Tempi (retro)moderni
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Il lavoro nella fabbrica-rete

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Tempi (retro)moderni

Il lavoro nella fabbrica-rete

About this book

Dire che il sindacato è in crisi sembra essere diventato un luogo comune e molti si spingono a immaginare addirittura una società post-sindacale. Sindacati, partiti politici, società civile (di cui il sindacato è un fattore importantissimo), bilanciamento dei poteri: ciò che costituiva la base della democrazia e dello Stato di diritto liberale e moderno viene oggi travolto dal neoliberalismo e dalla tecnica rappresentata dalla Silicon Valley quale luogo simbolico della nuova fase di una lunghissima rivoluzione industriale. Di ciò e di molto altro ancora ragiona Francesca Re David in questo libro, frutto di lunghe conversazioni con Lelio Demichelis, di cui conserva volutamente il carattere discorsivo e insieme narrativo. Non è solo una analisi dettagliatissima e precisa dei processi avvenuti nel mondo del lavoro (e nella democrazia e nella cultura politica) in questi ultimi trent'anni, ma anche una forma di auto-analisi del sindacato - e di un sindacato molto particolare come la FIOM. Un discorso riflessivo - il suo - che pone il sindacato davanti alla sua storia ma soprattutto al suo futuro, al suo rapporto con l'impresa e con la tecnica, coinvolgendo chiunque abbia ancora passione per la democrazia, per il miglioramento, per una qualità della vita che non sia data solo dalla tecnologia. Per una consapevolezza di sé, in ciascuno.

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LA FRANTUMAZIONE DEL LAVORO E L’ASSENZA DELLA POLITICA

Il vero salto che si è compiuto con la tecnologia degli algoritmi è che tu sei operativo sempre, sei produttivo anche nel tuo tempo libero. Quando tu giochi, quando guardi le app, quando cerchi dove andare in vacanza, quando prenoti un taxi, quando vai su Google o su Facebook e dai il tuo profilo Google a Facebook (e dopo ti rimandano la pubblicità dei prodotti che vorresti in base alla tua profilazione precedente), quando leggi on line – sei sempre produttivo. Anche dentro i tuoi spazi di libertà, sei produttivo. Se tu giri per la città o nei mezzi di trasporto, tu vedi persone quasi tutte con il computer acceso o davanti allo smartphone e che, o lavorano direttamente per la propria azienda sfruttando il proprio tempo libero, il proprio tempo di trasporto, senza rendersi conto – oppure rendendosi solo parzialmente conto – che stanno producendo per conto dell’azienda; oppure sono davanti al cellulare e al computer per fare cose loro ma dando comunque informazioni e dati personali ad altre aziende, mettendo a disposizione della rete se stessi, diventando uomini economici totali e completi.
In tutto questo, naturalmente, il punto fondamentale, dirimente – che distingue autonomia da eteronomia –, sarebbe quello appunto di averne consapevolezza: se io so quello che sto facendo, se è trasparente e dà informazioni e ha un elemento di produttività, se io so che quando mi viene offerto un servizio gratuito il prezzo è invece nascosto dai dati che sto cedendo e questo significa che la merce e il prezzo (come ha scritto Ippolita) sono io perché sto mettendo a disposizione i miei desideri, le mie esigenze, le mie richieste alla rete – allora ne ho consapevolezza. Se io questa consapevolezza non l’ho, allora sono in balia del mercato e di quelle tecnologie che credo di usare mentre ne sono usato.
Io credo che in assenza di questa consapevolezza si produca una separazione: la solitudine di cui parlavamo prima, quella del singolo lavoratore rispetto alla precarietà, rispetto al suo essere messo in una condizione non collettiva – e quindi la frantumazione tra i lavoratori – in un certo modo avviene anche all’interno della stessa persona, che a sua volta si suddivide, si scompone. Io abito in una parte della città, lavoro in un’altra parte della città, consumo negli ipermercati in un’altra parte ancora (se non fuori città) – anche fisicamente (per non dire psichicamente) io ho una divisione di me in tante parti; e quando magari consumo utilizzando le app, e cerco di consumare al minor costo possibile, non tengo conto del fatto che quel mio consumare spendendo il meno possibile ha dietro il lavoro di lavoratori che sono nella stessa condizione mia di quando sono effettivamente al lavoro, cioè di lavorare al minor costo possibile per l’impresa, rendendo competitivo quel servizio.
C’è una sparizione degli elementi che tengono insieme le persone e che, o viene riportata alla consapevolezza della coscienza dell’individuo, appunto attraverso una relazione, oppure lo frammenta ancora di più trasferendo la divisione del lavoro alla divisione dell’individuo – e in questo frammentare mette di nuovo ciascuno nelle mani di chi invece ha una visione generale, ha e sa l’insieme delle cose e utilizza gli strumenti per quello che sono.
