Strade rotte
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Settemila chilometri in ciabatte dall'Africa occidentale all'Italia

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Settemila chilometri in ciabatte dall'Africa occidentale all'Italia

About this book

Due anni in viaggio lungo settemila chilometri; due sedicenni partiti dal piccolo Gambia per chiedere asilo in Italia. Con i mezzi più disparati, a volte solo le proprie ciabatte, hanno viaggiato attraverso Gambia, Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Algeria e Libia senza né documenti né carte geografiche. Sono passati leggeri, conoscendo il valore della parola abarakà – grazie –, dentro un pezzo di mondo e di umanità capace di regalare sprazzi di paradiso e di rappresentare senza sconti l’inferno. Hanno attraversato foresta, deserto, mare; conosciuto luoghi che non avrebbero mai pensato esistessero; incontrato civiltà sul filo della sopravvivenza. Hanno incontrato molte persone, alcune disposte a rinunciare all’anima per inseguire i propri profitti, altre no.
Dopo l’arrivo in Italia, sono stati accolti da una famiglia che, aderendo al progetto di accoglienza diffusa di una piccola cooperativa locale, li ha ospitati a casa propria, in una città con le montagne all’orizzonte.
“Chi scrive accoglie gli altri, ne vede la complessità, dedica loro tempo. Non li riduce a numeri o statistiche. Non vede cliché. Sente i loro odori, percorre i loro corpi, sente le fruste, gli insulti e le offese. Si mette i loro occhi. E, grazie a quest’esperienza, si avvicina”. (Igor Brunello)
“In questo libro si cela, nella poetica della narrazione e nell’umanità delle vicende occorse, un piccolo tesoro”. (Luca Agostinetto)

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Introduzione

di Luca Agostinetto
docente di Pedagogia interculturale, UniversitĂ  di Padova



Mi lavavo all’aperto ch’era notte.
Di grezze stelle ardeva il firmamento. (…)
Si disfa come sale, nella botte, una stella.
(Osip Mandel’Štam 1, 1921)



Non pare c’entri molto un poeta russo deportato in Siberia con il libro che ora abbiamo in mano. Perché in queste pagine troviamo racchiusa un po’ la storia di due vite diverse, due vite uniche e qualsiasi. Ciò che le accomuna è la scelta – semplice e smisurata – di un viaggio che li porterà dal Gambia fino a una casa di Vicenza. E poi oltre. Tutto qui.
Eppure in questo libro si cela, nella poetica della narrazione e nell’umanità delle vicende occorse, un piccolo tesoro. Non ne so dire tutto il valore, e mi limito a condividerne tre aspetti, tre monete d’oro che il testo mi ha regalato.

La prima è ciò che tiene assieme le righe e dà loro una forma tutta particolare. Lamin e Sire sono due persone reali, due ragazzi in carne e ossa, solo i nomi sono di fantasia. I loro due diversi viaggi – si incontreranno solo in Italia – li hanno raccontati alla medesima persona, Cristiana Venturi, autrice di queste pagine. Cristiana presta loro la sua narrazione, la intreccia con le sue parole, con quello che i suoi occhi dalle loro parole vedono. Cristiana ascolta, interpreta e racconta. E così noi leggendo.
Ecco, questo meccanismo dell’interpretazione è quello che in realtà sta alla base dello scambio tra persone, soprattutto quando esso è giocato sul piano dell’alterità culturale. Clifford Geertz 2 descriveva l’antropologo come un interprete di interpretazioni: le culture non sono fatte di “cose” quanto di “segni”, che assumono senso solo se interpretati. È un’idea “semiotica” di cultura la sua, che vede la cultura come un insieme di significati cangianti e condivisibili, così “significativi” da consentire alle persone di interpretare la propria esperienza e guidare le proprie azioni. È bellissima l’espressione che usa Geertz per quest’insieme: la cultura come “intreccio di significati”. Per il risultato (la cultura) non sono importanti tanto i fili, quanto i nodi che li tessono assieme, dato che sono questi a definire la trama culturale. Tali nodi sono relazionali, dato che solo le persone significano la realtà e condividendola nella relazione ne fanno trama culturale. È un’idea di cultura che ne restituisce la complessità, dà ragione della sua dinamicità e ne svela tutto il potenziale di scambio. Le culture non sono oggetti da proteggere e da mantenere, ma processi da significare nello scambio, che umanamente si chiama incontro. Ora, c’è solo una condizione che Geertz pone alla comprensione dell’altro (all’interpretazione delle sue interpretazioni): è quella dell’antropologo, che per capire deve darsi tempo e decidere di “abitare presso l’altro”. Certo, infine porterà il suo punto di vista, ma a far sostanziale differenza è il fatto che l’abbia saputo mobilitare avvicinandosi a quello dell’altro, in una continua tensione emica. Non è un fatto di mera empatia, serve tempo e vicinanza. Ecco, questo il peculiare valore che ci restituisce l’Autrice di queste pagine, perché Cristiana mettendo a disposizione il suo tempo, ha acquisito un punto di vista privilegiato su quei due viaggi, un diritto tutto speciale di intrecciare nella trama del suo racconto i fili di quelle due storie.

