Descrizione : sala buia, sono proiettate alcune immagini di repertorio (massimo due minuti) della guerra. Si deve sentire lâaudio originale, nessuna musica. Alla fine delle immagini, un fascio di luce illumina il monologhista sul palco (solo). Le voci sono fuoriscena.
Monologhista. Quelle che avete appena visto sono immagini di repertorio girate durante la guerra in Bosnia Erzegovina.
Ma dovâè la Bosnia Erzegovina? GiĂ il solo fatto che una nazione sia identificata da due parole ci fa pensare che ci sia qualcosa di strano, qualcosa che non torna. Pensiamoci: quale altro Paese, in Europa, è identificato da un nome composto? Una volta, è vero, câerano la Germania Ovest e quella Est: era necessario specificare a quale delle due ci si riferisse per farsi capire. Quel doppio nome sapeva di divisione, di frattura, di confine. Ed era proprio cosĂŹ. Non è diverso, oggi, per la Bosnia Erzegovina: Bosnia ed Erzegovina, lo capiremo meglio piĂš in lĂ .
La Bosnia Erzegovina: sono convinto che per molti di noi sia difficile ubicarla con esattezza, dire quali siano i suoi confini, quale il nord e quale il sud. Qual è la sua capitale, quale la lingua che si parla. Non câè da farsene troppo una colpa, in fondo la Bosnia è un piccolo Paese, ha lo stesso numero di abitanti di Milano e provincia (meno di quattro milioni), ed è cacciata nel cuore dei Balcani, un poâ nascosta dai monti, senza nemmeno un vero sbocco sul mare. Ma è per parlare della guerra che ha travolto quel Paese allâinizio degli anni Novanta che ci troviamo qui, ora, e per parlarne a modo nostro, senza pretendere di raccontare la storia per filo e per segno. E questo non solo per onorare i morti â furono oltre centomila alla fine del conflitto, piĂš della metĂ civili, migliaia i bambini â, ma anche per ricordare, come doveroso atto civico. Per ricordare che a due passi da casa nostra, di lĂ dellâAdriatico, solo una manciata dâanni fa, si è consumata la piĂš grande tragedia umana dal secondo dopoguerra in Europa. Che sono tornati i campi di concentramento, le deportazioni e la pulizia etnica, gli stupri sistematici e le esecuzioni porta a porta.
I libri di storia o anche, banalmente, Wikipedia, indicano rispettivamente come date di inizio e di fine il 1992 e il 1995. Quelle date, effettivamente, delimitano il lasso temporale in cui si sparò e ci si ammazzò, ma la guerra ebbe inizio molto prima. Per quanto riguarda la fine, invece, beh per quanto riguarda quella si può dire che essa non si sia mai veramente conclusa, perchÊ irreversibili sono stati i danni subiti dal tessuto connettivo della società civile bosniaca: quella che una volta era riconosciuta come esempio di convivenza civile tra gruppi nazionali diversi, quelli serbo, croato e musulmano, è oggi una società rancorosa e disillusa, una società in cui i muri non si vedono, ma ci sono. E, con ogni probabilità , definitivamente divisa su base nazionale. O etnica, come asserisce con sufficienza qualcuno, sbagliando.
La guerra è iniziata molto prima di quel 1992, si diceva: verosimilmente nel momento stesso in cui Tito, il presidente-padre-padrone indiscusso e indiscutibile per decenni dellâex Jugoslavia, morĂŹ. Era il 1980. Molto si può dire dellâoperato di Tito. Câè chi lo considera un dittatore assoluto chi, invece, gli riconosce il merito storico dâavere arginato lâavanzata nazi-fascista durante la seconda guerra mondiale. Quello che è certo, e quello su cui câè unita di giudizio, è che Tito ha rappresentato, per anni, il collante che ha tenuto insieme serbi, croati, sloveni, montenegrini, albanesi e musulmani. In un modo o nellâaltro, questi popoli hanno convissuto pacificamente, anche in Bosnia Erzegovina, dove questa specie di miscuglio era piĂš complicato che mai, con serbi e musulmani presenti in proporzioni quasi identiche, i croati in misura numericamente di poco meno significativa. I matrimoni tra persone appartenenti a diversi gruppi nazionali o etnici erano la norma, la lingua era la stessa â a parte le minoranze che parlavano lo sloveno, lâalbanese e il macedone â, uno solo il sistema scolastico, e davvero nessuno si curava di sapere a quale gruppo o etnia appartenesse il proprio collega di lavoro o il proprio medico curante. Anzi, a dirla tutta, era proprio il termine âetnicoâ a non avere senso in Bosnia: qui, quella parola era del tutto abusiva, unâinvenzione priva di fondamento, poichĂŠ le divisioni religiose sono intervenute storicamente nellâambito dello stesso popolo. Morto Tito il tappo è saltato e la pentola balcanica ha ripreso a ribollire.
