La fonosfera degli antichi: i suoni umani
La vita contemporanea si svolge all’interno di un vero e proprio paesaggio sonoro, una “fonosfera” fatta di clacson di automobili, rombo di motori, grida o mormorii televisivi, e così via. Di certo, per esempio, la fonosfera antica non conteneva i rumori del traffico, l’urlo delle sirene o i fragori prodotti dalle fabbriche; né conosceva quel petulante mix di musica e di voci che, diffuso dagli altoparlanti, fa ormai stabilmente parte dell’arredamento (sonoro) di molti ambienti contemporanei, pubblici e privati. Ma in che cosa consiste la fonosfera degli antichi?
Possiamo immaginare che, anche in essa, circolino voci o grida prodotte dagli esseri umani, come accade nel mondo contemporaneo. Ma a parte questa immediata intersezione, identificarne altre è difficile: vengono in mente piuttosto le sonorità che il mondo antico non aveva, mentre il mondo moderno le ha; e in misura forse minore, quelle che il mondo antico possedeva mentre noi le abbiamo perdute. Almeno in media, dunque, la fonosfera dei nostri avi sarà stata più sottile e leggera della nostra. Soprattutto però diverso doveva essere il suo impasto, perché in essa figuravano suoni e rumori che nel nostro mondo, a motivo dei vari mutamenti di civiltà, sono ormai andati perduti. Si pensi per esempio ai colpi del martello, il malleus o marculus dei Romani, uno strumento che doveva essere molto più usato di oggi (da fabbri, stagnai, maniscalchi, carpentieri...); allo strepitus prodotto dalle molae, le macine dei mugnai, le quali trituravano il grano ruotando attorno a un’asse sotto la spinta di schiavi o di asini; poi naturalmente al cigolio dei carri, le cui ruote sobbalzavano sui sassi degli acciottolati cittadini. Scrive il poeta Callimaco: “Chi abita presso la via è svegliato dall’asse che stride di sotto il carro; e lo affliggono i fitti colpi dei miseri fabbri che attizzano il fuoco” (Callimaco, Ecale, fr. 351 Pfeiffer). Ma della fonosfera antica potevano far parte anche emissioni sonore più sinistre, e certo più sorprendenti per noi.
Seneca, nel I secolo, scrive che Pedone Albinovano abita sopra la casa di Sesto Papinio, uno di quelli che “sfuggono la luce”, nel senso che svolgono di notte tutte le normali attività della giornata – producendo, ovviamente, anche i relativi rumori. I quali diventano così rumori notturni, e quindi oggetto di una certa attenzione (di un certo fastidio?) da parte di Pedone, che li registra puntualmente. “Verso l’ora terza di notte” racconta “si sente risuonare la frusta (flagellorum sonus). Chiedo che cosa faccia Papinio, mi rispondono che sta facendo i conti”. Dato che a Roma la calcolatrice è uno “strumento umano”, uno schiavo, il quale funge anche da segretario, il rumore congruente alla contabilità non è un ticchettio di tastiera, ma il crosciare delle frustate. Dalle finestre di Papinio escono comunque anche suoni meno impressionanti. “Verso l’ora sesta” continua infatti Pedone “si sentono invece delle grida concitate (clamor concitatus). Chiedo che cosa succede, mi dicono che fa esercizi vocali (vocem exercere). Verso l’ora ottava della notte mi chiedo cosa significhi quel rumore di ruote (sonus rotarum): mi dicono che esce in carrozza” (Epistole morali, 122, 16).