Il secondo elemento di valore, la seconda moneta d’oro che m’è parso di rinvenire, sta nella prospettiva del viaggio. Lamin e Sire sono due immigrati (due rifugiati, se volessimo essere più precisi e se la cosa facesse differenza per la maggior parte delle persone) e il viaggio che fanno noi lo chiamiamo “immigrazione”. Ma la parola immigrazione – consunta e oramai svuotata dal suo significato – non viene di fatto mai nominata nel testo. È questa una categoria che regge solo dal nostro punto di vista: dal loro, quello di Lamin e Sire, il cammino appare diverso e l’effetto è spiazzante, “straniante” lo definirebbe Šklovskij 3.
Nel saggio L’arte come procedimento pubblicato nel 1919, Šklovskij rileva come l’abitudine ci impedisca di vedere la realtà, ma “solo il posto che essa occupa”: come se fosse imballata, ne cogliamo solo la superficie perdendone l’essenza. L’automatismo “si mangia gli oggetti” e, scrive Todorov, “bisogna deformarli se si vuole che possano trattenere il nostro sguardo” 4.
È precisamente questo che fa l’arte, sostiene Šklovskij, e il suo procedimento è lo “straniamento”. Per spiegarmi meglio, mi pare assolutamente calzante l’esempio proposto dallo stesso Šklovskij nel saggio citato, il quale chiama in causa – in qualità di “artista” – nientemeno che Tolstoj e proprio su un tema che oggi definiremmo di “impegno sociale”. Questi infatti pubblica nel 1895 un testo dal titolo Vergogna! teso a stigmatizzare la riprovevole pratica punitiva (allora assai diffusa in Russia) della fustigazione. L’efficacia dell’azione “straniante”, secondo Šklovskij, sta nel fatto che Tolstoj agisce sulla “forma, pur senza mutarne l’essenza”, non nominando mai il termine fustigazione, e utilizzando invece espressioni come “denudare, gettare al suolo e battere con le verghe sulla schiena chi ha infranto le leggi” e “scudisciare sulle natiche denudate” (2003, p. 83). Per far “vedere” ai suoi lettori la fustigazione, Tolstoj la toglie dal suo “imballo”, affinché il nostro sguardo non ci scivoli sopra e la mente non richiami in automatismo la nostra opinione sull’argomento. “Rallentando il riconoscimento – scrive Paolo Nori –, allungando la visione, sperperando delle energie, anziché risparmiarne, buttando lì degli uomini denudati, gettati a terra, colpiti sulla schiena con le verghe e poi colpiti sulle natiche nude, Tolstoj risuscita, nei suoi lettori, la fustigazione, gliela rende sensibile, gliela fa vedere come se fosse nuova” 5.
Ecco, mi pare che oggi sull’immigrazione vi sia una calcolata ridondanza più che un’abitudine, un fenomeno che non “vediamo” davvero ma “riconosciamo” subito, con il nostro seguito di opinioni preconcette, pro e (più frequentemente) contro.
Lamin e Sire, nel racconto di Cristiana, rallentano il nostro riconoscimento e trattengono il nostro sguardo, portandoci a “vedere” i favolosi colori delle terre attraversate, gli odori pungenti dei mercati e il lezzo degli uomini ammassati, il silenzio della notte africana, il peso del distacco e la forza del proprio sogno, il momento della paura e il suo farsi coraggio. Abbiamo così l’opportunità di conoscere e vedere meglio, e poiché l’immigrazione ci riguarda, di conoscerci e vederci meglio. Non è poco.

