Le forme espressive della prima filosofia
“Se possedessimo ancora l’opera puramente filosofica (dogmatica) di Platone [...] allora avremmo davanti a noi la filosofia di Platone in una forma più semplice. Invece possediamo soltanto i suoi dialoghi, e questa forma ci rende difficile farci subito un’idea della sua filosofia e darne un’esposizione precisa. La forma dialogica contiene molti elementi, molti lati eterogenei”. (G.W.F. Hegel, Lezioni di storia della filosofia, II 1)
Fin dai suoi incerti inizi, nel VI secolo a.C., la forma di sapere che più tardi sarebbe stata chiamata filosofica deve lavorare alla definizione di un ambito intellettuale autonomo e di uno specifico stile di pensiero, e, parallelamente, di una adeguata forma espressiva. Le manca anche una denominazione che la distingua dalla “sapienza” sophia), una dimensione condivisa da altre e tradizionalmente più autorevoli figure intellettuali come i poeti: sembra infatti che il termine “filosofia” (amore del sapere) abbia assunto il suo significato specializzato, e destinato a una durevole fortuna, solo verso la fine del V secolo a.C., nell’ambito del gruppo socratico-platonico.
I “filosofi” degli inizi sperimentano dunque varie forme espressive, muovendosi nell’ambito delle possibilità offerte dalla tradizione culturale. Si tratta in primo luogo della stessa forma letteraria poetica – l’esametro omerico – che è propria anche ai loro grandi rivali sul terreno della “sapienza”, i poeti epici e gnomici come Omero ed Esiodo. I messaggi sapienziali di Parmenide ed Empedocle (destinati forse a venire eseguiti come vere e proprie performances di fronte a un pubblico ristretto) si valgono dunque dell’autorevolezza della scrittura poetica, come risulta quasi inevitabile nell’ambiente siciliano e magno-greco. Sull’altro versante del mondo greco, lo ionico Eraclito affida invece il suo pensiero alla forma, altrettanto prestigiosa, della sentenza oracolare (secondo una tradizione, i detti eraclitei, incisi su tavolette d’oro, vennero affidati alla custodia di un tempio). In territorio ateniese, Anassagora occupa una posizione di crinale: il suo messaggio di verità sul mondo è globale quanto quello dei suoi predecessori italici e ionici, ma viene affidato alla scrittura in prosa, largamente diffusa nella cultura attica del V secolo a.C.
In questo ambiente culturale vengono a delinearsi due tendenze prevalenti. Da una parte, la trascrizione rielaborata di conferenze pubbliche, praticata in primo luogo dai sofisti che vi espongono le loro tesi, spesso intellettualmente provocatorie; ma letture pubbliche di testi, cui seguiva la loro diffusione scritta, sono tenute anche dai grandi storici come Erodoto e probabilmente Tucidide. Un altro filone fiorente della letteratura in prosa è costituito dalla nascente manualistica tecnica, dalla medicina all’architettura alla matematica; e a questo filone, più che alla precedente forma sapienziale, possono forse venire accostati i trattati filosofico-scientifici di Democrito, purtroppo interamente perduti.
Nel percorso della sua formazione, dunque, il sapere filosofico ha oscillato tra messaggi sapienziali in forma poetica oppure oracolare, e scrittura in prosa intermedia tra la lecture sofistica e la manualistica tecnica.
Il dialogo come forma espressiva e pratica intellettuale
La decisione di dotare la filosofia, oltre che di questo nuovo nome, di uno specifico ambito di argomenti e soprattutto di un’altrettanto peculiare forma argomentativa, per confutazione e dimostrazione, che la distinguano da tutte le altre forme di sapere, tradizionali o moderne che siano, viene presa nell’ambito del gruppo socratico negli ultimi decenni del V secolo a.C. Ad essa corrisponde l’adozione di quella forma espressiva, il dialogo filosofico, che di solito si attribuisce a Platone ma che costituisce invece probabilmente la modalità del linguaggio filosofico in cui il suo stesso pensiero si era formato, e che naturalmente egli porta alla sua espressione più elevata.
