La democrazia contagiata
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La democrazia contagiata

Come Sars-cov2 riguarda tutti i cittadini

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La democrazia contagiata

Come Sars-cov2 riguarda tutti i cittadini

About this book

Vivere in una democrazia: la pandemia ha interrogato ognuno di noi su che cosa significhi. Nei mesi del lockdown gran parte della retorica si è concentrata sui concetti di Paese e di popolo, ma è la democrazia il tema a essere stato – e a essere – messo più a dura prova. La democrazia contagiata lo analizza da tre osservatori diversi: quello di chi ha dovuto informare e raccontare cosa accadeva giorno dopo giorno; quello di chi ha operato sul campo e solo in un secondo momento ha potuto pensare a ciò che stava vivendo; quello di chi ha dovuto da subito analizzare il virus, imparare a conoscerlo, predisporre tutto il necessario per fare ricerca, perché solo questa può garantire la salute alla popolazione mondiale. Tre persone – tre ruoli – che in modo diverso ma complementare hanno dovuto guardare il virus in faccia e la prima domanda che si fanno è come è stata contagiata dal coronavirus la nostra democrazia? "Le riflessioni di Ilaria Sotis, le interviste che ci propone, smascherano il linguaggio delle retoriche che si servono di parole ad effetto come 'eroi' o 'angeli', per le carenze colpevoli di un sistema sanitario pubblico deliberatamente indebolito costringendo la gente che lo abita, e ne è responsabile, a turni massacranti con stipendi scarnificati". (Moni Ovadia)
"Sono stato testimone, da ascoltatore e in parte anche come ospite, della qualità del servizio pubblico svolto da Ilaria Sotis. Come i radioamatori coi loro baracchini e le antenne piazzate sul tetto delle automobili durante i terremoti, la radio è stata la primae spesso l'unica a produrre un'informazione tempestiva, efficace e di grande precisione". (Riccardo Noury)

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Quei giorni

Nel mondo della radio si usa il termine “bianco” per descrivere il non suono, uno spazio vuoto che viene riempito da parole, a volte solo suoni, più spesso parole e musica. Ci sono conduttori che parlano su bianco e altri appoggiandosi a una base. A me quel “bianco”, in vent’anni di conduzione radiofonica, non ha mai fatto paura. Anzi, quando mi è stato suggerito di “provare con una musica, anche leggera, in sottofondo” ho sempre risposto, con il mio tono saccente: “Il bianco è pieno di vita”. Mi aiuta a immaginare gli occhi e le espressioni degli ascoltatori; nel bianco vedo le domande e i dubbi e i disappunti e le curiosità e mi pare di percepire il respiro delle persone all’ascolto. Ma, soprattutto, ha una funzione grafica: incornicia le notizie. Il bianco consente di dare profondità alle riflessioni e alle emozioni, di ascoltare le pause, lascia spazio al suono dell’esistenza, autentico e casuale: i passi di qualcuno, una porta che sbatte, l’esitazione in una risposta, il tono della voce che si alza o si abbassa o si incrina…
Saccente – magari nel tono – però sincera: con il “bianco” – chiamiamolo silenzio – mi trovo a mio agio.
Durante i mesi del lockdown – in quella prima metà del 2020 ho condotto la trasmissione Vivavoce di Radio1 ogni giorno, senza mai fermarmi, con un’urgenza che ancora stento a spiegare, che va ben oltre la passione per il mio lavoro di giornalista –, quel bianco lo percepivo come essenziale, immenso, il vero protagonista. Attorno a noi, tutti stavano in silenzio. Un silenzio che non avevamo mai sentito. Hai voglia a cantare dal balcone, ma il Covid-19 e tutto ciò che non sapevamo (e in parte ancora non sappiamo) ci ha azzittiti.
A me – nel mio piccolo – invece è toccato il compito di parlare. E far parlare.
In radio, per prendere la linea si dice “prendere il rosso”.
Il rosso sul bianco.
Parlare per dire cosa? La realtà che abbiamo vissuto è stata totalmente inedita, piena di confusione. E di rischi. Con il Covid-19 le domande sulla sopravvivenza quotidiana si sono sovrapposte a quelle, immense, che riguardano il rapporto che ciascun cittadino ha con l’idea di democrazia. In queste pagine, fatte di racconto di quei giorni, di riflessioni su alcuni temi specifici, di scambio di informazioni e soprattutto di punti di vista, la radio è molto presente, ancora una volta ha dimostrato di avere una marcia in più. Per intervistare il medico di Codogno o dare voce ai sanitari travolti dai ricoveri già a fine febbraio e bloccati negli ospedali lombardi in attesa di colleghi per il cambio del turno, o raccogliere le prime denunce del personale delle Residenze sanitarie assistenziali (le ben note Rsa), bastava il telefono. La radio, con tutto il suo bianco, ha lasciato che la vita di fuori arrivasse fin dentro le vite degli altri.
Le tre persone che costruiscono questo libro (Marina, Guido e io) rappresentano altrettanti punti di osservazione dai quali guardare lo stesso scenario. In comune mi pare di poter dire che abbiamo la radio e il ritmo di vita che ci ha imposto l’emergenza globale Sars CoV-2. Se la pandemia e i mesi di lockdown hanno costretto tantissime persone a rallentare, per noi e per i mondi che rappresentiamo, invece, tutto si è velocizzato. Ha corso la ricerca medica, ha corso il personale medico e ha corso l’informazione. Non c’è nessun eroismo in questa constatazione, soprattutto per quanto riguarda me; so bene che quando corro, sbaglio ancora più spesso. Ma è un fatto innegabile e il mezzo radiofonico, con il suo “bianco” capace di restituire il battito cardiaco, ha rappresentato, a mio avviso, la migliore forma di comunicazione. Per il racconto pulito della realtà, per lo spazio delle domande, per la pluralità delle voci, per le emozioni: la radio è ascolto e alla base delle relazioni umane deve esserci proprio l’ascolto.


