Il 4 ottobre 1965, Paolo VI visita le Nazioni Unite. È il primo papa a compiere questo passo. Lo faranno, successivamente, Giovanni Paolo II per due volte, Benedetto XVI e Francesco. Ma, in quel 1965, la visita è davvero una grande novità . Il papa prende la parola davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui siedono 117 governi. Davanti a loro, Montini rappresenta «la figura tipica del papa dei tempi nuovi», come ha scritto un suo collaboratore, il card. Martin1. Paolo VI è consapevole della novità del gesto, come confida in un lungo colloquio con l’inviato del «Corriere della Sera», Alberto Cavallari, proprio alla vigilia della partenza per New York. Si tratta della prima intervista rilasciata da un papa. Anche questa è una novità che Montini vuole marcare prima del viaggio: lasciarsi interrogare e rispondere sul maggior quotidiano italiano. Paolo VI ha il gusto dei gesti simbolici, che studia con attenzione. Vuole presentare la Chiesa in modo aperto e simpatetico con il mondo moderno e le sue istituzioni.
Alberto Cavallari, giornalista di grande esperienza e futuro direttore del «Corriere», così descrive Paolo VI: «un uomo del suo tempo, non desideroso del gesto facile, ma del discorso privo d’effetti; cosciente che il suo tempo comporta solitudini, dubbio, contraddizione, interrogazione, e il coraggio impopolare di esprimerli; un papa insomma che conosce la situazione storica in cui si muove…»2. Il papa parla a lungo con Cavallari nella sua biblioteca privata in Vaticano: «Bisogna essere semplici e avveduti… cogliere il senso degli anni che stiamo vivendo»3. L’inviato del «Corriere della Sera» registra i sentimenti del papa, alla vigilia di un passo importante per la Chiesa cattolica, la visita a New York.
Per Paolo VI, la Chiesa si deve aprire al dialogo con le donne e gli uomini contemporanei: «Molti si chiedono il perché del dialogo… Il problema vero è che la Chiesa si apre al mondo e trova un mondo che in gran parte non crede». La Chiesa non può più essere introversa: «vuole diventare poliedrica per riflettere meglio il mondo contemporaneo» – così afferma il papa. Proprio in questa prospettiva si colloca il viaggio all’ONU, un evento di grande portata e un fatto simbolico:
«Ma per la prima volta – dice Paolo VI a Cavallari – i capi di tutto il mondo riuniti vogliono ascoltare la parola del rappresentante di Cristo, e noi non possiamo non fare questo viaggio. Così mettiamo il mantello del pellegrino… Dovremo fare come dice il salmo, sa. Loquebar in conspectu regum et non confundebar: parlerai ai re e non ti confonderai. Ma chissà se noi riusciremo a cavarcela bene o male davanti a tanta gente importante»4.
Paolo VI sente la novità del passo che sta per compiere e le opportunità che esso apre. Si nota anche una qualche emozione per un incontro e un viaggio che appaiono inusuali nel tradizionale protocollo di contatti del capo della Chiesa cattolica. È un rischio per Paolo VI, che esce dal quadro degli incontri consueti. Aveva già compiuto due viaggi importanti, in Terra Santa e in India, ma questo è una vera novità : il papa va all’ONU su un terreno particolare e per lui inedito. Per realizzare il viaggio, deve superare le difficoltà legate alla tradizione. Intende anche esprimere la coscienza della Chiesa che non ha paura di cambiare, pur di incontrare il «mondo» e i suoi rappresentanti. L’atteggiamento di fondo è quello che Paolo VI esprime nel discorso di chiusura del Vaticano II, due mesi dopo la visita all’ONU, parlando del Concilio: «L’antica storia del buon samaritano è stato il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso»5.
