo e agire di conseguenza è necessario andare oltre la pretesa di convincere il vicino di casa a diventare vegan e iniziare a interrogarmi su ciò che ha prodotto quella crescita esponenziale nell’industria della morte animale. Purtroppo, anche laddove gli antispecisti riconoscono a parole l’esistenza di strutture sociali che condizionano l’agire individuale non ne traggono le dovute conseguenze. Si limitano a dire che è colpa del capitalismo ma anche dell’Uomo, che il cambiamento deve avvenire a livello strutturale ma anche individuale. Salvo poi non fare nulla per agire rispetto al primo corno del problema e riproporre costantemente la stucchevole ricetta del go vegan! e del cambiare “stile di vita”.
Osservando l’attivismo vegan mi sono reso conto subito di come esso sia in fondo caratterizzato da un certo moralismo identitario: esso infatti ritiene che “cambiare il mondo” significhi colonizzare gradualmente il resto della società a partire da un centro di “illuminati”, puri e coerenti. Questa colonizzazione del resto della società può avvenire per vie giuridiche (le grandi associazioni che cercano di far approvare i “diritti animali”), in modo illegale (l’ALF e i gruppi di azione diretta che liberano animali dai luoghi di detenzione), in modo culturale (le piccole associazioni che fanno campagne per il veganismo e per una cultura del rispetto). È interessante notare però che in nessun caso viene messa in discussione o attaccata la struttura della proprietà capitalistica, né il modello economico sottostante (quando ipotizza un modello economico, l’antispecismo trapassa generalmente nella decrescita o nel primitivismo). Ma ciò è anche comprensibile: poiché la base di queste azioni è la convinzione morale, ne deriva automaticamente che chiunque non partecipi o sostenga queste azioni è ipso facto moralmente colpevole di “pregiudizio” antropocentrico. Ogni azione politica che proponesse una forma di mediazione istituzionale, politica, economica, ogni strategia di lungo periodo per porre fine allo sfruttamento degli animali (ad es. alleandosi con le forze che vogliono porre fine allo sfruttamento capitalistico della natura) è resa impraticabile perché significherebbe distogliere lo sguardo dalla sofferenza degli animali e stringere le mani “sporche di sangue” di membri di altri movimenti di contestazione dell’esistente.
All’inizio ero convinto che il moralismo identitario fosse un’esclusiva particolarmente odiosa dell’animalismo, ma sbagliavo. Un anarchico che cita, approvandola, questa poesia di Eluard esprime la stessa concezione: «D’accordo il regno dei borghesi io lo odio / Il regno dei questurini e dei preti / Ma odio anche di più / Chi come me non li odia /Con tutte le forze». Di più: aver discusso in questi anni di pratiche di liberazione e lotta al capitalismo con diverse realtà della galassia antagonista mi ha piuttosto convinto che la posizione del vegano etico non sia la peggiore che si possa riscontrare oggi. Paradossalmente, il vegano etico individualista che si concentra sul versante del consumo privato è meno lontano dalla realtà dei rapporti di dominio di quanto lo sia chi ritiene di essere un passo avanti in direzione dei processi di liberazione perché fa parte di una “comunità”, peggio ancora se di una comunità che vede in qualche “tradizione” un valore da opporre alla modernità capitalistica (in genere, invece, la maggioranza dei vegani non ha problemi a criticare la tradizione e gli usi precapitalistici). Ma per comprendere bene questo punto è necessario andare con ordine e superare alcuni luoghi comuni che rendono oggi difficile affrontare queste tematiche senza cadere in sterili contrapposizioni tr...