La situazione è cambiata

Gabriele L. rilascia un’intervista a Valeria Volatile per Vivavoce. Lavora come guardia medica nel pavese, ma il 24 febbraio sta aiutando il padre che fa il medico di famiglia a Codogno, “perché la situazione è cambiata”. Denuncia che mancano gli ausili, mascherine e tute, che lui ha la tosse e non gli hanno fatto il tampone, che “i tamponi sono finiti e sono stati sottoposti al test solo i medici che hanno avuto un diretto contatto con il paziente 1”. Racconta che la paura tra gli assistiti è tantissima ed è difficile gestire l’ansia delle persone, ma “visto che altri medici sono in quarantena, tanti pazienti hanno bisogno di cure anche molto urgenti”. L’intervista fa venire la pelle d’oca perché descrive una situazione caotica: non basta essere medici e trovarsi a contatto con la gente, il tampone viene fatto solo se ci sono criticità respiratorie. “Il problema – dice Gabriele – non è per me che sono giovane, ma lo diventa per eventuali persone fragili con cui posso entrare in contatto. Aspettiamo direttive, ma intanto lavoriamo. Gli anticorpi di questo virus nessuno li ha e il sistema sanitario non è detto che riesca a reggere”. Verrà sottoposto a tampone qualche giorno dopo. Dovrà attenderne più di cinque per il risultato.
Prima che potessimo dare notizia in diretta (18 maggio) della proposta dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di “trattare il vaccino per il Covid-19 come un bene comune”, siamo passati attraverso mesi di infinite conferenze stampa piene di indecisioni. I primi casi accertati risalgono almeno al novembre del 2019. Filippo Santelli de la Repubblica riferisce da Pechino “di laboratori che avevano identificato il patogeno ai quali è stato ordinato di distruggere le provette”; a dicembre, i medici cinesi che hanno lanciato l’allarme vengono fermati dalla polizia, screditati e minacciati.
Il 6 febbraio 2020, quando muore il dottor Li – uno dei primi ad aver intuito la gravità del nuovo coronavirus –, le autorità cinesi provano a correggere il tiro delle repressioni. Ma è tardi: lui per la società è già un eroe e la sua storia appare emblematica di come anche per la stampa libera non è – né sarà – facile assicurare un’informazione corretta e completa.
Il 5 gennaio 2020, l’Oms spiega che in base alle informazioni provenienti dalla Cina, “non esiste nessuna prova di una significativa trasmissione interumana”. È il 15 gennaio quando un laboratorio cinese diffonde alla comunità scientifica la sequenza genetica del Sars-CoV-2. Quello stesso laboratorio che, secondo alcune fonti, sarà chiuso il giorno dopo. Nelle stesse ore viene riscontrata la trasmissibilità del virus all’uomo. Sul sito dell’Istituto superiore di sanità, il 16 gennaio 2020 appare il seguente avviso:

