Il Seicento - Arti visive
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Il Seicento - Arti visive

Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 54

Umberto Eco

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Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 54

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Nel campo delle arti figurative, il Seicento è in Europa il Grand Siècle, nonostante la crisi economica, le pesti, le carestie e il declino dei centri mediterranei. La graduale uscita di scena, sul piano politico, di un Paese come l'Italia non coincide affatto con una perdita di leadership culturale e artistica. Al contrario, Roma è forse la prima città europea cui si cerca di dare struttura di capitale, e il suo processo di trasformazione, da antica città a città-capitale, è un processo al quale si ispirano le riforme urbanistiche di Londra e Parigi. Roma infatti aveva attuato per prima quella riorganizzazione di spazi, quel tracciato monumentale di strade, grandi piazze, palazzi, che sarà il lascito dell'architettura barocca. In questo ebook si ripercorrono i capolavori dell'arte secentesca, in tutte le sue espressioni e nelle sue tre linee dominanti: la corrente caravaggesca e naturalistica spenta in Italia dalla dittatura culturale dei Barberini, ma che conoscerà floridi sviluppi in Olanda con la Scuola di Utrecht e in Spagna, Siviglia in particolare; il filone classicista, che dai Carracci fino a Poussin combina il mito della bellezza antica e ideale con il gusto acclamato e ufficiale, e che ha le sue roccaforti nella Francia di Luigi XIV con l'Accademia fondata da Colbert, nell'Inghilterra neopalladiana di Inigo Jones e nella civiltà di Bologna; e infine il barocco, in cui trionfano immagine, colore e illusionismo, con l'esaltazione dello stucco nell'architettura e la contaminazione anticlassica dei materiali, in un rinnovamento radicale del linguaggio e nell'esplorazione di tutte le possibilità espressive della materia. Una linea quest'ultima che si fonda su di una diversa concezione dello spazio, molto più dinamica ed esuberante, rispetto alle rigide leggi dell'illusionismo prospettico rinascimentale. Un viaggio emozionante fra i colori e gli splendori dell'arte secentesca.

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Information

Year
2014
ISBN
9788897514862

La pittura secentesca tra Idea e Natura

I Carracci e la loro riforma
Alessandro Brogi

Gli ultimi vent’anni del Cinquecento segnano, per la storia della pittura in Italia e dunque in Europa, una svolta profonda e dalle enormi conseguenze. Protagonisti di questa rivoluzione, inizialmente appartata e all’apparenza mite, tre artisti bolognesi: Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, legati da uno stretto vincolo di parentela. Teatro della loro azione, Bologna, la seconda città dello Stato della Chiesa. È qui che nell’arco breve di un quindicennio, entro la metà degli anni Novanta, i tre pittori decretano – lavorando fianco a fianco, spesso in imprese comuni – l’archiviazione definitiva della civiltà della Maniera, ormai giunta all’esaurimento. Capisaldi programmatici: un’attitudine osservativa inedita nei confronti dell’uomo e della natura e il recupero appassionato dei grandi maestri di inizio secolo, Correggio e i Veneziani in primis. Accanto alla sperimentazione nel campo della nascente pittura di genere, è soprattutto la pittura di storia, più che mai quella sacra, a uscirne del tutto rigenerata, per farsi di nuovo racconto, emotivamente connotato e di chiara leggibilità. Dopo il trasferimento di Annibale a Roma nel 1595, che apre il grande capitolo dell’Ideale classico seicentesco, le strade dei tre pittori si separano, ma gli effetti del loro passaggio plasmeranno in vario modo la pittura dei due secoli a venire.