Il dialogo, inteso come dibattito in cui si confrontano opinioni rivali, non è certamente un’invenzione socratica. Sullo sfondo sta naturalmente la consuetudine, tipicamente ateniese, del dibattito politico nell’assemblea e nella boulé, e di quello giudiziario nei tribunali. Ci sono poi i memorabili dibattiti tramandati, o piuttosto inventati, dagli storici, come il logos tripolitikòs (sulla miglior forma di governo) nel III libro delle Storie di Erodoto, o quello fra gli Ateniesi e i Meli nel V libro di Tucidide. Nel campo della poesia, il teatro, soprattutto quello euripideo, è naturalmente ricco di confronti dialogici fra i personaggi (il cui carattere principale, che si sarebbe trasmesso al dialogo filosofico, è l’assenza della voce dell’autore); secondo la tradizione, inoltre, Platone si sarebbe particolarmente ispirato ai mimi di Epicarmo e di Sofrone (che secondo Diogene Laerzio teneva “sotto il cuscino”).
È però certamente il modo in cui Socrate stesso concepisce e pratica la filosofia – il confronto dialogico diretto con gli intellettuali, i politici, i poeti della polis, inteso alla confutazione di idee preconcette e alla ricerca di soluzioni teoriche più adeguate – a fondare quello che per qualche decennio diventerà un vero e proprio genere letterario: il logos sokratikòs, il dialogo filosofico. Come avrebbe notato Aristotele, esso costituisce una rappresentazione (mimesis) di incontri che si presumono realmente avvenuti (Poetica 1447a28-b13). Può darsi che una sorta di trascrizione di dialoghi reali sia effettivamente all’origine del genere, come viene attestato nel prologo del Teeteto di Platone. Ma la scrittura di dialoghi conosce subito uno straordinario successo all’interno del gruppo socratico e, è lecito presumere, presso i lettori colti di Atene. Dalle scarne testimonianze che ci sono pervenute, raccolte (ad eccezione dei testi platonici e senofontei) a cura di Gabriele Giannantoni in Socratis et socraticorum reliquiae, abbiamo notizia di almeno 14 autori di logoi sokratikòi, per circa 200 titoli in 250 libri (inclusi Platone e Senofonte), che furono pubblicati nei primi trent’anni del IV secolo a.C.: una produzione di dimensioni assolutamente imponenti, che rende sorprendente il successo del genere e altrettanto sorprendente il suo subitaneo tracollo, dovuto, è il caso di anticipare, alla nascita delle scuole di filosofia e alla loro esigenza di disporre di trattazioni organiche e sistematiche, che avrebbero assunto la forma, questa sì definitiva, del trattato filosofico.
La comparsa del dialogo socratico significa l’avvio di una competizione fra generi: da un lato la letteratura filosofica, che cerca di legittimare un suo spazio nel contesto culturale della città, dall’altro i suoi rivali, quello tradizionale, la poesia, e quelli più recenti, la sofistica e la retorica istituzionalizzata con successo da Isocrate. Ma significa anche il provvisorio affermarsi di un modo di concepire la stessa pratica intellettuale della filosofia, che è agevole comprendere mediante il confronto con la forma trattato, destinata a succedere al logos sokratikòs. Nella grande stagione del dialogo, ciò che la filosofia mira ad affermare non è un insieme di contenuti dottrinali (che siano sapienziali, alla maniera dei vecchi maestri di verità, oppure, più modernamente, “scientifici”), bensì uno stile di razionalità, che a sua volta non può andare disgiunto da una forma di vita (Aristotele avrebbe osservato nella Retorica che a differenza del logos matematico, privo di finalità, quello socratico mira comunque a influenzare “costumi e scelte morali”, III 1417a18-21). Il dialogo stimola l’interlocutore ad esporre le sue convinzioni in materia di etica, di politica, di cultura; sottopone poi queste opinioni a un’argomentazione confutatoria (elenchos), che mira a dimostrarne l’accettazione acritica, e può concludersi con l’esortazione a un’ulteriore ricerca o con la proposta di nuove prospettive, meglio fondate anche se in ogni caso provvisorie. La razionalità filosofica si definisce dunque come una pratica di pensiero critico rivolto contro i giacimenti tradizionali di pregiudizi e idées réçues, e mirante ad una consapevolezza teorico-pratica più matura, quindi anche a forme di vita riformate sulla base di questa consapevolezza. Il suo ambito, almeno in questa prima fase, è essenzialmente etico-pratico, ma la stessa pratica dell’argomentazione dialogica porta la filosofia a dotarsi di strumenti logico-metodici, e più in generale epistemologici, che possano legittimare le sue pretese di verità in opposizione alla mera persuasione irrazionale indotta da retorica e poesia.