Casi di polmonite in Cina causati da un nuovo coronavirus (2019-nCoV)
Tra il 31 dicembre 2019 e il 12 gennaio 2020, le autorità sanitarie cinesi hanno identificato 41 casi di polmonite nella città di Wuhan causati da un nuovo coronavirus (2019-nCoV). A gennaio 2020 le autorità sanitarie tailandesi e giapponesi hanno inoltre segnalato due casi di infezione da 2019-nCoV in persone provenienti dalla città di Wuhan. Sulla base delle informazioni attualmente disponibili, l’Oms non raccomanda alcuna restrizione a viaggi o a rotte commerciali e l’Ecdc 1 valuta “basso” il rischio di introduzione del virus in Europa.

Quando ancora la definizione era “un nuovo coronavirus”…
Il 22 gennaio si decide che Wuhan, capitale della provincia dello Hubei, sarà sigillata. I dieci milioni di persone che si trovano lì diventano LA NOTIZIA.
La rapidità della progressione, l’importanza di avere dati certi e fonti dirette, l’evolversi di un’unica storia che divora tutte le altre: questo appare evidente già in quei primi giorni. Il 12 febbraio intervisto in diretta telefonica Lorenzo Mastrotto che vive a Wuhan. Agli ascoltatori di Radio1, Lorenzo descrive una città immobile, dove nessuno esce; spiega la sua scelta di rimanere a Wuhan con la famiglia (altri italiani sono rientrati con il volo inviato dal governo) con parole che ci sembrano da subito significative perché alimentano la speranza: “Non abbiamo paura, la quarantena è stata organizzata bene”. E aggiunge: “Conosciamo gente che è guarita”. Con la sua voce pacata ci racconta del gruppo The survivors creato su We Chat (il Whattsapp cinese) per alcuni italiani: “Serve a tenerci in contatto, a condividere gli indirizzi dei supermercati dove recarsi. E anche a sorridere su quello che stiamo vivendo”. Mastrotto interverrà spesso ai nostri microfoni da quel momento in avanti.


