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La digitalizzazione del lavoro

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La digitalizzazione del lavoro

About this book

Le tecnologie digitali rappresentano una sfida dal punto di vista della loro interpretazione teorica. L'umanità si trova di fronte ad un passaggio storico o il quadro rappresenta l'«evoluzione» di una tendenza che non modifica il senso dei processi? Le trasformaCi sono passaggi della storia in cui si aprono scenari che vanno oltre le generazioni in vita. L'invenzione della scrittura, la messa a punto del metodo scientifico, l'uso dell'elettricità, sono esempi di tali discontinuità che, pur «dirompenti», nell'epoca della loro introduzione non furono percepite come «punti di non ritorno». zioni nella produzione e nel lavoro rappresentano il luogo privilegiato per comprenderne il senso. Il libro affronta il nodo di questo dibattito con un vero e proprio confronto teorico tra letture diverse, e in parte divergenti, delle conseguenti necessità per la politica e l'agire umano. Bellucci descrive il passaggio come epocale da una formazione economico-sociale ad un'altra, una Transizione. Per l'autore è in atto una vera e propria «rottura di civiltà e di senso», come quella che segnò il tragitto dall'era della società agricola a quella della società industriale. I contributi degli altri autori ingaggiano un confronto teorico che rimane aperto e darà al lettore strumenti per maturare la propria idea sul passaggio storico.

