1. Fotografo
Appoggio l’avambraccio destro sul petto, stringo forte la Pentax. Ho paura che mi scivoli via, che cada da questo grattacielo. Mentre il virus esplode in Italia, ho tempo due giorni per terminare il mio lavoro qui.
Cazzo! In realtà ho paura che la mia vita scivoli via, che il peso della macchina fotografica trascini di sotto il mio collo facendomi precipitare dal trentaquattresimo piano di questo palazzo newyorkese, stunf, e giù-giù-giù fino al marciapiede, appiccicato come uno stuoino di qualche sconosciuta avenue.
Bloccare con la luce la vetrata di questo grattacielo ripresa in verticale. Scattare immagini al limite della rappresentazione. Al limite della vita, ovviamente la mia. Faccio questo lavoro da sette anni e non mi sono ancora abituato alla pericolosità della mia professione. Mio fratello mi ha sempre ripetuto: «Ma fare semplici foto ai matrimoni , no? Eh?»
«Eh, no… Non posso!», gliel’ho sempre detto. Non posso perché non riesco a fare a meno di vivere spericolatamente, sempre ai margini dell’esistenza, continuamente al confine. Pensa a quanto è già rischioso spostarsi in aereo, o muoversi bardati con mascherine, tra le più disparate, per le strade di questa spocchiosa metropoli. Ma mi ci vedete a immortalare pose plastiche per novelli sposi o a suggerire a timidi ragazzetti dentro i vestiti della prima comunione di sorridere all’obiettivo con un forzato “cheeseee”?
“Mi rollo una canna”. La posizione non mi aiuta, faccio tutto a memoria, prestando attenzione che la metà del mio corpo, che penzola sporgendo dal palazzo, sappia bilanciare l’altra parte rimasta ancorata al terrazzo. Mi prende un po’ di strizza, non trovo le cartine – cazzo-cazzo, dove le ho messe! –, sono proprio nella tasca posteriore destra dei miei jeans. Appoggio la macchina fotografica di fianco, a ridosso del precipizio, e completo le operazioni di fumo.
Il senso di onnipotenza che la canna mi regala è paragonabile solo alla vertigine del mio presunto equilibrio. Pochi centimetri mi separano dal baratro, pochi gesti inconsulti potrebbero condurmi nell’abisso. Ma è bello così il mio lavoro, non lo cambierei mai. Non ho mai pensato all’idea che la morte potesse dormirmi accanto, di tenerla sopita finché un mio balzo improvviso non la desti e mi trascini con lei. Se non mi ammazza il Coronavirus, mi ucciderà qualcos’altro.
Faccia a faccia con la signora morte. Mi chiederebbe un conto salato: le scopate che mi sono fatto, i soldi che ho sperperato in auto, vestiti, ristoranti. Insidie che non ho mai evitato e che mi hanno condotto fino a brindare con lei. Mi farebbe pagare uno scatto amaro, niente sconti nella mia vita di sregolatezze, sessodrogaerockandroll-oh-yeah.
Non avrei paura ma un po’ di timore, quello sì; una leggera strizzatina al culo e mi cagherei sotto a furia di sentirmi rinfacciare le cose che non ho fatto e che non so fare. Non sono un buon cristiano, ma la morte è la morte, finisce tutto, oggi sei vivo e domani non ci sei più, zac, tutto finito, occhi chiusi. Per sempre.
Sto trattenendo il respiro mentre con lo zoom della mia macchina fotografica inquadro una prospettiva assolutamente inusuale di questo luogo. Sento in circolo gli effetti della marijuana, m’inebrio senza avvertire il pericolo mentre le prime luci dell’alba si stagliano sopra la mia testa. Fa freddo su questa cazzo di terrazza, qui nel cuore di Manhattan. Sto per scattare a ripetizione quando il tappo dell’obiettivo mi scivola dal taschino della camicia, le mie dita non lo afferrano e l’aria leggera lo porta via, lo separa da me, facendolo roteare, sempre più distante, sempre più piccolo. Un puntino che perdo di vista, diventa infinitesimo dinanzi ai miei occhi, e non lo vedo più. Non ne avverto neppure il rumore quando si posa sul suolo. Lontano da me.
Minchia! Ricomincio a respirare, l’aria che butto fuori si sposa con la leggerezza della brezza mattutina. Sembra quasi ferma, sento solo i polmoni che si allargano e mi riportano alla realtà. Cazzo, fosse capitato a me! Che culo, non è successo a me! Mi sono distratto, non sono stato sufficientemente attento. Poteva accadere, non sarebbe dovuto accadere ma è accaduto. Sfiga, semplice sfiga. La prima volta in sette anni, eccheccazzo, poteva succedere ed è successo. Me ne sto attribuendo una colpa oltre misura. Ho fotografato scenari di guerra, ho convissuto con il pericolo, ma non ho mai prestato attenzione al fatto che ciò sarebbe potuto accadere anche a me, proprio adesso. Ho impresso sulla carta fotografica immagini spettacolari, eventi straordinari come la morte degli altri, ma non ho mai pensato alla mia. Cazzo, cazzo, la mia fine. Adesso che sento l’ansia salire, pronuncio “cazzo” a raffica, parolacce a ripetizione senza fermarmi. E ora mi sto davvero agitando. Sento aumentare le palpitazioni nel petto, tutto il corpo è in subbuglio.
Chissà come sarebbe la mia morte! Non ci ho mai pensato in trentaquattro anni di vita! Non voglio distrarmi, finirò gli scatti che devo completare e fuggirò via da qui. Ho la luce giusta che filtra in modo naturale sulla vetrata del grattacielo. Saranno foto strategiche, lo sento. Due minuti, e scappo.