La passeggera che da Wuhan atterra a Parigi

Dati certi e definitivi dalla Cina forse non ne avremo mai, anche se correzioni di numeri ce ne sono state già nella primavera del 2020 (i decessi di Wuhan sono il 50 per cento in più di quanto in precedenza dichiarato). E non solo per la co-morbidità o gli asintomatici o la differenza abissale tra le strutture mediche delle grandi città e quelle dei piccoli centri, ma soprattutto per la scelta politica che è stata compiuta sin dall’inizio dalle autorità cinesi: il contenimento dell’ansia della popolazione. Scelta che doveva soddisfare due obiettivi: affermare la gravità della situazione per poter giustificare il lockdown (e, nei mesi successivi, altre misure di limitazione delle libertà) e convincere la popolazione – nazionale e mondiale – di padroneggiare pienamente la situazione.
Il grido d’allarme è forte, ma il grado di allerta non è preciso. La diffusione di un’epidemia non è un terremoto, non ha una scala Richter a misurarne la gravità. Molto dipende dalla rapidità e dall’esattezza delle comunicazioni. Ripensando, mesi dopo, ad alcune storie di quei primi giorni, mi vengono i brividi: la donna arrivata il 21 gennaio in Francia da Wuhan con sintomi (li ha descritti lei stessa sui social network) di cui l’ambasciata cinese dà notizie alle autorità di Parigi, viene sì visitata, ma non posta in isolamento. Di chi è la responsabilità? Della Francia o della Cina? È lei ad aver portato il coronavirus in Francia? La comunicazione si gioca sul filo delle ore: Wuhan è già chiusa, ma solo il 24 gennaio Xi Jinping pubblicamente riconosce la gravità della situazione; il 30 gennaio, il bilancio cinese è di 10.000 contagiati e 213 morti – numeri che oggi ci appaiono microscopici – e l’Oms dichiara “emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale”. È un fatto eccezionale. Dalla nascita dell’Organizzazione mondiale della sanità (7 aprile 1948), è accaduto solo altre cinque volte: nel 2009 per l’H1N1 o influenza suina, nel 2014 per la poliomielite, nel 2016 per Zika, nel 2016 e nel 2019 per Ebola. La dichiarazione di “pandemia”, invece, è datata 11 marzo.
Dal 28 gennaio, come in un time-lapse osservato da miliardi di persone, in soli dieci giorni vengono tirati su dal nulla due ospedali. Ogni pomeriggio la corrispondete Rai da Pechino, Giovanna Botteri, ci dice a che punto è questa impressionante corsa contro il tempo che è anche un’esibizione muscolare del potere. Al resto del mondo fa un effetto estraniante: le strade di Wuhan deserte, le tute bianche e le maschere respiratorie da Robocop, ma ancora tutti ci illudiamo che i cinesi stiano vivendo una realtà parallela che da noi non può arrivare. Proprio durante uno di quei pomeriggi, però, arriva un messaggio di un ascoltatore che ricordo bene: “E noi cosa faremo?” chiede. La radio fa affiorare i timori di tutti, ognuno può esprimere ciò che custodisce dentro e condividerlo con altri. Qualcuno si riconosce in quelle parole, altri le respingono, ma nasce così una relazione: un embrione di comunità. Mai come nei giorni del lockdown ho potuto verificare la verità di questa affermazione. Attraverso le voci che incrociamo – il virologo e il cittadino, il medico di base e il politico, il volontario e il bisognoso – si crea un dialogo collettivo. E mentre “prendo il rosso”, mi sembra di sentirli tutti e tutte, su bianco, porre la stessa domanda: “E noi cosa faremo?”. Una prima risposta è la decisione del governo di proclamare, il 31 gennaio, lo stato d’emergenza nazionale.
Faremo come Annalisa Malara, l’anestesista dell’ospedale di Codogno che il 20 febbraio, mentre era di turno, dinanzi al paziente 1 forza i protocolli, effettua il tampone e stabilisce l’alpha del Covid in Italia (i due turisti cinesi ricoverati e curati allo Spallanzani fanno storia a sé). Ricordare il suo nome va oltre il dovere di cronaca, non solo per quel coraggio e quell’intuizione. Annalisa Malara una volta ha detto: “Capimmo che il virus avrebbe sconvolto il nostro destino. Confidavamo in una maggiore rapidità della ricerca e in un senso più alto della solidarietà. Certi scontri, anche tra istituzioni, sono sorprendenti se contiamo le persone che muoiono”.
Tra Mattia Maestri, paziente 1, e Adriano Trevisan, 78 anni di Vò Euganeo, prima persona deceduta in Italia di Covid-19 trascorrono poche ore: il 20 febbraio Mattia, il 21 febbraio Adriano. Poche ore e solo 211 chilometri: sette mesi dopo, infatti, partecipando alla staffetta podistica Codogno-Vò, Mattia dice: “Ero morto, mi dispiace vedere che c’è ci nega il virus”. Il 21 febbraio è un venerdì, quando la mattina mettiamo in piedi la scaletta della trasmissione non c’è nulla da discutere.
Le paure inedite che il Covid scatena in noi esseri umani di questo XXI secolo cominciano ad affiorare, si affacciano qua e là, prendono nome e aspetto. Mesi dopo le riconosco come molto ben rappresentate dall’edizione del 23 maggio del New York Times: un numero che dalla prima pagina a quelle interne contiene un’infinità di nomi e vite di persone morte a causa del Covid. Stesso discorso con lo sforzo immenso dei colleghi de L’Eco di Bergamo, che arrivano a pubblicare tredici pagine di necrologi (mi ritrovo, il giorno che le pagine erano undici, a leggerli tutti: mi sembra una forma di rispetto non saltarne nessuno). Un impatto fortissimo, ogni giorno per mesi e mesi quei nomi e quelle vite che non sono più. O la copertina tutta bianca con la quale Vogue (!) va in edicola nei mesi del lockdown. Il virus ha azzittito anche Vogue.


