Nella casa dell'interprete" è il feroce racconto della storia di un uomo e di una nazione. Nella casa dell'interprete, tradotto dall'inglese da Maria Teresa Carbone, ha al centro gli anni dal 1955 al 1959, trascorsi alla Alliance High School, quando in Kenya imperversava la guerriglia anticolonialista Mau Mau, alla quale si era unito anche il fratello di Ngugi, Good Wallace. Marco Bruna, La Lettura «Come ha potuto un intero villaggio, la sua gente, la sua storia, tutto, svanire in questo modo?» Se lo chiede il giovane Ngugi wa Thiong'o, di ritorno nell'aprile 1955 dal college britannico vicino Nairobi che frequenta, quando scopre che il suo paese natale è sparito, e la sua casa di famiglia rasa al suolo. Lo scrittore rievoca con commozione le esperienze che lo trasformarono in un autore, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura, e, in quanto dissidente politico, in un esempio morale per tutti.
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Già dal primo trimestre del mio ultimo anno alla Alliance ci appassionammo al dramma politico che si svolgeva sulle piazze e nelle camere legislative del paese. La vicenda ebbe il suo picco poco dopo il voto di marzo, in seguito al quale furono eletti altri sei membri africani nel quadro di un’ulteriore revisione costituzionale, il piano Lennox Boyd, che portò a un totale di quattordici membri africani, per la prima volta in parità con gli europei.
Accogliendo al proprio interno i sei nuovi membri, la AEMO rigettò quella parte del piano Lennox Boyd che prevedeva dodici membri speciali, quattro per ogni gruppo razziale, sia pure su una lista comune non razziale. In proporzione alle popolazioni rappresentate, un europeo era equiparato a centinaia di africani. La AEMO aveva imparato bene la tattica di accettare le parti positive di un accordo, rifiutando quelle che andavano a detrimento degli interessi africani. Il 25 marzo, letteralmente il giorno successivo alle elezioni, la AEMO rilasciò una dichiarazione in cui si denunciavano con forza gli africani che si erano presentati per questi seggi speciali, descrivendoli come collaborazionisti, quisling e europei neri.
Quando la tempesta ti sballotta sulle onde della vita,
quando sei scoraggiato e pensi che tutto è perduto,
conta le tue benedizioni, nominale una a una,
e ti sorprenderà quello che ha fatto il Signore.
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Il tracollo della nostra piccolissima congrega di Balokole aveva strappato la mia vita spirituale dal suo ancoraggio a un gruppo. Sebbene Omange e io ci incontrassimo ancora senza E.K., lo spirito collettivo non era lo stesso. Cercavo quindi rifugio dove lo avevo sempre trovato, nella cappella e nella scuola domenicale. La cappella interreligiosa con il suo arco gotico a sesto acuto, costruita fra il 1933 e il 1934, doveva essere un simbolo della presenza di Dio nella scuola, la forza motrice del suo lavoro e del suo servizio. Ma al tempo stesso rappresentava un costante promemoria dell’unità fra la Alliance e lo stato coloniale.
Fu così per esempio quando il reverendo Handley Hooper, in precedenza appartenente alla Church Mission Society di Kahuhia, officiò la funzione una domenica nel dicembre 1956. Stava dietro il pulpito, eretto, calmo e composto, nulla di drammatico in lui. Poi prese un piatto per dimostrare qualcosa, lo fece scivolare goffamente tra le dita e cadere al suolo in mille pezzi. Ero sbigottito. Lentamente, deliberatamente, Hooper si chinò e raccolse i pezzi, a uno a uno. Un cuore che è pronto per Gesù, disse, si deve frantumare in segno di umiltà e pentimento. Lo Spirito Santo saprà rimettere insieme i pezzi per creare qualcosa di integro. Per quanto reale, la rottura del piatto era una messinscena. Chi l’aveva già visto parlava di altre rappresentazioni, diverse ma ugualmente efficaci nell’attirare l’attenzione sul tema centrale dei suoi sermoni.
