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VORTICI DEL SAPERE E DELLA COSA
Introduzione
Uso e comprensione
Di continuo usiamo le cose, senza davvero curarci di comprenderle. Le usiamo «automaticamente», senza fare attenzione. Infatti siamo tutti, in un certo senso, «automi culturali», come ho sostenuto nel libro L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri, Torino 2009). Usiamo le cose senza mai chiederci: da dove vengono le cose? E, ancora prima, che cosa sono? Come sono fatte? In un certo senso usiamo il mondo, senza chiederci se non sia il mondo a usare noi e a renderci così come siamo, come siamo «fatti».
Supponiamo allora di volgere l’attenzione al comprendere: ma può accadere un usare e un comprendere che siano simultanei? In effetti usiamo questo dire per comprenderci, punto importante che mostrerà la sua rilevanza molto più avanti: di solito invece non ci facciamo caso. Molto più radicato è in noi l’uso inconsapevole (delle cose, del mondo), un uso non reso tematico (come potrebbe dire Husserl). Certamente è così, ma nel contempo anche un’altra cosa, in questo nostro riflettere, viene in luce, ed è il fatto che per comprendere devi già usare (per esempio il discorso, come si accennava sopra). In principio è l’azione, diceva appunto Husserl, citando Goethe. In effetti è proprio l’uso, o una qualche forma di uso, che apre la comprensione.
E allora chiedo: 1) È possibile rendere davvero tematica la comprensione presa in sé, se il farlo comporta già un qualche uso non tematico? 2) Perché poi questo desiderio, questa volontà di rendere tematica la comprensione? Comincio da questa seconda domanda.
Che significa che a un certo punto emerga in noi la consapevolezza della differenza tra uso e comprensione? In generale significa che quella simultaneità irriflessa di uso e comprensione, cui sempre ci affidiamo, diventa problematica. Il fatto è che mentre uso il mondo non comprendo né il mondo, né il mio uso, né il suo come, il suo senso e il suo perché.
Per altro verso potrei però anche dire: è proprio l’uso che, nella sua automatica imposizione, fornisce un certo modo di comprendere; ma quale tipo di comprensione? La comprensione della marionetta delle Leggi di Platone, che ognuno anzitutto anche è1. È l’uso dunque a determinare il mio modo di comprendere: quell’uso che nasce dall’evoluzione della specie, dall’educazione, dalla società, dall’economia, dalla geografia, dal lavoro ecc. L’uso mi governa, governa la mia comprensione del mondo, ma non ne sono consapevole, non ci ho magari mai riflettuto. E così vado in giro dichiarando con fierezza che «ho le mie idee, per esempio in fatto di religione» (ma senza internet e telefonino non so più cosa pensare…). Molti di noi sono infatti contenti di dire, e di sentirsi dire, quel che in generale si dice, si pensa e si fa, senza alcuna autocritica. Siamo, come dice Borges, semplici pedine sulla Scacchiera.
I
I giocatori, nel grave cantone,
guidano i lenti pezzi. La scacchiera
fino al mattino li incatena all’arduo
riquadro dove s’odian due colori.
Raggiano in esso magici rigori
le forme: torre omerica, leggero
cavallo, armata regina, re estremo,
alfiere obliquo, aggressive pedine.
I giocatori si separeranno,
li ridurrà in polvere il tempo, e il rito
antico troverà nuovi fedeli.
Accesa nell’Oriente, questa guerra
ha oggi il mondo per anfiteatro.
Come l’altro, è infinito questo gioco.
II
Lieve re, sbieco alfiere, irriducibile
Donna, pedina astuta, torre eretta,
sparsi sul nero e il bianco del cammino
cercano e danno la battaglia armata.
Non sanno che la mano destinata
del giocatore conduce la sorte,
non sanno che un rigore adamantino
governa il loro arbitrio di prigioni.
Ma anche il giocatore è prigioniero
(Omar afferma) di un’altra scacchiera
di nere notti e di bianche giornate.
Dio muove il giocatore, questi il pezzo.
Quale dio dietro Dio la trama ordisce
di tempo e polvere, sogno e agonia?2
Chi, allora, davvero parla e scrive qui (chiede la pedina che io sono)? Se non me lo chiedessi e non cercassi di venirne in chiaro, la mia anima filosofica e occidentale sento che protesterebbe e che protesta. Ma da dove viene quest’anima stessa? A quale destino, direbbe l’islamico Omar, è anch’essa soggetta?