Complice la crisi economica profondissima che coinvolgeva lâintera area balcanica negli anni Ottanta e il crescente discredito della classe dirigente post-titoista, i partiti ultranazionalisti hanno rialzato la testa acquistando un consenso crescente nellâintera societĂ jugoslava. In Croazia si ricominciò a parlare di âGrande Croaziaâ, in Serbia di âGrande Serbiaâ. Fu facile per i leader delle varie etnie: gli fu semplice ricordare alle proprie âtribĂšâ di riferimento â e il termine tribĂš non è qui usato casualmente â le antiche divisioni, vere o presunte, le antiche differenze, anchâesse vere o presunte, molto spesso, anzi, inventate di sana pianta. Fu poi un gioco da ragazzi mettere una âtribĂšâ contro lâaltra, unâetnia contro lâaltra, un popolo contro lâaltro. La ricostruzione strumentale di avvenimenti passati, distorti per piegarli alla propria narrazione nazionalistica, e lâuso di un linguaggio ambiguo furono gli attrezzi impiegati a piene mani dai vari leader per portare avanti questo piano.
Ă in questo contesto che Franjo TuÄman divenne presidente croato, nel 1990.
Voce 1 ( maschile, con tono declamatorio). ÂŤIl genocidio è un fenomeno naturale, in armonia con la natura mitologicamente divina della societĂ . Il genocidio non è solo permesso, è raccomandato, perfino ordinato dalla parola dellâOnnipotente, tutte le volte che sia utile per la sopravvivenza o il ripristino del dominio della nazione prescelta, oppure per la conservazione o la diffusione della sua unica e giusta fedeÂť.
Monologhista. Ă lui che scrive queste parole, un anno prima della sua elezione. CosĂŹ, tanto per capirsi.
In Serbia è Slobodan MiloĹĄeviÄ, invece, che con abilitĂ diabolica riesce a incarnarsi capopopolo. Ă lui che sa cavalcare la protesta qualunquista â diremmo oggi populista o, piĂš precisamente, sovranista â che divampa in Serbia. Ă lui a capire che le masse disorientate dalla crisi sociale, politica ed economica cercano, in questo momento di difficoltĂ estrema, un capo cui aggrapparsi. Câè un bisogno spasmodico di leadership, câè un vuoto da colmare e MiloĹĄeviÄ coglie la palla al balzo. Ă lui che rispolvera lâorgoglio nazionalista e lo fa per puro calcolo politico e per pura ambizione personale, perchĂŠ capisce che è quella la leva da attivare per tenersi stretto il âsuoâ popolo, il âsuoâ potere: il senso dâinsicurezza crea il bisogno di appartenenza, aggrega attorno allâuomo forte: è la storia che lo insegna, è la storia che ritorna. Ritorna la narrazione della Serbia come âpopolo celesteâ, âpopolo elettoâ, ultimo baluardo della cristianitĂ ; si tirano fuori, di nuovo, episodi di centinaia dâanni prima, si manipola la storia a proprio uso e tornaconto per accreditare quello serbo come popolo che si è immolato per arginare, a Oriente, lâinvasione turco-ottomana musulmana. Si soffia sul fuoco del nazionalismo per accreditare una differenza etnica che semplicemente non esiste, col solo scopo di creare odio e paura tra le parti e realizzare, quindi, quel brodo di coltura indispensabile perchĂŠ lo scontro etnico possa infiammarsi in tutta la sua drammaticitĂ . Il conflitto tra le etnie, se cosĂŹ vogliamo chiamarlo, non è scoppiato a caso: lâodio è stato preparato scientificamente, è il risultato di un esperimento pianificato con cura maniacale. Ă un terrificante prodotto di laboratorio. Ed è in questâambiente che si inserisce la narrazione del ânoiâ e del âloroâ.
Voce 1 ( maschile, con tono melodrammatico ed enfatico). ÂŤNoi vinceremo. Dentro e fuori i nemici della Serbia si stanno organizzando contro di noi. Noi rispondiamo: âNon abbiamo pauraâ. Noi non ci sottrarremo alla battaglia. Noi combatteremo ogni battaglia per vincereÂť.
Monologhista. Lâodio âinter-etnicoâ non è la causa della guerra, ma il suo effetto. Ă Slobodan MiloĹĄeviÄ che ha pronunciato le parole che avete appena sentito. Ed è sempre lui che dice pubblicamente: â La Serbia è dove câè un serboâ. E in Bosnia Erzegovina, lâabbiamo detto, i serbi sono oltre un terzo dellâintera popolazione ed è a loro che MiloĹĄeviÄ guarda. Anche TuÄman volge lo sguardo alla Bosnia Erzegovina, e soprattutto ai territori sud-occidentali, allâErzegovina, dove la maggioranza della popolazione è di origine croata. MiloĹĄeviÄ e TuÄman sono agli antipodi, per storia e per carattere, ma hanno un obiettivo comune: spartirsi la Bosnia Erzegovina e farlo a discapito della maggioranza musulmana. Hanno un piano, preparano mappe dâannessione, si accordano e lo fanno senza troppo preoccuparsi di farlo di nascosto.