È ovvio che la rete dà molte opportunità alle persone – e penso per esempio a che cosa significa potersi organizzare un viaggio, poter andare a visitare una città (per fare un esempio banale) utilizzando Airbnb, essere in grado da sola di programmare il mio viaggio e nello stesso tempo di renderlo compatibile con un salario anche ‘normale’, non eccessivamente elevato. E quindi è chiaro che a me dà una libertà. Questa libertà, da un’altra parte, si mangia però dei posti di lavoro, oppure modifica le città. Sempre per fare l’esempio di Airbnb: ci sono città e capitali europee in cui praticamente il centro si è trasformato in un grande Airbnb, con degli effetti complessivi sia sugli alberghi e su chi lavora in quel settore, sia sulla struttura urbanistica e sociale della città. Quindi è chiaro, come dire, che c’è sempre bisogno, ci dovrebbe essere sempre bisogno di quella che invece è la grande assente di tutta questa storia in questi ultimi decenni – la politica. Intendendo per ‘politica’ – integrando quando detto sopra – una capacità di tenere insieme, di avere un’idea generale di come si vogliono trasformare (nel caso dell’esempio) le città, di come si vogliono salvaguardare i diritti pur mettendo a disposizione di tutti anche quei servizi che le tecnologie producono o permettono, di come si tiene insieme il benessere delle persone con altri modi di fare impresa.
La totale assenza di politica è il nuovo liberismo. Che appunto non prevede un’interlocuzione sociale e orizzontale o il fatto che lo Stato svolga un ruolo di mediazione tra interessi anche diversi e si ponga l’idea di quale modello di città, di sviluppo e di lavoro si vuole realizzare.
Analogamente, anche per l’estendersi della comunicazione, possibile a tutti i livelli attraverso la rete. Non c’è dubbio che l’informazione, la comunicazione diffusa possano essere un fatto molto democratico perché tutti hanno accesso a tutte le informazioni disponibili; ma possono essere anche – e invece – un fatto molto autoritario se il modo in cui vengono gestite non è democratico, se c’è chi determina – un motore di ricerca, un social – quali sono le informazioni che prevalgono sulla rete e come queste vengono messe o non messe a disposizione delle persone.
Questa sparizione della relazione sociale autentica che le tecnologie, gli algoritmi comportano – per cui tu sei connesso col mondo e conosci tutto il mondo stando però chiuso a casa tua – può provocare effetti devastanti, determinando una profonda trasformazione del concetto e delle pratiche di socialità, perché è chiaro che le due pulsioni umane più forti – la socialità e l’individualità, il desiderio di differenziazione e insieme di condivisione – sono due elementi che devono camminare insieme; nel momento in cui si produce una scissione tra questi elementi è chiaro invece che, paradossalmente, aumentano i rischi di autoritarismo, aumentano le disuguaglianze e aumenta la forza di chi riesce e può esprimere un potere sugli altri.
Faccio un esempio banale, che nasce dalla mia esperienza personale con Facebook: su Facebook ci sono moltissimi delegati della FIOM e allora io vedo quello che scrivono e dicono, c’è una connessione, c’è un dialogo tra i delegati e le delegate della FIOM che parlano con tutto il resto del mondo naturalmente (non è un gruppo chiuso), portano la propria esperienza, oppure si scambiano amicizia, si scambiano relazioni umane, si scambiano cose, si scambiano commenti e informazioni.
Ma questo scambio che avviene su Facebook non esclude che poi – dopo – vi siano momenti in cui il dialogo e lo scambio avvengono anche nella realtà non virtuale. Nella propria fabbrica, oppure a livello nazionale, quando ci sono le iniziative nazionali e ci si incontra, ci si vede, si scambiano notizie e commenti, si dialoga, ci si riconosce, magari ci si conosce prima su Facebook e dopo ci si riconosce fisicamente. E allora – questo è un modo consapevole di ampliare e di approfondire la capacità umana di stare insieme, anche di stare insieme in modo piacevole, anche di darsi informazioni reciproche.
Ma io, dentro quelle stesse tecnologie di comunicazione, dentro quegli stessi post, vedo anche la differenza tra chi sta nel mondo virtuale ma poi, dopo o insieme, sta anche nel mondo reale e in una relazione vera; e chi invece vi arriva di solito per ingiuriare, perché ormai c’è un incattivimento diffuso, per cui me ne sto chiuso a casa mia, non partecipo a nulla ma ti dico che quello che stai facendo non è mai sufficiente, dovresti fare altro, non va mai bene niente, è tutto uno schifo. E di solito chi risponde in questo modo non fa altro, sta fermo in attesa di commentare quello che tu fai. Crede di partecipare, in realtà non crea dialogo, non crea condivisione, non crea progettualità, non crea un noi – se non il noi del rancore.