Il viaggio è brevissimo: solo trentadue ore. L’immagine-simbolo di tutto il viaggio è il papa che parla alla tribuna dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. Così lo descrive il card. Achille Silvestrini, grande personalità vaticana degli anni di Giovanni Paolo II e, nel 1965, minutante nella sezione internazionale della Segreteria di Stato: «Papa Montini si presentò di fronte ai rappresentanti di 115 Stati in maniera molto semplice, un uomo fragile vestito di bianco, senza insegne se non la sua piccola croce d’oro»6. Quanti sono riuniti a Roma per il Concilio, vescovi, teologi, giornalisti, sentono l’importanza dell’evento. Un corrispondente francese, l’assunzionista Antoine Wenger, attento osservatore delle vicende vaticane, osserva: il papa «mai ci è apparso così fragile e così grande allo stesso tempo»7.
C’è anche un altro aspetto del viaggio, che molti commentatori quasi ignorano: l’incontro con i cattolici americani nella loro terra (il primo di un papa) e i contatti con le autorità politiche degli Stati Uniti, tra cui il presidente Lyndon Johnson. Tra l’altro, in tutto il mondo, si può seguire l’allocuzione di Paolo VI all’ONU in diretta alla televisione, tramite il satellite Telstar. Il fatto suscita stupore ed emozione; sembra la conferma di un tempo nuovo, in cui il mondo è divenuto ormai «villaggio globale», secondo l’intuizione di McLuhan. In realtà il mondo si trova ancora diviso dalla guerra fredda, nonostante alcuni processi di distensione. È a questo mondo che Paolo VI vuole parlare dalla tribuna dell’ONU, dove propone un futuro più fraterno e pacificato. Infatti, dopo questo viaggio, Paolo VI confida al suo amico Jean Guitton: «… in questo tempo tutto si ricollega meravigliosamente, drammaticamente. Ragione in più perché il papa si sposti, perché il suo ministero di carità , di udienza universale simbolizzi il legame che ormai unisce tutte le cose»8.
Il messaggio di un «popolo» particolare alle nazioni
Il discorso di Paolo VI è il manifesto di una nuova visione della diplomazia del papa e della Santa Sede. Si utilizza l’espressione «diplomazia» per intendere la collocazione del papa e della Santa Sede tra i popoli e i governi, e le relazioni con essi. Paolo VI, con il suo discorso, dà un’indicazione nuova per l’azione della Chiesa cattolica sulla scena internazionale, non soltanto nell’immediato, ma nei decenni a venire. Propone una rinnovata funzione della Chiesa tra gli Stati. Ma non solo. La Santa Sede vuole investire sull’ONU, nonostante le difficoltà , e sulla diplomazia multilaterale.
Il discorso alle Nazioni Unite è la proposta «politica» di Paolo VI, un papa che aveva conosciuto i due conflitti mondiali. Nell’ultimo era stato stretto collaboratore di Pio XII, condividendo difficoltà e ristrettezze dell’osservatorio vaticano nel cuore del conflitto. Giovanni Battista Montini era stato anche testimone della solitudine della Chiesa, nel secondo dopoguerra e poi nel quadro della guerra fredda. Il Vaticano di Pio XII si era sentito isolato nella sua ricerca della pace nel cuore del conflitto. Nel secondo dopoguerra pesava l’assenza di rapporti con i regimi comunisti, mentre la persecuzione antireligiosa ad Est aveva schiacciato la Santa Sede sul campo occidentale.
La propaganda sovietica e comunista aveva descritto il papa come «cappellano del dollaro», rappresentando la Chiesa come subordinata agli interessi occidentali. La diplomazia vaticana aveva avuto, in questo quadro, uno spazio molto ridotto. Il Vaticano, di fatto, era stato – o almeno era stato considerato – parte dell’Occidente. La sua «imparzialità » (a cui la Chiesa tanto teneva da sempre) non era riconosciuta dai paesi comunisti, anzi era fortemente contestata da essi9.
Solo con Giovanni XXIII, grazie ad alcuni puntuali interventi, la Chiesa aveva cominciato ad essere percepita come «terza» e imparziale nel conflitto tra Est e Ovest. È il caso della crisi di Cuba nel 1961, in cui l’intervento del papa aveva prospettato la via per uscire dall’impasse internazionale tra Stati Uniti e Unione Sovietica che stava portando al conflitto10. Ma erano stati soltanto alcuni passi iniziali. Il clima con l’Est comunista restava teso e difficile.
