La Bosnia e il rinoceronte di pezza
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La Bosnia e il rinoceronte di pezza

Alima e altre voci

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La Bosnia e il rinoceronte di pezza

Alima e altre voci

About this book

Testimonianze in presa diretta, lacrime e speranze in un libro in cui al centro non vi è la guerra, ma le donne, e in cui una di loro, Alima, si erge come protagonista grazie alla sua voglia di andare avanti per fare sì che il dialogo prevalga sulla violenza, la vita abbia la meglio sulla morte. C’è un doppio piano narrativo in questo libro, che cerca un linguaggio nuovo, in bilico tra teatro civile e racconto: la ricostruzione dei fatti che sconvolsero la Bosnia Erzegovina durante la guerra d’inizio Anni ‘90 è squarciata dalle pagine in cui Alima tratteggia il suo personale percorso di superamento del dolore. Alima non rappresenta solo se stessa, è il simbolo di tutte le donne bosniache che hanno vissuto sulla propria pelle l’intero campionario degli orrori di un conflitto ancora oggi quanto mai attuale.
“Aleotti ricostruisce le ragioni, le motivazioni e le conseguenze di una storia collettiva, dando vita a un teatro di narrazione che è allo stesso tempo teatro civile, nel quale l’autore si fa carico di trasmettere qualcosa che oggi diventa sempre più sottile: la memoria dei fatti”. (Simona Silvestri)

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Information

​Dov’è la Bosnia, cos’è successo?

Descrizione : sala buia, sono proiettate alcune immagini di repertorio (massimo due minuti) della guerra. Si deve sentire l’audio originale, nessuna musica. Alla fine delle immagini, un fascio di luce illumina il monologhista sul palco (solo). Le voci sono fuoriscena.