Ne assunsi la direzione alla fine del 1957. Non vedevo l’ora che arrivasse la mia prima domenica come capo di una nuova squadra di quattro persone. Conoscevo benissimo il rituale. I ragazzi si radunavano per i preliminari prima di ritirarsi in stanze separate con i diversi insegnanti e al termine si riunivano di nuovo per la preghiera finale, quasi sempre il Padre nostro. Il capogruppo guidava le cerimonie di apertura e di chiusura. Negli ultimi tre anni avevo visto altri ragazzi farlo all’apparenza con agio e sicurezza. Avrei potuto condurre la funzione a occhi chiusi. Ma quando mi alzai e vidi tutti quegli occhi pieni di aspettativa fissi su di me, avvertii il peso della situazione. Fui felice e sollevato quando arrivò la preghiera finale, che annunciai con tono autorevole. Dovevo dire la prima frase, Padre nostro che sei nei cieli, ma il nervosismo ebbe il sopravvento. Non ricordavo le parole. Ci fu un silenzio imbarazzato. Preso dalla disperazione, dissi le prime cose che mi vennero in mente: Che il Cielo ci perdoni, che il Cielo ci sia donato. Ma gli studenti furono generosi: ignorarono la mia confusione e recitarono il Padre nostro dall’inizio alla fine.
Ero piuttosto scosso. Avevo pensato che la paura del palcoscenico riguardasse solo gli attori, ma ora capivo. Conoscevo quella preghiera a memoria, l’avevo imparata per la prima volta tanti anni prima alle elementari a Kamandura. Eppure quando era giunto il momento, mi ero bloccato. Fu un’esperienza mortificante, una grande lezione. Le domeniche successive nel 1958 andarono lisce, con i genitori e i bambini della zona che mi conoscevano come Mwalimu e di tanto in tanto invitavano me e la mia squadra a casa loro.
La maggior parte degli studenti non frequentavano la scuola domenicale. Il pomeriggio facevano le loro cose, stavano nel compound e studiavano, quelli che abitavano nelle vicinanze andavano a casa, altri andavano alla valle per incontrare le Attraversiane. Questi ultimi, la sera, raccontavano le storie più affascinanti, quasi per tormentare noi della scuola domenicale su quanto ci eravamo persi. Di certo nessun racconto sull’insegnamento delle Sacre Scritture poteva averla vinta sulle avventure con le ninfe della famosa valle magica.
Nei giochi di squadra non eccellevo. La mia mancanza di coordinamento era quasi comica. Quando giocavo a calcio, la palla sembrava evitarmi deliberatamente o passarmi a fianco, quasi a prendersi gioco della mia gamba sollevata in aria. Il mio bastone da hockey mancava quasi sempre la palla. Riuscivo invece molto bene nei giochi da tavolo, sebbene non fossero al centro dell’ideale della Alliance. Per quanto fossero considerati semplicemente ricreativi, li trovavo formativi del carattere, della mente e dell’anima.
Facevo parte del club di scacchi fondato da David Martin nel 1950. Non provenendo da un sistema feudale, all’inizio trovai i personaggi medievali – in ordine discendente dal più al meno importante, re, regina, torre, alfiere, cavallo e pedone, tutti in difesa del re – astrusi e perfino confusivi. Ma una volta padroneggiate le regole, mi appassionai. Nicodemus Asinjo, ai miei tempi uno dei migliori scacchisti, riusciva a prevedere diverse mosse in anticipo. Aveva capito presto il potere del pedone. A volte sacrificava la regina per il pedone, con effetti devastanti per il suo avversario. Divenne una lezione di vita per me. Anche nelle persone più umili c’è un grande potenziale o, come dice il proverbio gikuju, la pioggia battente comincia con una goccia. Ma gli scacchi avevano pochi adepti rispetto agli altri sport. Per alcuni era troppo lento, per altri comportava un eccesso di pensiero e di calcolo mentale. Era un gioco di guerra e richiedeva resistenza e capacità di variare le tattiche all’interno di una visione strategica – proprio i motivi per cui a me piaceva.