In realtà , negli anni Sessanta, andava cambiando lo scenario internazionale, nonostante il perdurare della guerra fredda: si affermava il movimento dei non allineati con l’indipendenza di quasi tutti i paesi ex coloniali. U Thant, che aveva invitato il papa all’ONU, era stato segretario della conferenza afro-asiatica di Bandung nel 1955, che sembrava precostituire una posizione internazionale intermedia tra i due blocchi11. Quasi negli stessi giorni in cui Paolo VI visita le Nazioni Unite, si tiene al Cairo la conferenza dei paesi non allineati, che raccoglie 46 Stati, tra cui molti africani quasi tutti di recente indipendenza. Il mondo dei non allineati è seguito con molto interesse dalla Santa Sede, che moltiplica le sue rappresentanze diplomatiche in questi paesi. Sembra che la rigidità della guerra fredda possa in parte sciogliersi con il profilarsi di una posizione terza tra i due blocchi. D’altra parte il Vaticano aveva intrapreso, con Giovanni XXIII prima e con Paolo VI poi, una nuova politica verso i regimi dell’Est, che avrebbe dato qualche risultato nel tempo, con un significativo cambiamento d’indirizzo rispetto ai tempi di Pio XII12. Paolo VI, di fronte a uno scenario internazionale in cui si intravedevano alcune novità , intendeva manifestare la nuova collocazione della Chiesa: aperta al contatto e al dialogo con tutti, non appartenente a nessuno schieramento.
La novità del discorso di Paolo VI non è però solo nella relazione con gli altri. Il rinnovamento viene anche dal processo di «aggiornamento» (parola evocativa nel linguaggio conciliare) in corso nel cattolicesimo con il Concilio Vaticano II. Con la visita all’ONU, a vent’anni dalla fondazione dell’organizzazione, il papa, da poco eletto, presenta la Chiesa in modo nuovo, al culmine del suo processo di aggiornamento.
Il papa non va a New York da solo. È accompagnato al Palazzo di Vetro da sette cardinali, oltre al Segretario di Stato, Cicognani, per lunghi anni delegato apostolico a Washington. Partono da Roma con lui il decano dei cardinali, il francese Tisserant; l’armeno Agagianian (nato nell’Armenia sovietica, la cui sorella era cittadina dell’URSS); l’australiano Gilroy; un argentino, l’anziano Caggiano; il giapponese Tatsuo Doi, e uno del Tanganyka, Rugambwa, il primo porporato africano. Si aggiunge alla delegazione, a New York, il card. Spellman, arcivescovo della città .
I sette cardinali intendono rappresentare l’universalità del cattolicesimo, riunito in Concilio. Manifestano il carattere «internazionale» della Chiesa cattolica che si rivolge, tramite il papa, al più alto consesso delle nazioni. Sono testimoni della complessità del «popolo» cattolico, che vive in tanti luoghi, ma ha una voce particolare, quella del papa. I nomi dei sette cardinali sono comunicati ufficialmente durante i lavori conciliari, espressamente come delegazione del Vaticano II che accompagna il papa, e ricevono l’applauso dei padri13. E il Concilio rappresenta la pienezza dell’universalità della Chiesa. Simbolicamente è tutto il Concilio (e il popolo cattolico ovunque vivente) che accompagna il papa.
Paolo VI, prima di partire, indirizza sette messaggi ai cattolici di varie aree della terra, che corrispondono alle aree di provenienza dei cardinali che lo accompagnano; vuole così sottolineare il carattere universale della delegazione, manifestando che è con lui l’intera Chiesa cattolica. Il papa intende parlare anche a nome dei popoli della terra, dando voce a esigenze a cui i governi prestano scarso ascolto. È forse interessante notare come i messaggi del papa indicano l’articolazione dei «mondi», come li vede il capo del cattolicesimo, che non corrisp...