La fonosfera degli antichi: i suoni animali
All’interno del paesaggio sonoro degli antichi, però, esiste un’altra “voce” importante che occorre registrare: le emissioni vocali prodotte dagli animali, ossia latrati, ragli, nitriti, belati, grugniti, cinguettii e così di seguito. A noi moderni capita raramente di udire la voce di un cavallo, di un asino o un di bue, spesso neppure il canto degli uccelli. Nell’antichità era diverso. Prima di tutto, le voci degli animali sono infinitamente più numerose e più diffuse di quanto accada oggi, perché le “fonti” che le emettono fanno strettamente parte del tessuto economico, sociale o semplicemente umano del mondo antico. Dato poi che la fonosfera antica è assai meno ingombra di quella contemporanea, le voci degli animali devono risultare anche estremamente più udibili rispetto ad oggi. Forse proprio per questo, ma non solo, esse sono anche voci piene di significato – e questa costituisce un’ulteriore differenza, certo la più interessante, fra la fonosfera antica e quella moderna. Un asino che raglia, o un uccello che canta, per noi costituiscono semplicemente dei suoni fra i tanti. Al contrario, per gli antichi le voci degli animali costituiscono sonorità ominose, come appunto avviene con i canti degli uccelli o con il raglio dell’asino. Sono voci che predicono il tempo o annunciano la stagione, e per questo motivo vengono ascoltate con particolare interesse da contadini o naviganti.
Basta pensare all’attenzione con cui gli antichi osservano, o meglio ascoltano, la voce del corvo, volatile divinatorio quant’altri mai. Nei libri degli specialisti romani di divinazione, gli aruspices, alla vox di questo uccello sono attribuite ben 64 significationes differenti. Anche Porfirio, filosofo e teologo greco del III secolo, ci informa che gli auguri greci (oionistai), hanno annotato l’interpretazione di numerose differenze percepibili all’interno delle voci di corvi e cornacchie; ma al di là di una certa soglia si arrestano perfino loro, e lasciano perdere, perché si tratta di sottigliezze scarsamente percepibili all’orecchio umano! Ricordiamo peraltro che, alla fine del XVIII secolo, un celebre economista francese, Dupont de Nemours, sosteneva di essere riuscito ad identificare ben 25 elementi significanti all’interno del verso dei corvi: e a mettere così insieme un vero e proprio dizionario franco-corvino.
I canti degli uccelli, comunque, non costituiscono solo una fonte di informazione riguardo agli accadimenti futuri, ma in particolare a poeti e musicisti forniscono uno straordinario serbatoio di memorie sonore, che possono poi essere riutilizzate nella composizione artistica. Basti ricordare il poeta greco Alcmane, che in una sorta di sua autopresentazione poetica, afferma: “Queste parole e il canto Alcmane trovò, componendo in linguaggio la voce delle pernici” (Alcmane, fr. 39 Page, 91 Calame). Siamo di fronte ad un artista che – con grande “modernità”, se così si può dire – ama trasferire nel proprio linguaggio poetico e musicale elementi tratti dal paesaggio sonoro in cui è immerso. Così come quando il poeta evoca il suono di uno strumento che egli definisce kerkolura, ossia “una lira che riecheggia il suono della kerkis”, la spola del telaio (fr. 196 Calame). Soprattutto, però, occorre ricordare che Alcmane mostra una particolare sensibilità proprio riguardo al mondo degli uccelli. Nei versi forse più celebri che di lui ci sono giunti, il vecchio poeta sogna di essere “un cerilo, che vola con le alcioni sul fiore dell’onda”, dove le alcioni rappresentano le giovani coreute; e se Agesicora “canta come un cigno”, le altre fanciulle, a lei inferiori, si sentono simili a “una civetta che invano dal trave grida”. Ma ecco una dichiarazione per noi ancora più rilevante, proveniente da un altro frammento: “io conosco le melodie (nomoi) di tutti gli uccelli”. Colui che afferma di aver “trovato” la propria poesia rielaborando il canto delle pernici, è contemporaneamente anche il primo degli zoomusicologi: il poeta si vanta di conoscere quelli che potremmo definire i “motivi”, ovvero le sequenze sonore caratteristiche di ciascuna specie di uccelli (fr. 3, 86 e 101 Calame; 90 Calame; ...