Il tennis da tavolo, come chiamavamo il ping pong, era l’altro gioco in cui potevo ragionevolmente stare a testa alta. I più grandi campioni dei miei tempi erano Philip Ochieng e Stephen Swai. Erano artisti della racchetta. Al repertorio classico dei colpi – dritto, rovescio, loop, pallonetto, taglio sotto, topspin e schiacciata – univano velocità di gambe, e recuperavano la pallina da ogni lato, quale che fosse la sua velocità e la sua forza, ribattendola indietro con la disinvoltura arrogante dei campioni. Semplicemente usando le loro tattiche difensive, erano in grado di sfinire gli avversari. Non riuscivo mai a anticiparli e perdevo con loro molto più spesso di quanto vincessi. Quando si scontravano, anche i giocatori degli altri tavoli si fermavano per guardare due grandi artisti al culmine della loro capacità .
Ci si aspettava che ogni ragazzo partecipasse agli sport veri e propri come il calcio, l’hockey, la ginnastica e la pallavolo, e li prendesse sul serio quanto la cappella e lo studio in aula. Le competizioni all’interno della scuola e tra istituti assicuravano un grande coinvolgimento. Naturalmente i nostri corpi non erano tutti adatti allo stesso modo per ogni sport, ma quello che importava era partecipare. Perfino lo spettatore che applaudiva era parte integrante di ogni gioco. Carey Francis era uno degli spettatori più attivi, e lo vedevamo dare pugni per aria in segno di solidarietà con un giocatore o stringere i denti e battere i piedi per terra, quando un ragazzo della Alliance faceva un errore stupido. Sottolineava inoltre la necessità di essere leali e di condividere la palla, e non gli piacevano gli sfoghi di individualismo sul campo da calcio e da hockey. Nella vittoria voleva che mostrassimo umiltà e nella sconfitta che imparassimo lezioni utili per un successo futuro.
Le gare di atletica alla Alliance erano i gioielli della corona dell’educazione fisica, e le mie preferite sia come spettatore sia come partecipante. Mi piaceva l’estetica dei salti in alto e fin dalle elementari ero affascinato dalle gare di mezzofondo e di fondo. La narrativa, il ritmo e il pathos delle corse sui cento e duecento metri si concentravano in un tempo breve, come una storia finita prima ancora che se ne sia assaporato l’inizio. Ma le corse di mezzofondo e di fondo, dai diecimila metri alla maratona, erano come una lunga storia narrata e agita dal corridore con il suo corpo. Il racconto collettivo, il cui ritmo si dispiegava lentamente e gradualmente, dava allo spettatore il tempo di seguire le tattiche dei vari corridori, accrescendo l’attesa di quello che sarebbe accaduto dopo.
Rappresentavo poco gloriosamente la Livingstone House nella sezione juniores del salto in alto, ma sui diecimila metri più o meno me la cavavo. I diecimila metri erano una lotta continua fra il risoluto spirito della volontà e il persuasivo demone della resa. Lo appresi nella mia prima corsa campestre. Vi prendeva parte l’intera scuola. Nei primi metri corremmo tutti in un’unica massa. Ma mentre procedevamo lungo i pendii della Alliance, fra la valle e su per altri crinali e pianori, la folla dei concorrenti gradualmente si separò in gruppi. Io cercai di restare in quello di testa. Mi sentivo bravo, ero orgoglioso. Poi all’improvviso cominciai a sentire delle piccole voci interne che mi suggerivano di rallentare. La tentazione era forte, quasi paralizzante. Le ignoravo e loro tornavano sempre più insistenti, a mano a mano che ci avvicinavamo al traguardo. Finalmente cedetti al richiamo, rallentai e poi camminai, sperando che in questo modo mi sarei riposato e avrei dato nuova fiamma alla mia energia. Non fu così. Mi pareva che le gambe di colpo fossero diventate di piombo. Presto quasi tutti i gruppi che mi stavano dietro mi raggiunsero e superarono.
La Alliance era in competizione con molte scuole che in Kenya erano allora separate e adottavano parametri differenti. Non era facile confrontare le prestazioni educative attraverso le tre categorie razziali, per cui lo sport acquisì un valore simbolico, come unico modo di mettere a paragone le capacità . Ma la coscienza di classe rimaneva un fattore determinante in ogni incontro fra bianchi e neri, soprattutto nell’arena sportiva.
L’unica partita di calcio che mi restò impressa, sebbene ne fossi solo spettatore, non coinvolse neppure le scuole rivali: si trattò di un’amichevole fra la squadra della Alliance e un noto club europeo, i Caledonians. Giocavamo in casa...