A un metro di distanza
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A un metro di distanza

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About this book

Un diario scritto a penna, per tenere memoria dei giorni di quarantena. Daniela Di Fiore – citando Dante, Boccaccio, Manzoni, Whitman, Sepúlveda e altri grandi della letteratura – cura la solitudine con la scrittura mostrando scorci di una nuova vita quotidiana fatta di mascherine, file per fare la spesa, balconi che si animano con canzoni e iniziative spontanee. Le distanze fisiche e sociali imposte dalla quarantena – sottolinea l’autrice, che nella vita insegna italiano e storia ai ragazzi e alle ragazze ricoverati nei reparti del Policlinico Gemelli di Roma – non sono altro che la quotidianità dei suoi alunni, che con le loro storie hanno profondamente modificato e plasmato la sua anima.
“Il coronavirus ci sta ponendo tanti interrogativi. Quello pagato dall’intera umanità è stato un tributo altissimo. Allo stesso tempo, però, questa fase storica può anche offrirci un insegnamento. E c’è anche bisogno di trasmettere un messaggio di speranza. Speranza di cui il nostro Paese ha necessariamente bisogno. Perché, come ha scritto Daniela, citando il romanzo Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di Luis Sepúlveda, anche lui vittima del coronavirus, noi ‘non dobbiamo fare altro che aspettare il sole dopo la pioggia’”. (Luigi Contu)
“Un libro da leggere ora e da rileggere tra qualche mese, quando l’incubo coronavirus sarà, speriamo, finito. Proprio per vedere se il nostro mondo, così provato dalla pandemia, ne sarà uscito vincitore e soprattutto migliore”. (Gabriele Manzo)
“Oltre alle ragioni sanitarie, ci sono anche importanti ragioni economiche per investire grandi risorse nella protezione della salute. Potrebbe servire non solo a contenere l’epidemia ma a ridurre gradualmente le restrizioni che affliggono l’intero sistema economico. Questo perché se le misure di isolamento dovessero durare più di due mesi, le perdite saranno presto così ingenti da non poter essere paragonate a nessun’altra crisi economica o disastro naturale del passato, almeno in Europa”. (Antonio Coviello)
I proventi dei diritti d’autore di questo libro saranno devoluti ai reparti di terapia intensiva dell’ospedale Cotugno di Napoli.