Gli esordi: il naturale e gli affetti

All’aprirsi degli anni Ottanta, è Ludovico, cugino maggiore dei due fratelli Agostino e Annibale, a fare con ogni probabilità da apripista nell’ostile ambiente artistico bolognese, permeato dai principi della tarda Maniera tosco-romana e dai rigori della Controriforma, che proprio a Bologna conta uno dei suoi più zelanti portavoce: il cardinale Gabriele Paleotti, impegnato sul fronte caldissimo del controllo “morale” delle immagini (suo un testo chiave come il Discorso sopra le immagini sacre e profane, pubblicato nel 1582). Sugli altari delle chiese o nelle case della nobiltà, la lingua comune è quella della retroguardia manierista, e la pittura ben accetta quella di artisti già scomparsi, come Orazio Samacchini e Lorenzo Sabatini, campioni di un formalismo normato, o tuttora attivi, come Ercole Procaccini il Vecchio e Prospero Fontana (primo maestro di Ludovico e pro tempore anche di Agostino), inclini ad accogliere in tarda età il rigorismo cattolico promosso da Paleotti; e di altri ancora, tra cui Bartolomeo Passerotti, pittore dai toni grotteschi e umorali, e l’anversano-bolognese Denys Calvaert, latore di acutezze ottiche e grazie pungenti di origine nordica. Le prime cose di Ludovico segnano subito uno stacco nei confronti di quella tradizione. Il piccolo San Vincenzo martire del 1580 circa (Bologna, Unicredit) è acceso da un fervore nuovo e umanissimo che si espande nel paesaggio, brano mirabile, invaso di luce naturale e battuto dal vento. La dimensione meteorologica e sentimentale, nella resa del soggetto sacro, straccia le maglie formali della Maniera e spalanca un orizzonte esitenziale inedito. Ma è Annibale a esporsi per primo, nel 1583, su un altare cittadino con una grande pala per San Nicolò (il Crocefisso oggi in Santa Maria della Carità), e a generare scandalo per la rudezza scapestrata della stesura e l’irruenza del sentimento che suonano irriverenti, poiché prive di ogni decoro. Proprio come, e qui sta lo scandalo, nella coeva produzione di genere: vedi le famose Macellerie a Oxford e a Fort Worth, connotate da identica foga. Nello stesso anno i tre artisti si misurano, in un palazzo senatorio, sul terreno della decorazione profana, affrontando la prima impresa comune: il fregio a fresco con Storie di Giasone per il conte Fava, terminato nel 1584. Un illusivo, semplice loggiato di finte statue – che fa piazza pulita dell’accumulo di cartigli e cornici caro al gusto locale – introduce alle storie, di ineffabile freschezza. Il manichino manierista e la sintassi capziosa si sciolgono in un racconto piano; il gesto recupera senso, la carne calore, il paesaggio aria e luce. Allo stesso momento risale la prima pala certa di Ludovico, per l’altare di un oratorio destinato all’educazione dei fanciulli. Più che mai in questa Annunciazione (Bologna, Pinacoteca Nazionale), concepita all’insegna della semplicità di cuore e di sguardo, la Maniera è liquidata, in silenzio, ma una volta per tutte. L’evento sacro si incarna nel quotidiano, nell’intima penombra di una camera da letto: vera, ordinata, modesta, quasi un’elegia borghese. E il sentimento si fa palpabile, tanto nelle personae, quanto nelle cose.
Quella degli affetti è forse la molla profonda che muove il rinnovamento. Affetti che i tre artisti, soprattutto Annibale e Ludovico, studiano dal vero, sull’umanità più comune, di cui registrano sulla carta pose, gesti, attitudini, fisionomie, che serviranno a rendere nuovamente autentico il racconto per immagini. Perché infatti il portato di questa esplorazione travasa direttamente, cuore della “riforma” carraccesca, nella pittura a soggetto alto, quella di storia, che è ancora la pittura. È qui che si combattono le battaglie vere, come sarà di lì a qualche anno per Caravaggio. A guidare Annibale in questa direzione è l’astro di Correggio, il sublime poeta degli affetti quasi dimenticato durante la dittatura manierista ma al quale già si era rivolto un manierista di fronda come Federico Barocci. L’incontro con le opere dell’Allegri a Parma, e poi a Reggio, accende un amore intenso i cui effetti si misurano già nel fregio Fava o nell’incantevole Allegoria oggi a Hampton Court, e debordano nel Battesimo di Cristo in San Gregorio (1585) e nella coeva Pietà per Parma (Parma, Pinacoteca Nazionale).