Monologhista. Quelle che avete appena visto sono immagini di repertorio girate durante la guerra in Bosnia Erzegovina.
Ma dov’è la Bosnia Erzegovina? Già il solo fatto che una nazione sia identificata da due parole ci fa pensare che ci sia qualcosa di strano, qualcosa che non torna. Pensiamoci: quale altro Paese, in Europa, è identificato da un nome composto? Una volta, è vero, c’erano la Germania Ovest e quella Est: era necessario specificare a quale delle due ci si riferisse per farsi capire. Quel doppio nome sapeva di divisione, di frattura, di confine. Ed era proprio così. Non è diverso, oggi, per la Bosnia Erzegovina: Bosnia ed Erzegovina, lo capiremo meglio più in là.
La Bosnia Erzegovina: sono convinto che per molti di noi sia difficile ubicarla con esattezza, dire quali siano i suoi confini, quale il nord e quale il sud. Qual è la sua capitale, quale la lingua che si parla. Non c’è da farsene troppo una colpa, in fondo la Bosnia è un piccolo Paese, ha lo stesso numero di abitanti di Milano e provincia (meno di quattro milioni), ed è cacciata nel cuore dei Balcani, un po’ nascosta dai monti, senza nemmeno un vero sbocco sul mare. Ma è per parlare della guerra che ha travolto quel Paese all’inizio degli anni Novanta che ci troviamo qui, ora, e per parlarne a modo nostro, senza pretendere di raccontare la storia per filo e per segno. E questo non solo per onorare i morti – furono oltre centomila alla fine del conflitto, più della metà civili, migliaia i bambini –, ma anche per ricordare, come doveroso atto civico. Per ricordare che a due passi da casa nostra, di là dell’Adriatico, solo una manciata d’anni fa, si è consumata la più grande tragedia umana dal secondo dopoguerra in Europa. Che sono tornati i campi di concentramento, le deportazioni e la pulizia etnica, gli stupri sistematici e le esecuzioni porta a porta.
I libri di storia o anche, banalmente, Wikipedia, indicano rispettivamente come date di inizio e di fine il 1992 e il 1995. Quelle date, effettivamente, delimitano il lasso temporale in cui si sparò e ci si ammazzò, ma la guerra ebbe inizio molto prima. Per quanto riguarda la fine, invece, beh per quanto riguarda quella si può dire che essa non si sia mai veramente conclusa, perchÊ irreversibili sono stati i danni subiti dal tessuto connettivo della società civile bosniaca: quella che una volta era riconosciuta come esempio di convivenza civile tra gruppi nazionali diversi, quelli serbo, croato e musulmano, è oggi una società rancorosa e disillusa, una società in cui i muri non si vedono, ma ci sono. E, con ogni probabilità, definitivamente divisa su base nazionale. O etnica, come asserisce con sufficienza qualcuno, sbagliando.
La guerra è iniziata molto prima di quel 1992, si diceva: verosimilmente nel momento stesso in cui Tito, il presidente-padre-padrone indiscusso e indiscutibile per decenni dell’ex Jugoslavia, morì. Era il 1980. Molto si può dire dell’operato di Tito. C’è chi lo considera un dittatore assoluto chi, invece, gli riconosce il merito storico d’avere arginato l’avanzata nazi-fascista durante la seconda guerra mondiale. Quello che è certo, e quello su cui c’è unita di giudizio, è che Tito ha rappresentato, per anni, il collante che ha tenuto insieme serbi, croati, sloveni, montenegrini, albanesi e musulmani. In un modo o nell’altro, questi popoli hanno convissuto pacificamente, anche in Bosnia Erzegovina, dove questa specie di miscuglio era più complicato che mai, con serbi e musulmani presenti in proporzioni quasi identiche, i croati in misura numericamente di poco meno significativa. I matrimoni tra persone appartenenti a diversi gruppi nazionali o etnici erano la norma, la lingua era la stessa – a parte le minoranze che parlavano lo sloveno, l’albanese e il macedone –, uno solo il sistema scolastico, e davvero nessuno si curava di sapere a quale gruppo o etnia appartenesse il proprio collega di lavoro o il proprio medico curante. Anzi, a dirla tutta, era proprio il termine “etnico” a non avere senso in Bosnia: qui, quella parola era del tutto abusiva, un’invenzione priva di fondamento, poiché le divisioni religiose sono intervenute storicamente nell’ambito dello stesso popolo. Morto Tito il tappo è saltato e la pentola balcanica ha ripreso a ribollire.
Complice la crisi economica profondissima che coinvolgeva l’intera area balcanica negli anni Ottanta e il crescente discredito della classe dirigente post-titoista, i partiti ultranazionalisti hanno rialzato la testa acquistando un consenso crescente nell’intera società jugoslava. In Croazia si ricominciò a parlare di “Grande Croazia”, in Serbia di “Grande Serbia”. Fu facile per i leader delle varie etnie: gli fu semplice ricordare alle proprie “tribù” di riferimento – e il termine tribù non è qui usato casualmente – le antiche divisioni, vere o presunte, le antiche differenze, anch’esse vere o presunte, molto spesso, anzi, inventate di sana pianta. Fu poi un gioco da ragazzi mettere una “tribù” contro l’altra, un’etnia contro l’altra, un popolo contro l’altro. La ricostruzione strumentale di avvenimenti passati, distorti per piegarli alla propria narrazione nazionalistica, e l’uso di un linguaggio ambiguo furono gli attrezzi impiegati a piene mani dai vari leader per portare avanti questo piano.
È in questo contesto che Franjo Tuđman divenne presidente croato, nel 1990.

Voce 1 ( maschile, con tono declamatorio). «Il genocidio è un fenomeno naturale, in armonia con la natura mitologicamente divina della società. Il genocidio non è solo permesso, è raccomandato, perfino ordinato dalla parola dell’Onnipotente, tutte le volte che sia utile per la sopravvivenza o il ripristino del dominio della nazione prescelta, oppure per la conservazione o la diffusione della sua unica e giusta fede».

