Messaggi rivoluzionari
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Messaggi rivoluzionari

About this book

Di Antonin Artaud sappiamo ormai tutto, o quasi. Più che dire chi è stato, converrà dire cosa non è stato. Non è stato un sognatore. Né un utopista. Forse è stato un pazzo. Ha contaminato mondi tra loro incompatibili; non con spirito di avventura, ma con la ferrea disciplina di un ricercatore che ostinatamente mette alla prova le sue conclusioni. Così, ha letto diversamente i dati del reale, per rimetterne in questione la pregnanza; ha scoperto vasti crateri di senso, nascosti dal reale per celare le proprie, improvvide debolezze. Dove altri avrebbe perso l'uso della ragione, si è fatto forte di una coerenza assoluta. Oggi non ci stupisce un'archeologia dell'anima, né un'antropologia del cosmo. E l'idea di una scienza dell'immaginario vagliata al microscopio non è peregrina. Ebbene, Artaud non è andato in Messico – lo racconta questo libro – per fuggire la realtà. Ma per andare alla ricerca del reale e delle sue origini. E il viaggio gli rivela le possibilità del reale, inutilizzate dal reale stesso. Da scienziato, allora, avrebbe voluto riprendere il mondo dalle origini. E farne teatro. Che il suo palcoscenico appartenesse a uno di quei possibili, l'ha dimostrato il secolo.