Italia, 9 marzo 2020

A Vò Euganeo lo chiamano “il meteorite” e ha scelto di colpire per primi quelli che si trovavano alla Locanda del sole . Neanche lo sceneggiatore di un videogioco avrebbe potuto scegliere nomi più adatti, ma la storia di Vò, che dal 22 febbraio è zona rossa, descrive soprattutto una comunità di persone disciplinata, unita e fiduciosa. Il mondo intero dovrà prima o poi sapere che alcune delle conoscenze scientifiche sul Covid nascono dalla decisione di non osservare l’indicazione dell’Oms che sconsiglia il tampone. Tutti qui vengono sottoposti al tampone due volte: all’inizio del lockdown e alla fine. Andrea Crisanti, virologo dell’Università di Padova, pronuncia poche parole, ma a me risuonano ancora nelle orecchie: “Quei tamponi sono un patrimonio per la ricerca sul virus”. Gli arcobaleni disegnati dai bambini, le scritte “andrà tutto bene”, qui arrivano prima che nel resto dell’Italia.
In fondo, Sars-CoV-2 suggerisce due comportamenti paralleli e, allo stesso tempo, antitetici: rispettare le indicazioni e, all’occorrenza, rompere il protocollo. Per chi fa informazione significa muoversi su un crinale esiguo, perché si rischia continuamente di far passare due messaggi opposti.
Vò ci fa capire che Wuhan è vicina e che la Diamond Princess (la nave bloccata a Yokohama con 634 contagiati a bordo) non è un capitolo in più de La nube purpurea, celebre romanzo fantascientifico pubblicato nel 1901 da Matthew Phipps Shiel. È tutto vero, è tutto possibile. Le testate giornalistiche si organizzano: gli inviati che partono per le zone rosse (a breve, come sappiamo, tutta l’Italia sarà chiusa) al ritorno vengono messi in quarantena. Nelle redazioni – come in tutti i luoghi di lavoro – serpeggia la paura. In Rai il 22 febbraio viene istituita una task force con funzioni di coordinamento gestionale ed editoriale sull’emergenza. I programmi di intrattenimento aggiustano il tiro, spariscono ospiti e pubblico dagli studi, spuntano le facce via Skype. Noi ci interroghiamo se ha senso parlare d’altro, le altre notizie sembrano volatilizzate. Siamo solo all’inizio, ci diciamo.
Domenica 23 febbraio il presidente del Consiglio Giuseppe Conte decide di andare in onda in tutte le trasmissioni disponibili, da Domenica In a Che Tempo che Fa, da Non è l’arena al salotto della D’Urso che gli dice: “Ti chiamerò premier”, e intanto scorre il sottopancia: “Tra poco Morgan alla macchina della verità”; la voce di Conte irrompe tra i goal delle domenica su Radio1: il premier praticamente a reti unificate per ore e ore. A quella domenica siamo arrivati dopo gli assalti ai supermercati, la fuga dalla Lombardia verso il sud, le scienziate dello Spallanzani che isolano il virus.
Pensando al giorno dopo, quando sarei stata nuovamente al microfono, mi dico: “Nessuno ha manomesso la realtà. Ora più che mai è necessaria un’informazione precisa”. Imparo a memoria la definizione di coronavirus che mi sembra contenere i punti cardinali della materia di cui mi occuperò nei mesi a venire: “Sono virus a Rna, virus respiratori capaci di provocare diversi tipi di malattie, dal raffreddore alla sindrome respiratoria acuta chiamata Sars a quella mediorientale Mers. Possono contagiare mammiferi di varia tipologia. Le variazioni del genoma del virus possono fargli compiere il salto di categoria e arrivare all’uomo”.
Le comunità che si ritrovano a vivere dentro le zone rosse sono tutto ciò che da “fuori” sentiamo di dover raccontare. In un giorno l’ospedale di Lodi accoglie 51 pazienti gravi, di cui 17 in rianimazione. Mai in Europa l’intera popolazione di un’area territoriale è stata isolata dal resto del mondo per ragioni di sicurezza collettiva. Ripenso spesso a un libro letto anni prima, La parete di Marlen Haushofer. La donna protagonista di quel libro si ritrova sola al mondo ma, grazie a una parete invisibile, sopravvive indenne alla distruzione che ha colpito il resto dell’umanità; una dimensione che in lei sviluppa un senso di colpa misto a spirito di salvezza. Raccontano gli psicologi inviati nel lodigiano che gli abitanti “si sentono potenziali untori”. Mi dico che dovranno a...

Table of contents

  1. Copertina
  2. La democrazia contagiata
  3. Indice dei contenuti
  4. Prefazione
  5. La democrazia contagiata
  6. Quei giorni
  7. Solo i fatti danno credibilità alle parole
  8. Senza dimenticare gli ultimi
  9. Un vaccino per tutti
  10. Postfazione
  11. Ringraziamenti
  12. Collana iSaggi