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Aprile

Mi chiedo se davvero l’umanità diventerà migliore nel post - coronavirus e se la disperazione in cui la pandemia ci ha fatti piombare ci offrirà l’opportunità di immaginare e costruire un mondo più etico. Ci sono molt i segnali positivi che mi fanno ben sperare. Ma poi quando leggo dai giornali che un’infermiera di Lucca, tornando a casa, dopo una estenuante giornata di lavoro nel reparto di malattie infettive, ha trovato nella casetta delle poste un biglietto condominiale con scritto : “Grazie per il C ovid che tutti i giorni ci porti e ricordati che ci sono anziani e bambini”, ritorno tristemente con i piedi per terra. E mi rendo conto che sono un’idealista incallita e che forse dovrei capire che, se non riusciremo a rompere con un passato fatto di avidità e opportunismo, ci trascineremo come una palla al piede, pesante e dolorosissima, tutto il peso del nostro odio, del nostro egoismo, dei nostri pregiudizi .
È passato quasi un mese da quando l’Italia è in l ockdown, da quando il Paese è tutta zona rossa o meglio è tutta una zona protetta a causa del Covid-19. Il coronavirus ci ha messi in ginocchio. Gli scienziati dicono che la battaglia è ancora lunga, che non siamo ancora fuori pericolo e che dovremmo stare ancora per uno o più mesi in isolamento, lontano dei nostri cari e dalle nostre piccole abitudini quotidiane. Tempi duri, di quarantena, di distanza sociale e, inesorabilmente, di ansia. Tanto tempo per pensare, per riflettere, per leggere, per migliorare.
Marzo è trascorso ed è stato un mese molto sofferto, difficile. Funerali senza lacrime. Messe senza fedeli. Strade deserte. Scuole chiuse. Una delle cose che mi rattrista di più è passare davanti le scuole e vedere i cancelli sbarrati. Perché la scuola, oltre a essere la mia vita, è un luogo, il luogo, della socialità. E la scuola manca anche a loro, ai ragazzi e ai bambini, ne sono certa. Basta leggere la lettera di Adele, terza elementare, al presidente Mattarella:
Caro signor Mattarella ,
scusi per il disturbo. Sono Adele e faccio la terza elementare. Le volevo chiedere se è possibile riaprire la scuola, magari andiamo con la mascherina e i guanti e tra i compagni non ci prestiamo le cose, stiamo meno ore. La prego , per favore , riapra le scuole, io non ci capisco più niente, tra video, riunioni e schede non imparo più niente. E anche se le mie maestre sono super brave, senza scuola sono persa tra le nuvole”.
Purtroppo le scuole non riapriranno. Bisognerà aspettare a settembre. Anche gli esami di Stato probabilmente saranno svolti da remoto. E non sarà la stessa cosa. Non ci sarà l’emozione di ritrovarsi tutti insieme ad affrontare la prima vera prova della vita, non ci saranno le lacrime di commozione o le risate di gioia quando si esce dall’aula dopo aver finito l’esame orale. Non ci saranno i gavettoni, le feste con gli amici e i primi viaggi all’estero promessi come premio dai genitori. Ricordo perfettamente il mio esame orale. Un sabato mattina, caldissimo, di inizio luglio. Il commissario esterno di italiano che mi chiede Verga e mi mostra il compito di italiano che avevo svolto sulle tragedie di Manzoni. Presi cinquanta sessantesimi. Appena uscita, ricordo perfettamente quella sensazione, quasi inebriante, di libertà. Quella che mi manca, ci manca, adesso. Perché in questo marzo strano, particolare, surreale, ci siamo dovuti abituare, gioco forza, a rimanere ognuno nella propria casa, in un isolamento sociale, doloroso ma necessario, perché non c’era altra scelta.
In realtà, io avevo sperato che con i primi di aprile si potesse riprendere, almeno a piccoli passi, una vita quantomeno normale e avevo programmato le vacanze pasquali con la mia famiglia a Napoli. Purtroppo non è stato possibile e mi sono dovuta accontentare di una telefonata anche la domenica delle Palme, che normalmente trascorrevo con mia madre e mio padre. Ed è stata una strana domenica delle Palme, perché il Papa ha presieduto la solenne celebrazione liturgica in una basilica di San Pietro pressoché vuota. Niente processione con i ramoscelli di ulivo, la benedizione svolta ai piedi dell’altare in solitudine. Il Santo Padre si è rivolto ai giovani e ha detto di guardate ai veri eroi che non “sono quelli che hanno fama, soldi, successo ma quelli che danno se stessi per servire gli altri, che sono chiamati a mettere in gioco la vita per gli altri. Non abbiate paura di spenderla per Dio e per gli altri, ci guadagnerete, perché la vita è un dono che si riceve donandosi e perché la gioia più grande è dire sì all’amore senza se e senza ma, come ha fatto Gesù per noi”. Nell’omelia, il Pontefice ha detto che nel dramma della pandemia Gesù dice a ognuno di aprire il cuore al suo amore per sentire la consolazione di Dio che ci sostiene.
Per me che sono cristiana, il sostegno di Dio è fondamentale e mi ha accompagnato in tutti questi anni di lavoro in ospedale a contatto con ragazzi e ragazzi che soffrono e che, purtroppo, a volte muoiono giovanissimi. Mi rivolgo spesso a Dio, a volte per chiedere di sostenermi in questo mio percorso di vita, perché, sebbene potrei rientrare in una scuola cosiddetta normale, ho scelto, scelgo ogni giorno, di rimanere nella scuola in ospedale. Altre volte mi rivolgo a Lui arrabbiata e gli chiedo se si è girato dall’altra parte o se si fosse distratto, quando uno dei miei alunni o un bambino del reparto di Oncologia pediatrica ci lascia. Ho uno strano rapporto con Dio, lo ammetto, e le parole del Papa in questa strana domenica delle Palme mi hanno dato l’ennesima conferma che il mio posto è in ospedale.