Terza e ultima moneta d’oro da questo piccolo, grande tesoro. È il modo del racconto, le parole trattenute, misurate di Lamin e Sire. Perché non c’è traccia di retorica, né di tragedia né di eroismo nel racconto del loro viaggio. C’è semplicità, come se partire fosse semplice, come se rischiare la propria vita lo fosse. In questo libro le pagine non scritte, le parti di storia non dette, le parole taciute in qualche modo parlano. E ci mostrano che dovremmo avere più rispetto anche per le parole non dette da tutti i Lamin e Sire che quotidianamente incontriamo, imparare a strepitare di meno, a fermare il nostro continuo parlare a sproposito e la facilità con la quale giudichiamo. Perché se stiamo zitti, se ascoltiamo, quelle parole silenziose forse riusciamo a vederle e a farle un po’ nostre, a trattenerle in noi nel modo in cui “si disfa come sale, nella botte, una stella”.





[1] Mandel’Štam O., Cinquanta poesie, Einaudi, 1998 [1921].
[2] Geertz C., Interpretazione di culture, Il Mulino, 1987 [1973].
[3] Šklovskij V. B., L’arte come procedimento, in T. Todorov, op. cit. (pp. 73-94).
[4] Todorov, T. (a cura di), I formalisti russi , Teoria della letteratura e metodo critico , Einaudi, 2003 [1919], p. 14.
[5] Nori, P., La meravigliosa utilitĂ  del filo a piombo, Marcos y Marcos, 2011, pp. 39-40.



immagine 1
Fonte: Shutterstock Elaborazione grafica: Giulia Pasqualin

Verde menta

Lamin
Serekunda (Gambia)


Nell’officina meccanica dove Lamin lavorava, una notte c’era stato un furto.
La mattina seguente, la città di Serekunda si svegliava. Ogni metro quadrato era ricco di voci. L’aria girovagava per il mercato piena di odori. Se li prendeva dai cesti di pesce, dalla crema di miglio speziata, dai sudori di uomini e di animali.
La bottega di pentole in alluminio esponeva di fianco al negozio di cesti che, acquistati vuoti, finivano per circolare pieni di merci sulle teste di donne. Queste ultime avanzavano dritte portandosi tutto addosso, cesti, figli e anche colori, stampati nei veli, nei foulard tra i capelli, nel vestito giallo e verde di una vecchia che serviva tè caldo alla menta in bicchieri di vetro.
Un paio di occhiali scuri si soffermarono un attimo sulla teiera. Gli occhiali stavano sulla faccia di un uomo, seduto sul bordo di un piccolo carro tirato da un asino. L’uomo accese la sigaretta, poi rimboccò le maniche della camicia bianca. La corda, gettata senza legami fino al prossimo carico, sonnecchiava inerte al suo fianco.
Alcuni bambini giocavano rincorrendo una ruota di bicicletta. Certi andavano a scuola vestiti di azzurro e blu. La maestra li aspettava in un abito arancione.
La mano sulla manopola di una carriola colma di grossi limoni, mostrava un anello sottile di latta nel mignolo. Nonostante la gomma sgonfia, quella di fianco la superò spinta da un giovane col cappello e il segno di un taglio sul braccio. In mezzo alla folla di animali e passanti, trasportava un materasso piegato in due. Come se fosse facile, at...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Strade rotte
  3. Indice dei contenuti
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. Verde menta
  7. Fruscio di foglie di karitĂŠ
  8. Grigio ragnatela
  9. Alternarsi lieve di passi
  10. Rosso Mali
  11. Variazioni di tocco su pelli di djembe
  12. Bianco latte
  13. Ronzio di un motorino sul confine
  14. Ocra sabbia
  15. Frinire di locuste alate
  16. Nero petrolio
  17. Scorrere di mani sulla maglia di cotone
  18. Blu oltremare
  19. Sciabordio di piedi nell’acqua
  20. La stanza degli ospiti
  21. Isama, buongiorno
  22. AbarakĂ , grazie
  23. Ringraziamenti
  24. Collana Afriche