Torno nella mia stanza d’albergo, all’hotel posto al quattordicesimo piano di questo palazzo su Madison Avenue. Tutto spesato dalla mia testata, s’intende. Domani mi attende un altro grattacielo, e poi un altro ancora. Mi rimbomba in testa l’eco della morte. Mi è presa una paura improvvisa. Non riesco neppure a riposare sul letto, mi alzo nervosamente e scendo in strada, con la macchina fotografica a tracolla. Mi viene un’idea.
Mi blocco sul marciapiede ancora silenzioso con l’iPhone in mano. Mi sfilo un momento la mascherina dal viso. Cerco su Google un negozio di pompe funebri aperto 24 ore, il più vicino. È a tre isolati, mi ci fiondo a piedi. Mi riceve una gentile Miss con i lunghi capelli castani, che mi fa un gran sorriso con gli occhi. Mi scruta attentamente, si sofferma sui miei capelli neri e mossi. Ho la barba di tre giorni, le piaccio di certo.
Che gnocca, me la tromberei subito! “Come fa una così a lavorare in un posto così lugubre?”, mi chiedo. In realtà no, non è tanto triste; l’ambiente è bianco, ultramoderno. Non vedo oggetti funebri o di alcuna religione intorno a me. La tipa mi spiega che in questo modo i clienti rimangono meno turbati e si predispongono favorevolmente all’acquisto, il bianco dell’ambiente li rilassa. Figo! Non ci avevo mai pensato!
Le faccio la mia richiesta insolita. Sgrana gli occhi, si blocca, non sa cosa dire. Smorzo il sorriso mezzo stampato sul volto mentre inarco le sopracciglia passandomi pollice e indice sulle labbra. Lei diventa rossa, abbassa lo sguardo e porta la mano destra sui capelli, lisciandoli nervosamente mentre si guarda attorno. Il suo capo non c’è, non vuole creare problemi. Tituba, alla fine accetta non appena le mostro due banconote da venti dollari.
«Please, come on», mi sussurra. È suadente, mi chiede di seguirla con un cenno della mano.
Entriamo in una grande sala attigua. Mi ribadisce che ho poco tempo, non più di mezz’ora, il suo capo sta per arrivare in sede. Le confermo che mi basterà, tranquilla, le faccio capire. Nessun casino, sarò rapido, mentre le chiedo il suo nome. Si chiama Liza.
«Piacere, I’m Enrico. I’m an italian photograph.» Ammicca. Non sa più come farmi intendere che le piaccio mentre si bagna le labbra con la lingua.
«Ok, ok.» Mi dice di fare in fretta e in silenzio.
Liza esce dall’enorme stanzone bianco richiudendo la porta alle sue spalle. Rimango da solo. Mi guardo intorno, il bianco assoluto delle pareti e del pavimento fanno risaltare gli oggetti che mi circondano. Attorno a me, un numero incredibile di bare. Chiare o scure, intagliate, imbottite, sobrie, con interni colorati. Appoggiate alle pareti o disposte orizzontalmente in modo allineato. Le sfioro con le dita mentre chiudo gli occhi. Lascio che sia una di queste a trasmettermi le vibrazioni necessarie a esaltare i miei sensi, a chiamarmi.
La mia fantasia si eccita all’improvviso, risolvo con un’impennata non appena l’odore pungente e acre del legno verniciato rimbomba nelle mie narici. Una bara mi attrae più delle altre, apro gli occhi.
«Cazzo! È questa. Se crepo a New York beccandomi il virus, deve essere questa!» Ridacchio mentre con la mano sinistra palpeggio il mio scroto attraverso i jeans. Un po’ di scaramanzia non fa male, mi allungo la vita. Faccio finta di essere tranquillo, un brivido mi attraversa elettricamente tutto il corpo. Sposto uno sgabello alto davanti alla bara che ho scelto e lo piazzo a mo di cavalletto.
È perfetta per me, anche la misura mi sembra cucita addosso. La osservo meglio attraverso la luce fioca che filtra da una finestra alta posta sulla parete trasversale. Illumina la stanza in maniera fantastica, l’idea funebre che dovrei avere di quell’ambiente è una percezione che non mi appartiene per nulla. Il riflesso nero lucido della bara amplifica il bagliore caldo e bianco assolutamente avvolgente del suo interno, in pelle morbidissima. Sembra una trapunta candida. All’altezza del capo, vi è un’imbottitura che sembrerebbe davvero invitare al sonno eterno.
Deglutisco e respiro piano. Sistemo cinicamente la Pentax davanti a me. Devo sbrigarmi, ho poco tempo, rifletto. Voglio che la creatività non mi abbandoni. Sarebbe un servizio fotografico eccezionale: lasciare che il ritratto di sé da morto si perpetui in vita attraverso i suoi protagonisti. La mia ossessione per l’immagine interesserà altre persone, lo sento. Potrebbe diventare uno scoop incredibile, fortunato. Lo proporrò a molti Vip, che si vedranno così come potrebbero essere da morti, mi auguro nel futuro prossimo e più lontano possibile. La strizza da Coronavirus fa fare pensieri davvero strani!
Rifletto sul colorito del mio viso. Non ho tempo per truccarmi. Non ho voglia di riprodurre il pallore cinereo in maniera falsata, lascio che la luce faccia tutto lei. Correggerò semmai dopo, qualora ne ravvisassi la necessità.
Sistemo la macchina in funzione autoscatto per riprendere le foto in successione. Ho pochi secondi per entrare dentro...