Monologhista. È lui che scrive queste parole, un anno prima della sua elezione. CosÏ, tanto per capirsi.
In Serbia è Slobodan Milošević, invece, che con abilità diabolica riesce a incarnarsi capopopolo. È lui che sa cavalcare la protesta qualunquista – diremmo oggi populista o, più precisamente, sovranista – che divampa in Serbia. È lui a capire che le masse disorientate dalla crisi sociale, politica ed economica cercano, in questo momento di difficoltà estrema, un capo cui aggrapparsi. C’è un bisogno spasmodico di leadership, c’è un vuoto da colmare e Milošević coglie la palla al balzo. È lui che rispolvera l’orgoglio nazionalista e lo fa per puro calcolo politico e per pura ambizione personale, perché capisce che è quella la leva da attivare per tenersi stretto il “suo” popolo, il “suo” potere: il senso d’insicurezza crea il bisogno di appartenenza, aggrega attorno all’uomo forte: è la storia che lo insegna, è la storia che ritorna. Ritorna la narrazione della Serbia come “popolo celeste”, “popolo eletto”, ultimo baluardo della cristianità; si tirano fuori, di nuovo, episodi di centinaia d’anni prima, si manipola la storia a proprio uso e tornaconto per accreditare quello serbo come popolo che si è immolato per arginare, a Oriente, l’invasione turco-ottomana musulmana. Si soffia sul fuoco del nazionalismo per accreditare una differenza etnica che semplicemente non esiste, col solo scopo di creare odio e paura tra le parti e realizzare, quindi, quel brodo di coltura indispensabile perché lo scontro etnico possa infiammarsi in tutta la sua drammaticità. Il conflitto tra le etnie, se così vogliamo chiamarlo, non è scoppiato a caso: l’odio è stato preparato scientificamente, è il risultato di un esperimento pianificato con cura maniacale. È un terrificante prodotto di laboratorio. Ed è in quest’ambiente che si inserisce la narrazione del “noi” e del “loro”.

Voce 1 ( maschile, con tono melodrammatico ed enfatico). «Noi vinceremo. Dentro e fuori i nemici della Serbia si stanno organizzando contro di noi. Noi rispondiamo: “Non abbiamo paura”. Noi non ci sottrarremo alla battaglia. Noi combatteremo ogni battaglia per vincere».

Monologhista. L’odio “inter-etnico” non è la causa della guerra, ma il suo effetto. È Slobodan Milošević che ha pronunciato le parole che avete appena sentito. Ed è sempre lui che dice pubblicamente: “ La Serbia è dove c’è un serbo”. E in Bosnia Erzegovina, l’abbiamo detto, i serbi sono oltre un terzo dell’intera popolazione ed è a loro che Milošević guarda. Anche Tuđman volge lo sguardo alla Bosnia Erzegovina, e soprattutto ai territori sud-occidentali, all’Erzegovina, dove la maggioranza della popolazione è di origine croata. Milošević e Tuđman sono agli antipodi, per storia e per carattere, ma hanno un obiettivo comune: spartirsi la Bosnia Erzegovina e farlo a discapito della maggioranza musulmana. Hanno un piano, preparano mappe d’annessione, si accordano e lo fanno senza troppo preoccuparsi di farlo di nascosto.
Il conflitto in Bosnia Erzegovina come guerra civile è un falso mito, alimentato in Occidente per giustificare la propria inerzia al motto “ non interveniamo nelle beghe interne di una nazione”. La realtà è ben diversa. Quella guerra fu un atto d’aggressione ai danni di uno Stato sovrano internazionalmente riconosciuto attuata dall’esterno, inizialmente dalla Serbia e dal Montenegro, con il supporto delle forze ultranazionalistiche attive all’interno della Bosnia Erzegovina; poi dalla Croazia.

Voce 2 ( maschile, asciutto). «In tutti i suoi mille anni, non ci sono mai state guerre e conflitti di tipo confessionale o etnico, di origine locale. Ogni qualvolta ci sono state e sono accadute, sono state importate (per lo più dall’Est), prodotte artificialmente e alimentate (cioè organizzate e finanziate) sempre con un solo scopo: l’espansione territoriale dei Paesi vicini».

Monologhista. È il poeta sarajevese Abdullah Sidran a sottolineare con queste parole quanto stiamo dicendo, ovvero che la guerra in Bosnia Erzegovina è arrivata da oltreconfine: una guerra d’importazione. Ciononostante, i governi dell’epoca, ben supportati (forse solo per pigrizia) dai media internazionali, vollero descriverla come una guerra tribale, una guerra civile, addirittura una guerra genetica. Assioma che si tradusse per anni nel ben noto…

Voce 1 ( maschile, con tono di disprezzo). “… Che si ammazzino pure tra loro!”.

