AVVERTENZA
Il presente libro è frutto della rielaborazione del materiale di tre corsi di lezioni tenuti all’Università Statale di Milano tra il 1977 e il 1980. La rielaborazione è consistita in una drastica riduzione (in particolare della prima parte qui indicata con il titolo Semiotica) e in una riscrittura e suddivisione del testo in brevi paragrafi, al fine di agevolarne la lettura. La prima parte citata, sia per la maggiore sinteticità, sia perché essa riprende e sviluppa un itinerario in parte già avviato in un precedente libro1, è meno fedele al tono discorsivo del materiale originario di quanto lo siano le due parti successive (Cosmologia e Tecnica). È facile quindi prevedere che il Lettore incontrerà maggiori difficoltà di comprensione all’inizio. Confido però che l’orizzonte del segno e dell’interpretazione qui tracciato si rivelerà, nel corso della lettura, una chiave indispensabile e fruttuosa che merita qualche paziente fatica. Mi sia dunque consentito di rivolgere al bene intenzionato Lettore un caldo invito a non abbandonare il libro di fronte alle prime asperità concettuali; egli raccoglierà in seguito – ne sono certo – il frutto della sua generosa costanza, che si tradurrà anche nel gusto di una lettura più distesa e vivace. A questo fine, infatti, il libro è stato costruito, badando a evitare il peso della pura erudizione, delle continue note e del tecnicismo linguistico.
Ciò che qui è tentato è un’esperienza di pensiero che consenta di misurare un orizzonte e di scoprire come in esso noi siamo collocati, secondo un’implicita «pre-comprensione» che ci destina a essere quel che appunto siamo: uomini dell’Occidente metafisico e scientifico per i quali è essenziale e costitutivo lo sguardo psicostorico e la strategia di potenza della tecnica (del segno). Come vadano intese queste espressioni il cammino del libro dovrà mostrare; se riuscirà a farlo in modo chiaro e convincente, il suo scopo (e con ciò il suo significato) sarà raggiunto.
Non può dirsi però «terminato» il suo senso. Nel tracciare l’orizzonte perimetrale della propria collocazione, il discorso del libro indica e allude a un centro in movimento, a partire dal quale si illumina il circolo ruotante della sua parola. Il discorso del libro incarna dunque un segno della presenza di quell’evento centrale che intanto si sottrae e non si presenta. Sicché noi siamo condotti, sul filo del percorso dal segno al cosmo, dalla scrittura alla tecnica, sull’orlo di una deriva (storica) che, nel porsi e nel porci in questione, non lascia scorgere, se non per scorci rapidi e per immaginazioni improvvise quanto improprie, il polo di attrazione che la muove; esso, assegnandoci a un passato non ancora accaduto, ci invia a un futuro destinale già accaduto ma non ancora visibile. A questo polo di attrazione vien dato qui il nome di evento. Il cammino del libro, nel suo tentativo di passare, tramite il segno, oltre il segno, per lasciar scorgere l’evento (del segno), si arresta sulla soglia e, come diceva Heidegger, segna il passo. Ciò potrebbe «voler dire»: segna i contorni del passo carraio dell’«attimo» in cui si consuma la tradizione del tempo storico che ancora ci trattiene e che insieme ci sta dislocando in un nuovo spazio di interpretazione, nel luogo «eventuale» di una nuova «distanza» (dall’evento). Ma dell’evento, appunto, tutto resta ancora da dire.
Nell’ordinare e riscrivere il materiale dal quale è tratto il libro ho potuto misurare il debito che ho contratto verso gli studenti della Statale che in questi anni hanno seguito le mie lezioni e che mi hanno aiutato (quanto essi certo non immaginano) con la loro generosa partecipazione e con le loro genuine domande. Essi, naturalmente, non hanno responsabilità alcuna per le imperfezioni e la natura del risultato, e sono del tutto innocenti, se il loro professore ha passato il segno di ogni filosofica creanza. Ma io desidero qui ringraziarli della loro disponibilità umana e del sincero interesse dimostrato nei confronti della «cosa», ricordando, per tutti, i nomi di alcuni di loro, specialmente impegnati nella cura delle dispense e nel sollevare dialogiche questioni: Alessandro, Antonello, Cristina G. e Cristina Z., Enrico, Fabio, Marina, Rita, Rossella, Simonetta.
Così pure devo ricordare i miei giovani collaboratori, i dottori Paolo D’Alessandro e Anna Cazzullo; l’ammirevole impegno che hanno profuso in questi anni nel nostro comune lavoro scientifico e didattico ha rappresentato un aiuto per me prezioso e irrinunciabile. Che la mia gratitudine sia per essi il segno, inadeguato come tutti i segni, di una vicinanza mai compiutamente raggiunta, e tuttavia – proprio per ciò – meritevole di venir sempre di nuovo misurata e ripercorsa.