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Information

RETE E ORDO-MACCHINISMO

Lelio Demichelis

Ammettiamolo: tutti noi che ci occupiamo di tecnica, di capitalismo e di neoliberalismo (neoliberismo e ordoliberalismo) e delle conseguenti trasformazioni avvenute nell’organizzazione del lavoro e della vita umana, siamo in debito culturale/intellettuale con Sergio Bellucci e con il suo E-work. Anche se tra la nostra interpretazione dei processi intervenuti e della trasformazione o Transizione che sarebbe in atto e la sua vi sono alcune differenze importanti pur in una condivisione di fondo: la prima è quella della discontinuità (Bellucci, 2005) o continuità (chi scrive) tra pre-digitale e digitale. Ovvero, per noi non vi è alcuna reale (ma apparente sì – infra, il concetto di nuovo) discontinuità storica: non siamo in una rivoluzione digitale ma solo nella forma digitalizzata di una unica rivoluzione industriale iniziata a metà ’700. Ma soprattutto, siamo sempre più dentro al tecno-capitalismo diventato ormai una antropologia, una ontologia, una teologia e una teleologia/determinismo (non ci sarebbero alternative) e non solo un sistema produttivo e di consumo. Dove appunto ad essere messa a valore è la vita intera dell’uomo e insieme la vita intera è formattata e incessantemente resettata in senso tecnico e capitalistico. Ed è appunto la consapevolezza che questa è solo la nuova fase digitale del tecno-capitalismo di sempre e quindi la consapevolezza delle sue ascendenze ottocentesche e novecentesche che manca, vedendo discontinuità dove (secondo noi) c’è invece continuità: tanto è vero che usiamo concetti come taylorismo digitale per definire l’organizzazione del lavoro anche nell’Industria 4.0 e nelle piattaforme (ma, date le reali condizioni di lavoro potremmo anche togliere l’aggettivo, essendo purissimo taylorismo l’organizzazione del lavoro anche nel mondo digitale).
E se oggi le informazioni (e le relazioni che generano informazioni) sono la base per il fare digitalizzato e soprattutto per il far fare – ossia sono divenute una merce tra le merci nel sistema capitalistico delle merci, per di più ad alto tasso di valorizzazione capitalistica, in realtà è la vita intera ad essere divenuta merce, messa a crescente pluslavoro per il plusvalore del capitalista che da essa (e oggi anche dal lavoro implicito in tutte le sue possibili declinazioni, che a sua volta è una delle possibili forme di pluslavoro del vecchio/nuovo lavoro a domicilio), estrae sempre maggiore profitto per sé. Per cui la classica formula D-M-D’ (che si affianca al D-D’ della finanziarizzazione, cioè della produzione di denaro a mezzo di denaro) va ora meglio specificata (semplificando molto) in D-M(V)-D’ – dove la M è appunto oggi la vita intera dell’uomo (relazioni, informazioni, sentimenti, emozioni, e quant’altro) diventata merce. Avere tradotto anche le informazioni ma soprattutto la vita (di cui le informazioni sono una componente) in merce e in forza lavoro-merce a pluslavoro incessante e crescente, dimostra solo che il tecno-capitalismo va a cercare il profitto ovunque la tecnica glielo permetta; e se ieri c’era la fabbrica fordista-taylorista oggi vi è la fabbrica-rete-fordista-taylorista. Per questo continuiamo a usare concetti e paradigmi interpretativi otto-novecenteschi: perché il tecno-capitalismo è sempre (apparentemente) diverso ma sempre (sostanzialmente) uguale, portandolo a mettere infine a pluslavoro non solo un lavoro distinto dalla vita, come ieri, ma una vita indistinta dal lavoro.
Analogamente riteniamo che i processi di matematizzazione (legati alle informazioni, ma non solo) non siano cosa recente, ma risalgano almeno al positivismo ottocentesco (se non alla rivoluzione scientifica) e poi al pragmatismo americano novecentesco e a tutta quella (falsa) razionalità strumentale/calcolante-industriale (ancora la Scuola di Francoforte, più attuale che mai). Razionalità irrazionale (secondo Marcuse e Horkheimer) e anti-illuministica che è il vero pensiero unico della modernità e che ha permesso al tecno-capitalismo di essere sempre più una antropologia, una ontologia/teologia/teleologia totalitaria. E così pure come siamo convinti che i processi di esternalizzazione del lavoro/lean production di questi ultimi anni grazie alla rete/piattaforme abbiano la loro premessa nella esternalizzazione produttiva/lean production degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: quando le retoriche dominanti erano tutte centrate sulla virtuosità a prescindere del piccolo è bello e dei distretti industriali e del capitalismo molecolare ben analizzato da Bonomi – e oggi diciamo auto-imprenditorialità ma il meccanismo è assolutamente identico, la differenza è nel mezzo di connessione usato per integrare quelle che allora avevamo definito imprese non libere e indipendenti del capitalismo molecolare/diffuso, ma subordinate e dipendenti dai committenti, così come oggi i rider/falsi lavoratori autonomi o i lavoratori uberizzati sono in realtà subordinati e dipendenti dall’impresa-madre/committente-capofiliera in quel distretto globale che è appunto la rete dove tutti sono al lavoro e sincronizzati con gli altri e tutti lavorano coordinati dalla rete/algoritmo. E ricordiamo di passaggio che già Henry Ford, cento anni fa, aveva capito che più che accentrare è meglio “dirigere numerose piccole unità produttive, da una maggiore unità amministrativa, perché una amministrazione efficiente si basa sulle registrazioni, sulla progettazione, sullo studio delle operazioni e su buoni sistemi di comunicazione e non necessariamente sulla possibilità di supervisione diretta e locale”: e oggi le registrazioni/informazioni sono su hard disk o cloud e digitalizzate, le operazioni progettate sono definite dall’Industria 4.0 o dal WCM o dal management algoritmico e il buon sistema di comunicazione è appunto la rete/algoritmi/AI, eccetera.