Il disegno e l’Accademia degli Incamminati

Strumento principe del loro operare, secondo una prassi consolidata nel Cinquecento, il disegno, praticato in abbondanza dai Carracci (lo dimostra la mole dei fogli superstiti) in tutte le sue varianti tecniche, espressive e funzionali; ma non solo, com’era consuetudine, a scopo progettuale, per elaborare e perfezionare un’invenzione, e quasi mai come mero esercizio anatomico. Esso è piuttosto un mezzo di indagine sull’infinita varietà, appunto, del teatro umano, anche a prescindere dalle necessità progettuali. Fin dal 1582 i Carracci aprono bottega, la famosa “stanza”, e fondano un’Accademia, detta delli Desiderosi, poi del Naturale, quindi degli Incamminati. Il disegno è praticato lì, sul modello, nudo o abbigliato, ma dotato spesso – cosa nuova – di una concreta identità: a volte uno di loro, più spesso un lavorante o un garzone della bottega stessa. I tanti fogli sparsi con teste di giovani o di fanciulli, veri e propri ritratti, testimoniano però che il disegno è praticato anche al di fuori dell’atelier, in mille altre occasioni, per strada, in osteria. Nell’Accademia si discute di tutto, ma più che altro si mette alla berlina la Maniera tosco-romana, svelandone gli abusi e l’insincerità, in nome della natura e della grande tradizione settentrionale, ingiustamente emarginata; lo testimoniano le sarcastiche “postille” alle Vite del Vasari, stilate da Annibale. Il contributo di Agostino è soprattutto sul fronte erudito ed è lui, abile incisore (la sua prima formazione avviene proprio in quest’ambito, presso Domenico Tibaldi), che da subito inonda la stanza di una quantità di stampe di traduzione: dalle glorie locali, ma anche, quel che più conta, dai grandi testi della pittura veneziana moderna. Che il fratello e il cugino imparano a conoscere così.

Una nuova pittura di storia e la scoperta di Venezia

Negli ultimi anni Ottanta Ludovico, in anticipo sugli altri, rompe le resistenze in città. Prima, sul 1585, due capolavori misurano gli estremi del suo arco espressivo: la grande Flagellazione oggi a Douai, quasi un annuncio di Caravaggio per la violenza cruda della luce e della realtà che essa svela; e la piccola Visione di san Francesco (Amsterdam, Rijksmuseum), idillio notturno ai margini di un bosco, dalla sintassi elementare, dove il poverello di Assisi accoglie fra le braccia il piccolo Gesù come uno zio impacciato e premuroso. Questa capacità di adattare il registro espressivo alla situazione iconografica guida l’artista nelle prime commissioni di prestigio, destinate a un altare pubblico: la Conversione di Saul per gli Zambeccari (1587-88 ca.) e la Madonna in trono e santi (1588) per Cecilia Bargellini Boncompagni (entrambe a Bologna, Pinacoteca Nazionale). Dopo il bagno di “natura” dei primi tempi, è del tutto fugato il rischio di ricadere nel formalismo astratto affrontando la grande misura di una pala d’altare e i soggetti canonici dell’iconografia sacra. È nata una nuova lingua ufficiale, capace di ridare senso e forza alla rappresentazione. Il miracolo della Conversione si trasforma in un evento in atto, di fulmineo impatto meteorologico, in un’azione aperta e continua, per certi versi già barocca. Nella Pala Bargellini, viceversa, un’aura cordialmente familiare conferisce verità a questa accolita di sacri personaggi dalle fattezze riconoscibili, sotto il battito sincero di una luce tutt’altro che spettacolare. Sul fondo, Bologna spunta caliginosa con le sue torri. L’effetto è quello di un’accostante presenza, un senso tangibile del qui e ora, nel quale spira la malinconia del presente, capace di ridurre a misura confidenziale, prossima al fedele, persino l’aulica impostazione diagonale d...

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