Monologhista. E ciò per giustificare il sostanziale immobilismo della comunità internazionale; immobilismo dettato dall’impossibilità di trovare una sintesi tra interessi discordanti e inconciliabili: la Germania e il Vaticano a favore della cattolica Croazia; Russia, Francia e Inghilterra per la Serbia, per contrastare il dominio in Europa della Germania; gli Stati Uniti disinteressati al tema e assolutamente restii a infilarsi nel ginepraio balcanico, dove non avevano alcun interesse diretto. E poi le Nazioni Unite, l’Onu di Boutros-Ghali, totalmente incapace di gestire la situazione e tutta presa a emanare risoluzioni a ripetizione, ultimatum e penultimatum, utili solo per dilatare all’infinito l’agonia delle popolazioni coinvolte o, ancora, a redigere mappe di pace che non hanno fatto altro che giustificare la pulizia etnica offrendo, paradossalmente, una base giuridica al genocidio. E per quanto riguarda l’Italia? Come al solito è tutta impegnata a guardarsi l’ombelico e a curare l’orticello di casa. Non c’era tempo per certe quisquiglie.

Voce 1 ( maschile, con tono neutro). ÂŤIn Bosnia Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, poichĂŠ vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennioÂť.

Monologhista. Parole messe nero su bianco, a guerra conclusa, da Kofi Annan, segretario generale dell’Onu a partire dal 1997, successore di Boutros-Ghali.
I musulmani sono il vaso di coccio preso in mezzo all’ambizione serba e croata, sono il gruppo nazionale da confinare nella riserva indiana. Ma per portare avanti il suo intento, Milošević ha bisogno di qualcuno, in Bosnia, che faccia il lavoro sporco per lui: la Serbia, come Paese, non può e non vuole compromettersi direttamente; la guerra in Bosnia si deve configurare, secondo i piani, come guerra tutta interna, tra “etnie”, tra “tribù”. E il lavoro sporco lo fanno Radovan Karadžić, psichiatra con velleità da poeta, e Ratko Mladić, militare di lungo corso che aveva già avuto modo di distinguersi, diciamo così, tra Kosovo e Croazia. Sono la mente e il braccio: Karadžić spunta quasi dal nulla sulla scena politica bosniaca e si allinea alle posizioni ultranazionalistiche che stanno prendendo piede nel Paese portandole alle estreme conseguenze, teorizzando la pulizia etnica dei non serbi, e in particolare della componente musulmana. Mladić è il braccio armato, quello che fisicamente opera sul terreno e porta avanti il piano, anche avvalendosi di truppe paramilitari come le famigerate Tigri del leader paramilitare serbo Arkan.
Nel gennaio del 1992, il presidente bosniaco di turno, il musulmano Alija Izetbegović, indice un referendum per staccarsi definitivamente da ciò che resta della federazione jugoslava, già “orfana” di Croazia e Slovenia, che l’anno precedente – in realtà in Slovenia il referendum si è svolto alla fine di dicembre del 1990 – hanno compiuto il medesimo passo avviando, di fatto, la disgregazione dell’intera federazione.

Voce 2 ( maschile, sol...

Table of contents

  1. Copertina
  2. La Bosnia e il rinoceronte di pezza
  3. Indice dei contenuti
  4. ​Prefazione
  5. ​Alima, dedica di una madre
  6. ​Prima d’entrare in scena
  7. IN SCENA
  8. ​Madre e figlio, il tempo del prima
  9. ​I luoghi
  10. ​Dov’è la Bosnia, cos’è successo?
  11. L’assedio di Sarajevo, voci da dentro
  12. ​Cos’è stata Sarajevo
  13. ​L’occasione perduta
  14. ​Il tunnel e le rose
  15. ​Srebrenica, i giorni della vergogna
  16. ​Srebrenica, il giorno prima della fine
  17. ​Madre e figlio, il tempo di mezzo
  18. ​Srebrenica - Epilogo
  19. ​Madre e figlio, il tempo del dopo
  20. Ringraziamenti
  21. ​Collana Orienti