C. S.
1Riferimento a C. Sini, Semiotica e filosofia, il Mulino, Bologna 1978, ora in Opere, vol. I, tomo I: Lo spazio del segno, Jaca Book, Milano 2017.
I.1 Il luogo della parole. I.2 Il luogo del segno linguistico I.3 Lingua, pensiero, realtà. I.4 L’«in-essere». I.5 Senso dell’essere e pre-comprensione. I.6 Il carattere ermeneutico del Dasein. I.7 L’«essere-nel-mondo». I.8 L’analitica dell’esserci. I.9 L’indicare del segno. I.10 La misconosciuta essenzialità del problema del segno. I.11 La significatività e l’interpretazione. I.12 Il circolo ermeneutico. I.13 Segno, linguaggio e mondo. I.14 Problemi della linguistica. I.15 La glassy essence dell’uomo e del segno. I.16 La relazione segnica. I.17 Segno e realtà. I.18 I caratteri del segno. I.19 La faneroscopia. I.20 Le categorie faneroscopiche. I.21 Il movimento faneroscopico e il luogo del segno. I.22 Il luogo della realtà. I.23 La realtà e l’evento. I.24 I tre poli della relazione segnica e le loro partizioni. I.25 La coincidenza di verità e realtà. I.26 L’invio del segno. I.27 Nichilismo del senso e senso del nichilismo.
I.1
Il luogo della parole
Si è equivocato a lungo sulla opposizione tra sincronia e diacronia. È ormai noto che tale opposizione non va intesa come una contrapposizione tra ciò che sarebbe metastorico (o addirittura antistorico: il sistema, la legge, la struttura) e ciò che sarebbe storico (il mutamento, il divenire). Si è compreso che il problema del mutamento storico concerne al tempo stesso la struttura (il sistema) e l’evento, la langue e la parole. I segni linguistici, ha osservato giustamente De Mauro, sono caratterizzati da una «radicale storicità»; e lo stesso Saussure pensava che nella lingua tutto è «storico». La lingua, in senso lato, è la totalità di ciò che fanno i parlanti, la totalità degli eventi temporali delle paroles. Ma ciò che fanno i parlanti dà luogo a un sistema, a un «sapere», del quale invero essi non sono consapevoli e che tuttavia usano per potersi intendere. La lingua, in senso stretto, è perciò anche la totalità di ciò che, inconsapevolmente, sanno i parlanti.
I fatti sincronici sono generali, in quanto «semplice espressione di un ordine esistente», ordine che regola in maniera generale tutti i fatti linguistici relativi a uno stato di lingua. Non sono però imperativi, cioè non possono evitare che il mutamento si insinui di continuo nella lingua. I fatti diacronici, che invece non sono generali, sono «avvenimenti», eventi particolari che colpiscono questo o quell’aspetto della lingua. E tuttavia, pur non essendo generali, si impongono alla lingua in modo imperativo, così da costringerla a modificare la generalità delle sue leggi sistemiche.
Bisogna aggiungere che la diacronia colpisce sempre la parole: «Nella parole si trova il germe di tutti i cambiamenti», dice Saussure.
Qual è allora il «luogo» della parole?
La parole è fuori del sistema. Essa, nella sua libertà, è un evento fuori della struttura. D’altra parte la parole non può «accadere» senza la struttura della lingua. Essa è pronunziabile solo a partire da una lingua già costituita in modo sistemico e la sua eventuale novità costituisce a sua volta il punto di partenza per un nuovo sistema di lingua. Sicché il «luogo» della parole è come un punto senza dimensioni autonome tra due stati di lingua, tra due sincronie.
È proprio in questo nulla, in questo vuoto, in questa trasparenza o inconsistenza della autonomia della parole, che si verifica però il movimento, il mutamento tra stati di lingua storicamente successivi. È in questo non-luogo che ha luogo, di continuo, il movimento.
Si potrebbe parlare di ambiguità dell’evento linguistico, in quanto esso è fuori del sistema (visto che lo modifica con la sua irruzione) e insieme è sempre dentro la sistematicità della lingua in generale (senza la quale l’evento non ha né collocazione né identificazione possibili). Ma si deve soprattutto osservare che gli enigmi del linguaggio contengono gli enigmi della storicità dell’uomo.
Più propriamente: negli enigmi del linguaggio l’uomo «storico» si scontra con gli enigmi del suo stesso modo storico di esistenza.
I.2
Il luogo del segno linguistico
La lingua, in Saussure, è qualcosa di reale-non reale. Per Saussure gli elementi reali della lingua sono i valori linguistici. Sia sotto l’aspetto concettuale (il significato) sia sotto l’aspetto materiale (il significante) il valore linguistico è però un fenomeno puramente differenziale, e cioè formale. «Nella lingua non vi sono se non differenze». E si tratta di differenze «senza termini positivi», perché né idee né suoni preesistono al sistema linguistico.
