1.Lo spleen e il retroscena malinconico della storia. La doppia identità della Russia
Nell’interpretazione di Walter Benjamin, lo spleen è il sentimento che accompagna sempre la catastrofe, la quale consiste nel perdurare di ciò che esiste: «[…] ciò che di volta in volta è moderno si adegua in modo eccellente a un perdurare così intenso. Quando gli appare come catastrofe è la crisi». Il corso della storia, dominato dalla crisi, ha un moto circolare paragonabile a quello del caleidoscopio, per il quale a «ogni rotazione, un ordine crolla dando luogo a un ordine nuovo»: lo spleen è lo specchio con il quale l’artista-storico si forma l’immagine della storia e l’avvicendarsi delle epoche e degli ordinamenti politici. Nel contempo, come afferma Adorno, l’osservatore che si fa guidare dallo spleen tenta di «rendere commensurabile alla propria esperienza la soverchiante negatività della società», caratterizzata dalla impenetrabilità e dall’estraneità del tutto.
1.Critica della ragion storica. Il gentiluomo dall’aspetto beffardo e retrivo e Buckle
L’apoftegma tormentoso che Dostoevskij fa pronunciare all’uomo del sottosuolo (podpol’nyj čelovek) «Io sono solo e loro sono tutti» (Ja-to odin, a oni-to vse), è un’idea fissa che definisce una esperienza determinata e limitata che è affermata arrogantemente nella sua assolutezza. Lo spleen consente sia di rendere evidente la sofferenza sia di ribellarsi contro l’alienazione sociale che sottrae all’esperienza immediata gli oggetti della conoscenza. Come per Baudelaire, anche per l’uomo del sottosuolo lo spleen è una reazione di difesa e un atto d’accusa verso la perdita dell’esperienza del soggetto nel mondo monotono dell’omnitudine. Lo spleen scaturisce dal disgusto nei confronti di quell’ottimismo utilitarista e progressista sul quale si basa l’attediante senso comune. L’esperienza poetica scaturisce, invece, dalla vita vivente che è l’autentica storicità dell’esistente e non è un riflesso dell’Idea: la facoltà critica nell’arte si sviluppa all’interno dell’«intuizione puramente artistica» e Baudelaire è stato il primo artista moderno per il quale l’arte è una cosa «agita e vissuta». Baudelaire è il dandy che, con il suo credo filosofico, epitomato dall’endiadi self purification and antihumanity, ha rivelato l’«esperienza del baratro» (gouffre).
L’arte è «la macchina più idonea» a svelare i terrori del gouffre: né Kant, né Hegel, né Schopenhauer avrebbero acconsentito a proclamare la «realtà del gouffre». Il gouffre è il reale nel suo significato più alto che si contrappone alla falsa realtà dell’Idea ed è il tratto distintivo della storicità dell’esistente che è sempre sull’orlo di un baratro, perché il «trionfo del gouffre» sarebbe la sua rovina. Il gouffre è la visione dell’inconsistenza delle convinzioni razionali e idealiste ed è la tensione tra il mondo razionalmente costituito e la storicità dell’esistente, che per affermare sé stessa deve fare l’esperienza del baratro. La negatività dell’esistente contrasta con i postulati della ragione e la discesa agli inferi del gouffre è la suprema rivolta e non un’esperienza di dannazione. Il gouffre è l’epitome di un’esperienza religiosa profonda: anche per Fondane, come per Bataille, il sacro è trasgressione. Il pensiero di Baudelaire è frutto dell’esperienza del gouffre, dalla quale scaturiscono i suoi giudizi sprezzanti sulla democrazia e sulla civiltà.
Baudelaire detesta la democrazia e la civiltà non perché, come nel caso di Comte, ha visto in esse il trionfo dell’anarchia: in Baudelaire l’anarchia corrisponde a un «istinto intellettuale profondo». Baudelaire, secondo Fondane, è l’uomo più rappresentativo del nichilismo europeo del XIX secolo e della crisi della cultura. Comte (sulla scia di Vico) ha diagnosticato, nella crisi dell’Europa, la compresenza contraddittoria e antagonista dei tre stati del pensiero – il pensiero teologico, metafisico e positivista – percorsi dall’umanità dalle sue origini fino all’età contemporanea: per Fondane, in Baudelaire queste «tre correnti antagoniste si sono date appuntamento», scegliendo il poeta-dandy come «campo di battaglia». Per Fondane, Baudelaire è un dandy-voyou che non solo è orientato verso l’artificio e la frivolezza demoniaca, che lo induce a vivere e a morire davanti a uno specchio, ma è anche un mistico e un teologo satanico che si sforza di uccidere in sé la propria volontà di vivere. Baudelaire è il teologo del male e del peccato, che concepisce il bene come «orrore della vita» e il male come «estasi della vita».