Allora è chiaro che quello strumento tecnico – se non lo affianchi con relazioni reali, con una partecipazione reale – dà solo l’impressione di essere connessi e di essere in relazione col mondo, mentre invece vivi una situazione di solitudine, che la connessione e gli stessi social rendono poi accettabile presentandosi come social. E d’altra parte ci sono ormai casi studiati di ragazzi che stanno chiusi dentro casa, gestiscono le loro relazioni solo con il computer – in Giappone, ma adesso anche in Italia è una cosa che si sta diffondendo. Espressione – tutto questo – di una paura, di una incapacità di affrontare la vita perché non sei stato messo in condizione di farlo, perché ti è stato spiegato da sempre che sei solo uno strumento di produzione o di mercato, perché non viene valorizzato il tuo percorso scolastico e neanche il tuo percorso professionale, perché hai paura di un mondo che ti respinge; e allora ti chiudi dentro casa e da quella postazione insulti il resto del mondo, scarichi la tua rabbia, ma non risolvi niente.
Allora è chiaro che l’uso che fai della tecnologia è l’elemento importante, ma ambiguo. Una programmazione, una capacità politica di intervento su che cosa significa l’uso e l’abuso di quella tecnologia sulla vita, sul lavoro e sull’ambiente e che riguardi l’insieme del sociale è una cosa che ancora manca (o ve ne è troppo poca) e invece è assolutamente necessaria e indispensabile per rimettere insieme, appunto, socialità e individualità, per non diventare delle monadi incattivite ognuna per conto suo a discutere di quanto gli altri facciano troppo poco.
È chiaro che questi strumenti ti danno l’impressione peraltro di essere alla pari con tutti, di parlare con l’attore e con il ministro; danno un senso di grande partecipazione e coinvolgimento – ma in realtà tu svolgi un ruolo di pura osservazione in cui hai solo l’impressione di essere attivo – e in questo modo, tra l’altro, puoi essere anche più facilmente catturato dai messaggi che ti vogliono far passare. Anche gli elementi di distorsione e di negazione della realtà, per esempio sul fenomeno del razzismo e dell’immigrazione, hanno sicuramente avuto una determinazione e una crescita attraverso la rete e si parla appunto di populismo e di razzismo via rete. Perché dire che in Italia siamo invasi dai migranti è una bugia colossale; leggere dell’invasione dei migranti ogni volta che apri Facebook o entri su Google e guardi le informazioni che ti arrivano e farla sembrare davvero un’invasione diventa l’elemento su cui concentrare l’attenzione di persone che invece sono state impoverite culturalmente e politicamente anche per la mancanza di stato sociale, per un lavoro che non viene valorizzato, per tecnologie che vengono usate tutte in una determinata direzione – insomma, è la ricerca del nemico e di vederlo anche nel tuo compagno di banco, anche sul lavoro, distorcendo la realtà e impedendoti di vedere e di capire la realtà in cui tu effettivamente ti trovi e non in quella creata da fake news e dall’industria della post-verità.
Quindi, credo che il rischio di una chiusura e di essere governati non solo nella fabbrica ma anche nel tempo libero dalle tecnologie sia un rischio molto grande e profondo; e però, il modo per superare questo rischio non è vietare l’utilizzo delle tecnologie, ma è quello di far crescere la consapevolezza – di nuovo – di che cosa significa la connessione: non sei solo tu che osservi il mondo, ma è il mondo che prende da te in quel momento e che ti osserva; le azioni che fai non sono impalpabili, ma ci sono delle altre persone e si producono degli effetti rispetto alle azioni che fai.
E quindi, ancora una volta, io non riesco mai a trovare un’altra chiave – per uscire dalla porta del rischio tecnologico – che non sia quella della conoscenza e della consapevolezza di quello che succede in rete e con la rete; unica via per poi rimettere le cose insieme, appunto, per avere l’idea di una chiave anche collettiva per aprire la porta della conoscenza delle cose che si fanno e che succedono nel mondo.
E veniamo al tema molto neoliberale, molto capitalistico della concorrenza – che comunque è strettamente legato a tutto ciò che abbiamo analizzato finora. Perché sono la concorrenza e la competizione generalizzata, in una fase di globalizzazione delle imprese e di concorrenza fra imprese, che hanno reso i lavoratori un puro strumento di produzione in mano all’impresa, un fattore di concorrenza nel lavoro stesso. Un lavoro che è più flessibile di una macchina in moltissimi casi, più di un capitale fisso: costa meno, è più adattabile alle esigenze che vengono poste dal mercato e lo si può trasformare e mettere a disposizione dell’organizzazione come si crede, se non c’è, ancora, una contrattazione adeguata che respinga questo attacco – e appunto, come dicevamo, la precarizzazione e le leggi sulla flessibilizzazione del lavoro non hanno certo aiutato sotto questo aspetto.