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Information

Apodosi
FIORI D’ANIMA SUL CORPO

Marcello Gallucci
faire jaillir des âmes sur mon corps, et dans l’air
(XI, 119)
Que vayan a la Sierra Tarahumara aquellos che no me crean
A. Artaud
Scritti in Messico tra il gennaio e l’ottobre del 1936, questi Messaggi Rivoluzionari dispongono il pensiero di Artaud in una sorta di esemplarità convulsa, partecipando tutte le fasi del suo pensiero e tutte insieme, in un sincronismo parossistico dettato anzitutto dal bisogno di farsi conoscere, subito, di farsi capire, in fretta, di farsi riconoscere, infine. Il combinarsi di queste motivazioni, agendo tutte in modo inestricabile nelle conferenze e negli articoli, ne determina le imprevedibili accelerazioni, i bruschi salti espositivi, la contrazione dei temi nei momenti di massima tensione quando non, viceversa, l’indugiare compiaciuto su fatti che sembrerebbero marginali: l’aspetto insomma apparentemente contraddittorio o, in una parola, il carattere paradossale dei saggi, che parrebbero persino svolgersi in aperto contrasto con gli argomenti annunciati nei titoli. Contraddizione, o non piuttosto necessità di operare collegamenti sempre più personali e nascosti, dell’ordine cioè di una realtà ulteriore e più intima, ma non per questo meno efficiente? Sarebbe comodo far ricorso a un’originalità argomentatrice da poeta, tale insomma da consentire una linea stilistico-espositiva diversa da quella che una consequenzialità logica di altro tipo richiederebbe. Si dimenticherebbe così, e lo si fa troppo facilmente, che Artaud è poeta e visionario certo, ma soprattutto uomo di teatro, e per questo in grado di rifondere il materiale delle sue visioni e trasformarlo in materia di spettacolo. Il che vale a dire in primo luogo che la scrittura artaudiana affonda le sue radici nello stesso terreno in cui è situato il suo teatro, quella zona di confine ove, dice lui, balena l’essenza misteriosa e tremenda della vera vita. Non per questo si potrà fare a meno di considerarla come tale, questa scrittura, nelle forme diverse che di volta in volta assume (saggio, poesia, testo drammatico, sceneggiatura cinematografica): solo che, per l’appunto, la loro origine andrà riposta in un suolo comune.
Quanto alla tecnica, non va dimenticato che – soprattutto in questa fase – Artaud traduce in parola un processo eminentemente elaborato e messo a punto per una pratica espressiva di altro ordine. Usa la parola scritta come base di un suo disegno di comunicazione più ampio, fondato essenzialmente sulla possibilità di contaminare diversi livelli, avvolgendo lo spettatore all’interno di un vero e proprio continuum in cui la comunicazione, rivitalizzata da una intenzione globalmente sinestetica – tale cioè da investire d’uguale impulso le varie componenti sensoriali realizzando una vera e propria fisicità della trasmissione – rende possibile la germinazione di un effetto da un altro di natura persino opposta, o comunque sostanzialmente diversa (tecnica già esemplarmente utilizzata dallo stesso Artaud per la messa in scena de I Cenci, e che qui egli stesso ricorda sottolineando come avesse immerso il pubblico in un costante bagno sonoro1. Il Teatro e il suo doppio è sicuramente il riferimento d’obbligo per queste pagine, e non solo per l’utilizzazione degli strumenti sonori come mezzo per agire direttamente e profondamente sulla sensibilità attraverso i sensi2. È in gioco una continuità che, come ribadiscono puntualmente le lettere a Jean Paulhan, è anche e soprattutto costante ripresa e approfondimento dell’identico).
Si sarebbe tentati di affermare che, se il teatro si rapporta alla vita per la sua capacità di rifletterne i nodi, le connessure più profonde e terribili, Artaud sa rendere scrittura proprio questa connessione, agendo su di essa nel duplice intento di dichiararla teoreticamente e di realizzarla tecnicamente come base di una sua propria poesia3. In senso ulteriore, ciò vale anche per dire che lo stile di Artaud si basa sull’esercizio di un segreto (nell’accezione che oggi questo termine ha assunto nel campo teatrale): il punto è capire come, attraverso i testi, sia possibile riconoscerne ed individuarne la complessa fenomenologia.
L’originalità di Artaud, viaggiatore in un Messico non del tutto reale ma non proprio immaginario, è tutta qui. Si manifesta in pieno nell’ostinazione con cui tenta di convincere chi lo ascolta del valore delle sue visioni. Non cerca giustificazioni, né si lascia sedurre da una teoresi asettica, falsamente obiettiva. Anzi contrappone a più riprese la figura del vero «sapiente», che insegue e sa provocare l’esperienza autentica, a quella dello scienziato, proprio per sottolineare una dicotomia che, nel prosieguo, si preciserà come rapporto intenzionalmente diverso con la sfera dell’originario. Il suo estremo delirio rende in tal modo il concreto di una differenza, ci dà la chiave di volta per la comprensione di un processo che muove dall’ossessione di «restituire al linguaggio della parola, le cui misteriose risorse sono state dimenticate, la sua antica efficacia magica, la sua efficacia fascinatrice, integrale»4. Ciò che si vuole, insomma, è raggiungere pienamente, con ogni mezzo lo spettatore – di conseguenza il lettore – portandolo a condividere la realtà, il carattere «vissuto» e perciò effettivo dei processi descritti. Artaud esige un contatto che muova dalla particolarità, e pone come tema immediato la diversa verità, non conciliabile, della sua percezione. Porta in sé, inscritti con tutta la violenza dell’irreversibile, i segni che cerca di interpretare. Tra i tanti geroglifici che compongono l’universo pittorico ed antropologico del Messico precolombiano, lui, che pretende di detenerne il segreto, è in fondo il più inquietante e misterioso.