Il conflitto in Bosnia Erzegovina come guerra civile è un falso mito, alimentato in Occidente per giustificare la propria inerzia al motto â non interveniamo nelle beghe interne di una nazioneâ. La realtà è ben diversa. Quella guerra fu un atto dâaggressione ai danni di uno Stato sovrano internazionalmente riconosciuto attuata dallâesterno, inizialmente dalla Serbia e dal Montenegro, con il supporto delle forze ultranazionalistiche attive allâinterno della Bosnia Erzegovina; poi dalla Croazia.
Voce 2 ( maschile, asciutto). ÂŤIn tutti i suoi mille anni, non ci sono mai state guerre e conflitti di tipo confessionale o etnico, di origine locale. Ogni qualvolta ci sono state e sono accadute, sono state importate (per lo piĂš dallâEst), prodotte artificialmente e alimentate (cioè organizzate e finanziate) sempre con un solo scopo: lâespansione territoriale dei Paesi viciniÂť.
Monologhista. Ă il poeta sarajevese Abdullah Sidran a sottolineare con queste parole quanto stiamo dicendo, ovvero che la guerra in Bosnia Erzegovina è arrivata da oltreconfine: una guerra dâimportazione. Ciononostante, i governi dellâepoca, ben supportati (forse solo per pigrizia) dai media internazionali, vollero descriverla come una guerra tribale, una guerra civile, addirittura una guerra genetica. Assioma che si tradusse per anni nel ben notoâŚ
Voce 1 ( maschile, con tono di disprezzo). â⌠Che si ammazzino pure tra loro!â.
Monologhista. E ciò per giustificare il sostanziale immobilismo della comunitĂ internazionale; immobilismo dettato dallâimpossibilitĂ di trovare una sintesi tra interessi discordanti e inconciliabili: la Germania e il Vaticano a favore della cattolica Croazia; Russia, Francia e Inghilterra per la Serbia, per contrastare il dominio in Europa della Germania; gli Stati Uniti disinteressati al tema e assolutamente restii a infilarsi nel ginepraio balcanico, dove non avevano alcun interesse diretto. E poi le Nazioni Unite, lâOnu di Boutros-Ghali, totalmente incapace di gestire la situazione e tutta presa a emanare risoluzioni a ripetizione, ultimatum e penultimatum, utili solo per dilatare allâinfinito lâagonia delle popolazioni coinvolte o, ancora, a redigere mappe di pace che non hanno fatto altro che giustificare la pulizia etnica offrendo, paradossalmente, una base giuridica al genocidio. E per quanto riguarda lâItalia? Come al solito è tutta impegnata a guardarsi lâombelico e a curare lâorticello di casa. Non câera tempo per certe quisquiglie.
Voce 1 ( maschile, con tono neutro). ÂŤIn Bosnia Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, poichĂŠ vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennioÂť.
Monologhista. Parole messe nero su bianco, a guerra conclusa, da Kofi Annan, segretario generale dellâOnu a partire dal 1997, successore di Boutros-Ghali.
I musulmani sono il vaso di coccio preso in mezzo allâambizione serba e croata, sono il gruppo nazionale da confinare nella riserva indiana. Ma per portare avanti il suo intento, MiloĹĄeviÄ ha bisogno di qualcuno, in Bosnia, che faccia il lavoro sporco per lui: la Serbia, come Paese, non può e non vuole compromettersi direttamente; la guerra in Bosnia si deve configurare, secondo i piani, come guerra tutta interna, tra âetnieâ, tra âtribĂšâ. E il lavoro sporco lo fanno Radovan KaradĹžiÄ, psichiatra con velleitĂ da poeta, e Ratko MladiÄ, militare di lungo corso che aveva giĂ avuto modo di distinguersi, diciamo cosĂŹ, tra Kosovo e Croazia. Sono la mente e il braccio: KaradĹžiÄ spunta quasi dal nulla sulla scena politica bosniaca e si allinea alle posizioni ultranazionalistiche che stanno prendendo piede nel Paese portandole alle estreme conseguenze, teorizzando la pulizia etnica dei non serbi, e in particolare della componente musulmana. MladiÄ Ă¨ il braccio armato, quello che fisicamente opera sul terreno e porta avanti il piano, anche avvalendosi di truppe paramilitari come le famigerate Tigri del leader paramilitare serbo Arkan.
Nel gennaio del 1992, il presidente bosniaco di turno, il musulmano Alija IzetbegoviÄ, indice un referendum per staccarsi definitivamente da ciò che resta della federazione jugoslava, giĂ âorfanaâ di Croazia e Slovenia, che lâanno precedente â in realtĂ in Slovenia il referendum si è svolto alla fine di dicembre del 1990 â hanno compiuto il medesimo passo avviando, di fatto, la disgregazione dellâintera federazione.
Voce 2 ( maschile, sol...