Veniamo ora alla prima domanda: si può rendere tematica la comprensione senza ricadere in qualche uso inconsapevole? La domanda implica evidentemente che comprendere equivalga o si accompagni a «rendere tematico» (ma è poi così?). In ogni caso la comprensione sembra chiedere di mettere lì davanti la cosa «comprensione», di renderla «oggetto» di fronte (Gegenstand) a noi.
Ma il mettere lì davanti, abbiamo detto, è aperto appunto dall’uso, poiché è ancora l’uso che simultaneamente comprende, così come comprende o è destinato a comprendere. È la natura comprendente dell’uso che si tratterebbe allora di descrivere e di definire. Ma ciò ovviamente implicherebbe un uso ulteriore, per esempio la disponibilità logica di «categorie», e siamo da capo. Il proposito di rendere tematica la comprensione in se stessa, però simultaneamente all’uso che la pone in atto, è illusorio e irrealizzabile.
«Simultaneamente»: che cosa dice questa parola a noi «automi culturali» che la usiamo senza riflettere?
Simultaneo viene dal latino medievale simultaneus che è a sua volta un incrocio di simul (insieme) col tardo latino momentaneus. Il latino simul è l’antico neutro di similis, irrigidito come avverbio («similmente»).
Simile viene dal latino similis, forma assimilata di un antico semilis, dalla radice SEM (= unico, sem-plice), presente nelle aree germanica (cfr. l’inglese same), greca (homós), indo-iranica, slava. Ampliata con l’elemento ‘l’ nell’area greca e celtica (homalós). Nota bene: simile, cioè unico.
E così la simultaneità (o la cosa simultaneità) governa la parola ‘simultaneità’ in forma autoreferenziale. Risuonano in questa parola voci arcaiche, medievali e moderne, popolari e letterarie, d’uso corrente e d’uso inconsueto: tutto questo risuona «insieme» per ripetuta «somiglianza», nella «momentanea» pronuncia della parola, facendo di questa semplice parola qualcosa di unico e insieme di complesso. Aggiungici il lavoro secolare dei filologi, che ci hanno aperto «simultaneamente» la via.
La natura di ciò che è «simultaneo» andrà tenuta presente per l’intero cammino che ci aspetta. Nel contempo però osserviamo anche questo: che la simultaneità di cui parliamo è il destino implicito di ogni parola, perché ogni parola è così fatta e reca in sé una storia sterminata, di migliaia e migliaia d’anni. Di qui il senso vichiano della filologia: un lavoro che si colloca idealmente fuori del tempo per abbracciare tutto il tempo3. Vicende innumerevoli sono infatti iscritte in una parola. Ogni parola è uno di molti, ovvero parte di un tutto. Ogni parola racchiude ed esprime una profonda «simultaneità», perché è il punto d’incontro della vita e del sapere, il punto di «condensazione» massimamente «reale».
Averlo detto non equivale però ad averlo davvero compreso. Abbiamo solo disposto i pezzi sulla scacchiera.
Parte prima
La cosa
Come ogni parola, anche ogni cosa è il nodo simultaneo dell’uno e dei molti.
Si potrebbe dire che la cosa come sintesi del molteplice è il tema fondamentale e costante della interrogazione filosofica e del sapere scientifico. La domanda si potrebbe formulare anche così: che cosa è «reale»? Da Aristotele a Locke, da Kant a Heidegger chiarire la simultaneità profonda dell’uno e dei molti che caratterizza il modo d’essere delle cose, l’unità sostanziale che è anche molteplicità di aspetti, che è un insieme unico e simultaneo di somiglianze, dovrebbe aprirci alla comprensione autentica delle cose, di quelle cose che continuamente «usiamo».
Cerchiamo di animare per accenni i tratti essenziali di questo cammino, muovendo dalla fondamentale domanda aristotelica: ti to on? Che è l’ente, l’essente, in quanto tale? È però necessaria una riflessione preliminare.
L’esposizione storiografica del pensiero di Aristotele, che ha dietro di sé anche secoli di virtuoso lavoro filologico, in sostanza usa Aristotele per comprendere Aristotele, spiega Aristotele con Aristotele. Questo inavvertitamente accade perché la rivoluzione operata dagli scritti di Aristotele ha stabilito la fisionomia essenziale dell’uomo occidentale che ancora siamo, unitamente alla rivoluzione Scolastica di Tommaso (donde quella mentalità comune dell’uomo in quanto tale, o uomo universa...