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A Città del Messico, Artaud entra in contatto con una ristretta cerchia di artisti ed intellettuali, tra i quali Samuel Ramos, Xavier Villaurutia, Alberto Ruz Lhuiller, José Gorostiza, José Ferrel, Elías Nandino e soprattutto Luis Cardoza y Aragón, che qualche anno prima gli era stato presentato a Parigi da Robert Desnos.
I loro sforzi, la loro amicizia, il loro concreto aiuto gli permetteranno di realizzare almeno in parte il suo progetto. Ricordando quei giorni in memorie dense di una rara partecipazione, Luis Cardoza ha sottolineato più volte l’estrema solitudine di Artaud, martire senza testimoni di una passione incompresa5.
Come visse, e dove? Persino negli ultimi giorni non aveva abbandonato una certa aria da esule parigino disperatamente legato alle sue abitudini. Il suo spagnolo d’occasione si limitava alle frasi indispensabili per cavarsela nelle situazioni elementari, quotidiane. Ma non comunicava con nessuno, se non nella sua lingua. Così, per tutti i mesi della sua permanenza, visse nel quartiere Roma, facendone una piccola isola francese appartata nella confusione di una metropoli fondamentalmente estranea. Tutti i suoi amici (i pochi) parlavano francese, e persino il caffè Paris, in cui erano soliti intrattenersi, sembrava un paradossale sostituto del Dôme o de Les Deux Magots. Le altre notizie che abbiamo sul suo soggiorno non sfuggono i limiti dell’agiografia. Artaud di nuovo preda della droga, derubato da uno spacciatore che gli porta via l’orologio, eredità dal nonno, e se ne dispera; o che si perde nei meandri di Buenos Aires, il quartiere equivoco meta di drogati e senzatetto… A volte si lasciava convincere ad approfittare della disponibilità di qualche amico. Ma il difficile era vincere la sua ritrosia, a volte venata di albagia. Spariva spesso, anche per lunghi periodi, e nessuno era in grado di rintracciarlo. Allora gli erano compagni solo i teppisti di Plaza Garibaldi. Per qualche tempo trovò addirittura un inatteso quanto provvidenziale ricovero in un bordello famoso, dallo straordinario nome biblico, «La casa di Ruth», da cui fu costretto ad andarsene per le continue irruzioni che uomini e donne, ubriachi, compivano nella sua stanza, gridando e ballando. Quella bolgia non sembra abbia disturbato la sua continenza.
Elías Nandino gli offrì un rifugio più stabile, una stanza indipendente nella sua abitazione di Calle San Miguel. Del suo racconto resta l’immagine di Artaud che accudisce l’amico malato con modi che rivelano la straordinaria delicatezza di cui era capace. Perché Artaud era davvero, come dice Luis Cardoza y Aragón, delgado, electrico y centelleante
Altri – Federico Cantú Garza, pittore e letterato messicano – ricordano il suo sguardo impressionante, il vestire dimesso, l’abitudine ad andare in giro di notte (troppo, troppo forte per lui la luce di Città del Messico).
Non si allontanava mai dalla sua zona, tra Plaza Garibaldi e Calle de Gante, dove, appunto, era il Café Paris. Sui tavolini di quel caffè apriva giorno dopo giorno la sua cartella, per scrivere, per leggere; le traduzioni dei suoi articoli venivano abbozzate di volta in volta su fogli volanti, con fretta sempre crescente. I camerieri lo lasciavano fare, la loro cortesia un po’ affettata faceva ormai parte del gioco. La padrona aveva preso a benvolerlo, e comunque il conto lo regolava Nandino. Artaud leggeva ad alta voce, drammaticamente, gesticolando, variando i toni. Così ce lo racconta Luis Cardoza y Aragón: gli occhi azzurri un po’ arrossati che contrastavano con il frenetico fulgore della sua tensione spirituale:
Lo ricordo incandescente, fatto a pezzi da se stesso, strangolato, fertile di guizzi e di crolli, errabondo, incapace di coerenza esteriore, anarchico a forza di sincerità. […] come un sismografo che si spacca in mille pezzi perché non può più registrare le convulsioni che solo lui avverte e che espone con ansia6.
Artaud sdegnoso, Artaud che non sopporta e non è sopportato da Villaurutia, che guarda con alterigia i Contemporanei e si rifiuta di parlare con loro… Per Fernando Gamboa, esperto e critico di spicco nel mondo dell’arte messicana, Artaud è una specie di inquietante, ossuto fantasma vestito di bianco che sbucava all’improvviso chissà da dove; José Soriano, pittore, giovanissimo all’epoca, aggiunge: però era un grande poeta! L’affet...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. A mo’ di premessa
  6. Introduzione
  7. Protasi. Ricognizione di un viaggio attraverso le lettere
  8. Messaggi rivoluzionari
  9. I. Tre conferenze tenute all’università di città del messico
  10. II. Mexico
  11. III. Franz hals – ortiz monasterio – maria izquierdo
  12. Appendice
  13. Addenda. Testimonianze e documenti
  14. Apodosi. Fiori d’anima sul corpo
  15. Edizioni originali di riferimento
  16. L’Autore
  17. Dal catalogo