di Luca Agostinetto
docente di Pedagogia interculturale,
UniversitĂ di Padova
Mi lavavo allâaperto châera notte.
Di grezze stelle ardeva il firmamento. (âŚ)
Si disfa come sale, nella botte, una stella.
(Osip MandelâĹ tam
, 1921)
Non pare câentri molto un poeta russo deportato in Siberia con
il libro che ora abbiamo in mano. PerchĂŠ in queste pagine troviamo
racchiusa un poâ la storia di due vite diverse, due vite uniche e
qualsiasi. Ciò che le accomuna è la scelta â semplice e smisurata â
di un viaggio che li porterĂ dal Gambia fino a una casa di Vicenza.
E poi oltre. Tutto qui.
Eppure in questo libro si cela, nella poetica della narrazione
e nellâumanitĂ delle vicende occorse, un piccolo tesoro. Non ne so
dire tutto il valore, e mi limito a condividerne tre aspetti, tre
monete dâoro che il testo mi ha regalato.
La prima è ciò che tiene assieme le righe e dà loro una forma
tutta particolare. Lamin e Sire sono due persone reali, due ragazzi
in carne e ossa, solo i nomi sono di fantasia. I loro due diversi
viaggi â si incontreranno solo in Italia â li hanno raccontati alla
medesima persona, Cristiana Venturi, autrice di queste pagine.
Cristiana presta loro la sua narrazione, la intreccia con le sue
parole, con quello che i suoi occhi dalle loro parole vedono.
Cristiana ascolta, interpreta e racconta. E cosĂŹ noi leggendo.
Ecco, questo meccanismo dellâinterpretazione è quello che in
realtĂ sta alla base dello scambio tra persone, soprattutto quando
esso è giocato sul piano dellâalteritĂ culturale. Clifford Geertz
descriveva lâantropologo come un
interprete di interpretazioni: le culture non sono fatte di âcoseâ
quanto di âsegniâ, che assumono senso solo se interpretati. Ă
unâidea âsemioticaâ di cultura la sua, che vede la cultura come un
insieme di significati cangianti e condivisibili, cosĂŹ
âsignificativiâ da consentire alle persone di interpretare la
propria esperienza e guidare le proprie azioni. Ă bellissima
lâespressione che usa Geertz per questâinsieme: la cultura come
âintreccio di significatiâ. Per il risultato (la cultura) non sono
importanti tanto i fili, quanto i nodi che li tessono assieme, dato
che sono questi a definire la trama culturale. Tali nodi sono
relazionali, dato che solo le persone significano la realtĂ e
condividendola nella relazione ne fanno trama culturale. Ă unâidea
di cultura che ne restituisce la complessitĂ , dĂ ragione della sua
dinamicitĂ e ne svela tutto il potenziale di scambio. Le culture
non sono oggetti da proteggere e da mantenere, ma processi da
significare nello scambio, che umanamente si chiama incontro. Ora,
câè solo una condizione che Geertz pone alla comprensione
dellâaltro (allâinterpretazione delle sue interpretazioni): è
quella dellâantropologo, che per capire deve darsi tempo e decidere
di âabitare presso lâaltroâ. Certo, infine porterĂ il suo punto di
vista, ma a far sostanziale differenza è il fatto che lâabbia
saputo mobilitare avvicinandosi a quello dellâaltro, in una
continua tensione emica. Non è un fatto di mera empatia, serve
tempo e vicinanza. Ecco, questo il peculiare valore che ci
restituisce lâAutrice di queste pagine, perchĂŠ Cristiana mettendo a
disposizione il suo tempo, ha acquisito un punto di vista
privilegiato su quei due viaggi, un diritto tutto speciale di
intrecciare nella trama del suo racconto i fili di quelle due
storie.
Il secondo elemento di valore, la seconda moneta dâoro che mâè
parso di rinvenire, sta nella prospettiva del viaggio. Lamin e Sire
sono due immigrati (due rifugiati, se volessimo essere piĂš precisi
e se la cosa facesse differenza per la maggior parte delle persone)
e il viaggio che fanno noi lo chiamiamo âimmigrazioneâ. Ma la
parola immigrazione â consunta e oramai svuotata dal suo
significato â non viene di fatto mai nominata nel testo. Ă questa
una categoria che regge solo dal nostro punto di vista: dal loro,
quello di Lamin e Sire, il cammino appare diverso e lâeffetto è
spiazzante, âstranianteâ lo definirebbe Ĺ klovskij
.