La concorrenza presuppone oggi che il lavoratore sia in mano all’azienda nella gestione del suo tempo e nell’esigibilità del suo lavoro; e quindi, senza delle regole che solo la contrattazione in questi anni ha provato a costruire – visto che la legislazione ha liberalizzato tutto e che la contrattazione dipende dai rapporti di forza che collettivamente sei in grado di mettere in campo – solo la contrattazione delle regole riesce a opporre un limite a questa idea di totale esigibilità pretesa dall’impresa sul lavoro per la concorrenza delle imprese tra di loro.
Se poi parliamo della concorrenza rispetto alle privatizzazioni che sono avvenute in questi anni e quindi alla realtà delle grandi reti pubbliche del gas, dell’acqua, della luce, ma anche dei trasporti, delle comunicazioni materiali e immateriali, allora dobbiamo riconoscere che la concorrenza non ha portato vantaggi al consumatore, perché queste imprese molto spesso o quasi sempre hanno fatto cartello, quindi non c’è stato (e l’Antitrust è anche intervenuto in questa direzione) un abbassamento dei costi o un miglioramento della qualità dei servizi; ma anzi, le imprese hanno costituito dei monopoli – o singoli o plurali, ma hanno agito sempre dentro una logica di monopolio, e quindi di profitto. Si è trasferito quello che era un servizio pubblico alle imprese, lasciando da parte un elemento fondamentale (che non è obbligatorio quando avviene una privatizzazione o quando si ragiona sul fatto che non debba essere gestito tutto direttamente dal pubblico): la perdita della sua funzione pubblica.
Io come Stato inteso come governo, come soggetto pubblico e non privato devo garantire – soprattutto sulle reti che garantiscono alla vita delle persone i servizi fondamentali – devo garantire una funzione pubblica di controllo, una funzione pubblica di indirizzo, una funzione pubblica di intervento sui costi, una funzione pubblica che agisca sugli standard di qualità, una funzione pubblica sul fatto che bisogna investire e portare servizi anche laddove non è economicamente utile per un’impresa – e che magari, come impresa privata, ha in mente unicamente il profitto – rispetto quindi a quello che invece questi servizi devono garantire e la popolazione deve pretendere dallo Stato.
La concorrenza determinata dalle privatizzazioni non ha portato i vantaggi immaginati, come d’altra parte non li ha portati neanche la concorrenza nei supermercati e tra gli ipermercati: anche lì il tema è soprattutto il costo, la riduzione dei costi dei prodotti, che avviene attraverso lo sfruttamento del lavoro.
Proprio il commercio è il settore dove vi sono più contratti di lavoro precari, quindi forme di lavoro sottopagate (quando non scadono nel lavoro nero, ovviamente) e sotto ricatto; se sulla qualità ci si uniforma per standard di qualità, la concorrenza avviene in gran parte in termini di prezzi. Prezzi che sono in moltissimi casi determinati, appunto, dallo sfruttamento del lavoro o sull’abbassamento dei diritti sul lavoro.
Quindi il vantaggio che posso avere io come consumatore si rovescia sul lavoratore se non c’è una capacità di tenere insieme questi elementi e se non ci sono regole. La liberalizzazione che è avvenuta in questi anni sugli orari, sui rapporti di lavoro, sulle forme di flessibilità, sul commercio h24, ha determinato che la concorrenza si espandesse su questi livelli, su questi elementi, non portando tuttavia – nonostante le promesse – vantaggi particolari, semmai portando solo svantaggi ai lavoratori di quei settori. Quindi noi dovremmo, anche in questo caso, avere la consapevolezza del tutto, del processo nel suo insieme.
Perché se queste forme di sfruttamento sono state ridotte, ciò è avvenuto solo laddove il sindacato è riuscito a mettere in campo una azione di contrattazione collettiva. Perché l’unico elemento di difesa che hanno avuto i lavoratori rispetto ad imprese molto aggressive (in tutti i campi e settori: dalle reti, all’industria privata, al commercio) e che affrontano la concorrenza solo agendo sui costi – l’unico elemento di tutela che hanno avuto i lavoratori è quello di autotutelarsi attraverso la messa in campo di rapporti di forza. Tutto dipende, ancora, dai rapporti di forza che sei in grado o non sei in grado di mettere in campo. Ed è appunto l...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Introduzione
  6. LA GRANDE TRASFORMAZIONE 2.0
  7. LA FRANTUMAZIONE DEL LAVORO E L’ASSENZA DELLA POLITICA
  8. GLI ALGORITMI, IL LAVORO E IL GOVERNO DELLA TECNICA
  9. NUOVI LAVORI E VECCHIE ALIENAZIONI
  10. IL SINDACATO (E LA FIOM) TRA AUTONOMIA E POLITICA
  11. IL FUTURO DEL LAVORO