I valori linguistici sono interamente «relativi»: nulla di esterno li determina (nulla di materiale per il significante, nulla di concettuale per il significato). Il valore linguistico è un luogo ideale che si determina all’interno del sistema. Esso è un nodo di relazioni: è ciò che è, in riferimento a tutti gli altri (per inclusione e insieme per esclusione di tutti gli altri, secondo la logica espressa dal Sofista di Platone e poi ripresa e conclusa dal sillogismo disgiuntivo hegeliano). Ogni valore, dice Saussure, ha la caratteristica di «essere ciò che gli altri non sono». Analogamente, il pezzo del cavallo nel gioco degli scacchi ha un valore, non per la materia di cui è fatto, non per ciò che la sua forma raffigura simbolicamente, ma in riferimento al valore degli altri pezzi (pedine, torri, alfieri, ecc.). E così per ogni pezzo.
Ora, poiché il segno linguistico è l’unione del significante e del significato, vediamo bene in che senso la lingua è reale-non reale. Ognun per sé, significante e significato, sono termini puramente differenziali e negativi; nulla di «positivo» li caratterizza. Ma la loro combinazione dà luogo a «qualcosa di positivo nel suo ordine», cioè al segno linguistico.
Ciò può apparire strano e contraddittorio solo a chi consideri il segno come la semplice somma del significante e del significato. Sorge allora la domanda: come due componenti negative possono generare, unite insieme, un fatto positivo? La domanda però rivela che noi pensiamo l’unione (di significante e significato) come una somma: zero + zero = uno. Ma il segno non è una semplice somma, perché il significante e il significato non preesistono al segno linguistico, ma si costituiscono in esso e per esso.
Ciò significa, come Saussure più volte sottolinea, che le due classi del significante e del significato sono in sé astratte.
Astratte da che? Dalla parole; se no da dove?
Ne deriva che il segno linguistico è un sistema di valori che sta nella parole. Il segno è un rapporto tra due ordini di differenze, cioè tra il significante e il significato, ognuno dei quali è a sua volta un fenomeno differenziale. Esso però non è un altro fatto (fonico, grafico, concettuale) accanto ai fatti della parole, ma è il valore della e nella parole. Il segno è quel valore per il quale una parole è tale ed è resa possibile come tale. Esso, facendo tutt’uno con lei, costituisce la totalità implicita di «ciò che sappiamo» nella parole, cioè costituisce la lingua implicita nella parole concretamente parlata. Estraendo dalla parole concretamente parlata le sue due componenti astratte del significante e del significato e esibendole come componenti ideali del valore totale del segno linguistico, si vede appunto che la parole ha un valore (e cioè è un segno linguistico) e che tale valore è di natura differenziale (indica un luogo, a esclusione di tutti gli altri, nella catena dei suoni e dei significati i quali, tutti insieme e sistematicamente, costituiscono la lingua). Perciò, come dice Saussure, la lingua è una forma, e non una sostanza. Una forma però che è «qualcosa di positivo nel suo ordine».
Dobbiamo concludere che il segno linguistico ha il suo luogo nella parole. Ma la parole, a sua volta, è un non-luogo che ha il suo luogo proprio nel segno: è il segno che conferisce appunto alla parole un valore linguistico. Ma anche il segno linguistico è, a suo modo, un non-luogo. Da qualunque parte lo si consideri quel «qualcosa di positivo nel suo ordine» che è la lingua si rivela, per dir così, reale-non reale.
«Per dir così»: cioè per dire come? Da quale luogo parliamo?
I.3
Lingua, pensiero, realtà
In che senso è «reale» la lingua? La domanda non è soltanto inquietante; è «impossibile».
La lingua, dice Saussure, è «il regno delle articolazioni». Come fatto semiologico essa è un fenomeno originario. Il pensiero non si articola prima del linguaggio, assumendo poi i termini linguistici (certe porzioni foniche) come veicoli espressivi del pensiero. I termini linguistici non sono un mezzo fisico, materiale, per esprimere idee, perché le idee non ci sono prima, e non ci sono neppure i significanti linguistici. Né idee né suoni preesistono al sistema linguistico ed è vero piuttosto il contrario: è il linguaggio che articola il pensiero (e i suoni linguistici).
Non è però possibile fermarsi a questo punto; bisogna procedere oltre e trarre un’ulteriore conseguenza. Bisogna cioè riconoscere che è il linguaggio che articola la realtà. Saussure non si curò di «vedere» questa conclusione, che pure derivava dal suo discorso. Qualcosa ne vide Hjelmslev, ma entrambi, come linguisti, non erano in grado di afferrare il senso profondo del problema.
Ciò nondimeno, Saussure si è espresso filosoficamente in modo assai «compromettente». Egli ha scritto: «Preso in se stesso il pensiero è come una nebulosa in cui niente è necessariamente delimitato. Non vi sono idee prestabilite, e niente è distinto prima dell’apparizione della lingua». D’altro canto, anche la sostanza fonica «non è né più fis...