È stata una domenica delle Palme molto particolare. Surreale anche vedere il Papa inconsuetamente serio, quasi sofferente, come la sera della benedizione speciale Urbi et Orbi, quando aveva detto, in una piazza San Pietro, deserta e piovosa, che “noi credevamo di poter rimanere sani in un mondo malato”. Basta guardare le immagini dei fenicotteri rosa che camminano indisturbati sulle strade in Sardegna o quelle della medusa che fluttua nei canali, finalmente limpidi, di Venezia, o i delfini, riapparsi dopo anni, nel Golfo di Napoli. Immagini surreali, quasi magiche. È la natura che si sta riprendendo i suoi spazi. Ed è vero, noi pensavamo d’essere immuni al male, che distruggendo il nostro mondo, facendolo ammalare, saremmo sopravvissuti come i supereroi dei fumetti. E invece il Santo Padre ci ha ricordato che se non riusciremo a guarire il mondo, nemmeno noi potremo guarire.
Dopo la messa, a sorpresa, ho ricevuto una videochiamata di mio padre, che ha voluto fare a distanza la benedizione con la palma e l’acqua santa. È una nostra tradizione di famiglia: la persona più anziana a tavola, dopo la messa della domenica delle Palme, benedice con l’acqua santa e il ramoscello d’ulivo tutti i componenti della famiglia. Mio padre quest’anno lo ha fatto in teleconferenza con me, mia sorella, mio marito e i miei nipoti per mantenere la nostra tradizione familiare, anche se non c’erano né l’acquasanta né i ramoscelli d’ulivo né c’eravamo fisicamente noi. Ognuno se ne stava solo a casa propria. Una solitudine che accomuna tutti.
Stiamo tutti vivendo un blocco forzato, doveroso ma vitale. E non esistono feste per matrimoni, compleanni, battesimi. E nemmeno, ed è inumano, riti funebri. Ma forse la potenza di questo distanziamento sociale risiede proprio nel fatto che siamo, forse, più vicini è più uniti che mai, perché abbiamo, il mondo ha, un unico destino che lo accomuna. È paradossale: un’assenza che diventa presenza, anzi l’assenza che è essa stessa presenza.
Proprio durante il sabato santo riflettevo su come le distanze si siano incredibilmente, quasi magicamente, ristrette. Una mia amica che vive a Milano era in ansia perché la figlia, che conosco da quando era adolescente, doveva partorire. Sola in ospedale, senza nemmeno la mamma o il compagno che le facessero forza, che la aiutassero a sopportare le dolorosissime contrazioni. Le aveva dal giorno prima. Nella chat delle amiche eravamo tutte in ansia per lei e abbiamo tutte, e in ogni modo, cercato di rasserenarla. Lei ci ha ringraziato, dicendo che le nostre parole la sollevavano un po’ dal pensiero della figlia, sola, in ospedale. La domenica di Pasqua il primo pensiero di tutte noi è stato quello di scriverle in chat per chiederle come stesse la figlia e se avesse partorito. Ancora nulla. Poi la messa di Pasqua con un occhio, a dire il vero, sempre al telefono, per avere notizie della nascita della sua nipotina. E le parole del Papa: “Che il vero contagio sia la speranza”. Una vita che nasce è sempre una speranza. È un atto d’amore. Una vita che nasce mette allegria, gioia. E speranza. Alle sette della sera è nata Ginevra. E noi tutte ci siamo commosse, in modalità virtuale, in chat. E abbiamo voluto vedere le foto della mamma e della neonata. Bellissime entrambe e raggianti. È stata una domenica di Pasqua di speranza. Perché quando nasce una nuova vita si tratta di questo. Di speranza. Il nostro tempo non dovrebbe essere misurato in minuti, ore, giorni, mesi, ma negli eventi che ci accadono e di cui siamo protagonisti, negli eventi inattesi che ci cambiano la vita e ci fanno capire tante cose, anche quelle che hai tralasciato perché non gli davi importanza, anche quelle di cui non ti eri accorto per troppa superficialità anche se avresti dovuto. E ci fa pensare a tutte le cose che si danno per scontate perché non si riflette abbastanza che in questo mondo siamo solo di passaggio. Un evento come la nascita di una nuova vita deve essere per forza qualche cosa che unisce anche se siamo lontani, che ci accarezza, ci rassicura, ci fa incontrare anche se siamo a chilometri e chilometri di distanza.
Ci incontreremo ancora, “we will meet again”, ha detto la regina Elisabetta II alla tv britannica, in uno dei rari messaggi alla nazione, impeccabile nel suo tailleur verde acqua, mentre il suo premier, Boris Johnson, era stato portato in ospedale e sottoposto a terapia intensiva a causa del Covid. Questa malattia è davvero maledettamente democratica: non risparmia nessuno, nemmeno i capi di governo, nemmeno i principi, nemmeno gli scrittori più amati come Luis Sepúlveda. Lo scrittore cileno con gli occhi da sognatore, quegli stessi occhi che hanno catturato tutti i suoi lettori con il romanzo Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, è morto di coronavirus. “Sull'...

Table of contents

  1. Copertina
  2. A un metro di distanza
  3. Indice dei contenuti
  4. ​Prefazione
  5. Introduzione
  6. ​Marzo
  7. Aprile
  8. Coronavirus: dopo l’emergenza sanitaria, ecco arrivare quella economica
  9. Devoluzione dei diritti d’autore
  10. Della stessa autrice