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Ma andiamo con ordine. Da allora sono passati quindici anni e ciò che Bellucci analizzava e spiegava si è accentuato, aggravato, approfondito, evoluto o più spesso (nella nostra lettura né tecnofoba né tecnofila, ma critica) involuto. Ovvero, l’innovazione tecnologica non sempre ci fa andare avanti e oggi ci fa soprattutto tornare indietro quanto a diritti del lavoro e a scomposizione della rappresentanza del lavoro (e al diritto al lavoro), ma anche in termini di democrazia, libertà, responsabilità. Ripensiamo ad esempio – tra i molti analizzati e sviluppati da Bellucci – i concetti (di nuovo) di taylorismo digitale e di “taylorismo integrale e integrante, un taylorismo integralista perché consapevole di avere conquistato terreno fino alla stessa produzione di linguaggio” (2005, p. 63); di fabbrica-mondo (ivi, pp. 80 e 102) che oggi è diventata – nella nostra ri-definizione del 2008 – la fabbrica-rete o la rete come nuova catena di montaggio, posto che da allora e sempre più “la parcellizzazione viene ripensata come la possibilità di congiungere il ciclo, ovunque i suoi pezzi siano ubicati (de-spazializzazione)” (ivi, p. 57); di lavoro implicito che oggi comprende soprattutto (anch’esso a produttività/mobilitazione totale globale e crescente) il lavoro di produzione di dati. Nel frattempo, sono arrivati: il capitalismo delle piattaforme (e l’uberizzazione del lavoro e la sharing/gig economy); i social; l’apprendimento automatico/machine learning-deep learning; la fabbrica/industria ancora più integrata 4.0 e just in sequence; l’IoT; la I.A. e le smart-cities e lo smart-working. Su tutto, gli algoritmi: diventati una presenza pervasiva, invisibile ma potentissima quanto a biopotere (usando Foucault) o ad amministrazione e automatizzazione (usando la Scuola di Francoforte) della vita umana. Con gli algoritmi arrivando a quello che Shoshana Zuboff ha definito capitalismo della sorveglianza ma che in realtà esiste da sempre (Demichelis, 2019) – il controllo essendo implicito nella forma e nella norma organizzativa del tecno-capitalismo da quando esiste la rivoluzione industriale (anche qui, i concetti del passato sono utili e necessari per capire il nuovo apparente): semmai oggi è solo aumentata la capacità del tecno-capitalismo di estrarre valore immediato e non solo mediato come in passato, dal controllo/spionaggio di massa (pensiamo alle 300mila schedature politiche alla Fiat negli anni ’50 e ’60, che avevano fatto scandalo; e ai 2-3 miliardi di persone spiate/profilate oggi via rete, senza scandalo alcuno). E grazie al controllo, è aumentata la capacità di produrre la modificazione comporta-mentale automatizzata delle condotte umane (da ultimo, Sadin, 2019, pp. 132 ss.). Influenzandole, guidandole, determinandole in modo eteronomo. Dove per ingegnerizzazione dei comportamenti (di lavoro e di consumo, di produzione del consenso per il sistema) si deve intendere la costruzione (via struttura e sovrastruttura, educazione e formazione, soprattutto mass media) di una personalità funzionale al funzionamento del sistema. Scriveva, negli anni ’30 del ’900 il neoliberale statunitense Walter Lippmann (1889-1974): il neoliberalismo “è l’unica filosofia che possa condurre all’adeguamento della società umana alla mutazione industriale e commerciale fondata sulla divisione del lavoro”, che a sua volta è un dato storico che non può essere modificato. Quindi: “Il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo; e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso”. Conseguentemente, per i neoliberali i problemi delle società moderne sorgono soloquando l’ordinamento sociale si sfasa e si disarmonizza rispetto alle esigenze della divisione del lavoro”, mentre l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico (cit. in Dardot e Laval, 2013-2019). E quindi l’individuo neoliberale non è più soggetto della propria vita ma diviene oggetto di una continua costruzione eteronoma di sé (appunto definibile e definito come human engineering), dal fordismo ...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. AI-Work – Il lavoro dopo il digitale
  6. Contributi
  7. Schiavi della libertà
  8. Rete e ordo-macchinismo
  9. “Cinque pezzi facili” sull’innovazione digitale
  10. Dal gorilla ammaestrato al campione mondiale di Go
  11. La disoccupazione tecnologica tra Ascholia e scholè: Un confronto tra J.M. Keynes, B. Russell E Aristotele
  12. Qualità dei lavori e relazioni industriali: Continuità e cambiamento
  13. L’impatto di Industria 4.0 sul lavoro
  14. Il mito della piena automazione
  15. Nostalgia del capitalismo
  16. Appunti per un’ecosofia cibernetica
  17. Il ‘quinto stato’ nell’era digitale. Reti di città e reddito di base oltre il collasso del sociale
  18. Il lavoro alla prova dell’economia della conoscenza. Tra digitale e innovazione sociale
  19. Gli Autori