Nel saggio
Lâarte come procedimento pubblicato nel 1919, Ĺ klovskij
rileva come lâabitudine ci impedisca di vedere la realtĂ , ma âsolo
il posto che essa occupaâ: come se fosse imballata, ne cogliamo
solo la superficie perdendone lâessenza. Lâautomatismo âsi mangia
gli oggettiâ e, scrive Todorov, âbisogna deformarli se si vuole che
possano trattenere il nostro sguardoâ
.
Ă precisamente questo che fa lâarte, sostiene Ĺ klovskij, e il
suo procedimento è lo âstraniamentoâ. Per spiegarmi meglio, mi pare
assolutamente calzante lâesempio proposto dallo stesso Ĺ klovskij
nel saggio citato, il quale chiama in causa â in qualitĂ di
âartistaâ â nientemeno che Tolstoj e proprio su un tema che oggi
definiremmo di âimpegno socialeâ. Questi infatti pubblica nel 1895
un testo dal titolo
Vergogna! teso a stigmatizzare la riprovevole pratica
punitiva (allora assai diffusa in Russia) della fustigazione.
Lâefficacia dellâazione âstranianteâ, secondo Ĺ klovskij, sta nel
fatto che Tolstoj agisce sulla âforma, pur senza mutarne
lâessenzaâ, non nominando mai il termine fustigazione, e
utilizzando invece espressioni come âdenudare, gettare al suolo e
battere con le verghe sulla schiena chi ha infranto le leggiâ e
âscudisciare sulle natiche denudateâ (2003, p. 83). Per far
âvedereâ ai suoi lettori la fustigazione, Tolstoj la toglie dal suo
âimballoâ, affinchĂŠ il nostro sguardo non ci scivoli sopra e la
mente non richiami in automatismo la nostra opinione
sullâargomento. âRallentando il riconoscimento â scrive Paolo Nori
â, allungando la visione, sperperando delle energie, anzichĂŠ
risparmiarne, buttando lĂŹ degli uomini denudati, gettati a terra,
colpiti sulla schiena con le verghe e poi colpiti sulle natiche
nude, Tolstoj risuscita, nei suoi lettori, la fustigazione, gliela
rende sensibile, gliela fa vedere come se fosse nuovaâ
.
Ecco, mi pare che oggi sullâimmigrazione vi sia una calcolata
ridondanza piĂš che unâabitudine, un fenomeno che non âvediamoâ
davvero ma âriconosciamoâ subito, con il nostro seguito di opinioni
preconcette, pro e (piĂš frequentemente) contro.
Lamin e Sire, nel racconto di Cristiana, rallentano il nostro
riconoscimento e trattengono il nostro sguardo, portandoci a
âvedereâ i favolosi colori delle terre attraversate, gli odori
pungenti dei mercati e il lezzo degli uomini ammassati, il silenzio
della notte africana, il peso del distacco e la forza del proprio
sogno, il momento della paura e il suo farsi coraggio. Abbiamo cosĂŹ
lâopportunitĂ di conoscere e vedere meglio, e poichĂŠ lâimmigrazione
ci riguarda, di conoscerci e vederci meglio. Non è poco.
Terza e ultima moneta dâoro da questo piccolo, grande tesoro. Ă
il modo del racconto, le parole trattenute, misurate di Lamin e
Sire. PerchĂŠ non câè traccia di retorica, nĂŠ di tragedia nĂŠ di
eroismo nel racconto del loro viaggio. Câè semplicitĂ , come se
partire fosse semplice, come se rischiare la propria vita lo fosse.
In questo libro le pagine non scritte, le parti di storia non
dette, le parole taciute in qualche modo parlano. E ci mostrano che
dovremmo avere piĂš rispetto anche per le parole non dette da tutti
i Lamin e Sire che quotidianamente incontriamo, imparare a
strepitare di meno, a fermare il nostro continuo parlare a
sproposito e la facilitĂ con la quale giudichiamo. PerchĂŠ se stiamo
zitti, se ascoltiamo, quelle parole silenziose forse riusciamo a
vederle e a farle un poâ nostre, a trattenerle in noi nel modo in
cui âsi disfa come sale, nella botte, una stellaâ.