A partire dal XIX secolo, secondo Fondane, le grandi religioni hanno esaurito la loro funzione storica, in quanto pensiero vivente, militante e originale, e sono diventate un «residuo culturale» che vive una «vita larvale» come ancella dello Zeitgeist. L’esperienza religiosa non appare più al centro della storia, ma nella sua periferia e, come aveva previsto Pascal, riguarda solo l’«individuo abbandonato a sé stesso» sull’orlo del gouffre. Nel XIX secolo il diavolo ha gettato la sua «maschera religiosa» ed è diventato laico, positivista, materialista e idealista: tutti i valori sono stati secolarizzati, all’esperienza religiosa non resta che l’assurdo, il certum est, quia impossibile di Tertulliano. L’assurdo è entrato nel mondo moderno come residuo di ciò che sfugge all’estrema razionalizzazione: l’immaginazione, il sentimento e l’affettività sono diventati assurdi. Dopo la filosofia della storia di Hegel, l’individuo è diventato un assurdo, perché la Ragione lo calpesta, rifiutando di comprenderlo se non a livello dello Stato. Sebbene nel Mito di Sisifo condivida con Lev Šestov e contro i razionalisti la fedeltà ai «comandamenti dell’assurdo», Camus si esprime a favore di una saggezza dei limiti. Il pensiero meridiano e il suo assurdo relativo è respinto da Fondane, che reclama una rivolta radicale e metafisica contro ogni sorta di limite.
L’esperienza del gouffre ha anche rivelato a Baudelaire la «noia della civiltà». Facendo esplicito riferimento a Vladimir Jankélévitch, Fondane definisce la noia come il «male per eccellenza del pensiero» originato dalla coscienza speculativa, dalla riflessione del sé su sé stesso, dalla spoliazione dell’esistenza a causa di una meditazione sull’esistenza stessa. Il vuoto affettivo genera l’angoscia, l’inquietudine e la noia di vivere. Lo storico, secondo Fondane, dovrebbe anche gettare uno sguardo sulle forme più infime della noia per comprendere la Storia. La noia è all’origine «dei cambiamenti improvvisi, delle guerre senza motivo e delle rivoluzioni assassine»; il bisogno di «sentirsi esistere, di rompere la monotonia dell’essere, del puro sensibile» si manifesta liberamente in un popolo che sembra tranquillo e saggio e in un istante può scatenare la vendetta, l’assassinio, la «gioia di distruggere per distruggere»: è questo il «supremo fiore di una civiltà consunta».
L’improvvisa eruzione della crudeltà è spiegata in base a delle cause politiche, economiche e sociali; agli storici sfugge un dato elementare: i popoli si annoiano. La noia romana, per Fondane, è sfociata nell’«angoscia dell’Impero», nelle crudeltà di Tiberio, di Caligola, di Nerone, di Eliogabalo. La noia greco-romana si è manifestata improvvisamente come angoscia, inquietudine ed è sfociata in quelle crudeltà che, per reazione, hanno decretato la vittoria del cristianesimo. Il Medioevo è stato contrassegnato da una volontà di sofferenza, costante e travolgente: è impossibile esistere in un contesto religioso e sociale immutabile per il quale l’esistenza è apparenza. L’esistenza si rivela attraverso il «sentimento del dolore» e la crudeltà la scatena: secondo Fondane, le anime semplici, le masse, ricorrono alla «crudeltà esteriore» (inquisizione, roghi, massacri di eretici, crociate), mentre le anime raffinate si scagliano contro sé stesse. La storia è un «vasto canovaccio di noia» con dei ricami di crudeltà; quando le crocifissioni, il diavolo, il nulla e la stessa tortura diventano impotenti, quando l’immaginazione è esausta, allora riappare in superficie la trama originaria della storia che è intessuta di acedia. È dall’acedia, quale assenza di Dio, che scaturisce la fede nel Dio crocefisso: è necessario far soffrire fino alla morte il «motore immobile di Aristotele» per attribuirgli un sembiante di vita: è necessario uccidere la Noia, e dunque la Logica e Dio stesso.
La crudeltà, figlia della noia, è, per Fondane, uno dei «fenomeni religiosi più profondi del XIX secolo» con una valenza negativa, perché non è basato sulla fede, ma sul peccato: la crudeltà scaturisce dal taedium historiae. Nel corso della rivoluzione del 1848, Baudelaire ha respirato con piacere «l’aria del crimine» e ha tratto dalla «crudeltà reale», storica, la «gioia dell’oblio». L’ermetismo demoniaco di Baudelaire, che nasce dalla segreta e irriducibile antinomia tra lo Spleen e l’Ideale, considera la crudeltà della rivoluzione non nella prospettiva del progresso, ma nella prospettiva del taedium historiae quale eterno ritorno dell’angoscia del nulla. Secondo Benjamin, il dandy fa sfoggio della noia, considerata squisita ed elegante, perché è un indice della «partecipazione al sonno della collettività». La ripetizione del mito sottrae la storia al tedio del progresso e consente di trarre dall’oblio la storia originaria che riappare come fantasmagoria: con il suo dandismo eroico, Baudelaire, per Benjamin, ha estratto magicamente dalla «miseria del Secondo impero» la «fantasmagoria della modernità».
La crudeltà, come fenomeno religioso e come estrema deriva del tedium historiae, ha trovato, secondo Fondane, la sua massima rappresentazione anche nelle opere di Nietzsche, di Kierkegaard e di Dostoevskij. I programmi sociali, etici e politici dell’età contemporanea sono contrassegnati dall’«assenza di significato dell’esistente» e, nella realtà storica, si traducono in un «vasto massacro di uomini, di libertà, in una tetra cavalcata attraverso l’umano che ha la pretesa di salvare l’uomo». A partire dal XIX secolo, filosofi e scrittori hanno fatto l’apologia sfrenata della forza, della crudeltà e della guerra: Nietzsche è il ca...