Quel languido sapore
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Quel languido sapore

Stefano de Luca

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Quel languido sapore

Stefano de Luca

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Il languido sapore si ispira alla "Palermo felicissima" dell'Ottocento, che suscitava un interesse internazionale senza eguali in tutta la penisola. Al centro la storia dei due protagonisti, cui è riservato il privilegio di attraversare i cambiamenti dell'Unità Nazionale e del nuovo secolo, incrociando personaggi di primo piano, come Crispi o Giolitti nel campo politico, Florio in quello imprenditoriale, Ernesto Basile insuperato maestro del Liberty. Essi vivono la propria vita, con l'ansia insaziabile di gustare il profumo dell'avventura, di ricercare la bellezza e rendersi capaci di riprodurla, senza mai accontentarsi, perché significherebbe precipitare nell'abisso più profondo dell'anima.

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Information

Year
2021
ISBN
9788864920979

1. Infanzia di Fabrizio e racconti paterni

Per la gioia dei suoi genitori, che attendevano da tempo l’erede, il giorno 15 dicembre del 1826 veniva al mondo Fabrizio Crisanti della Gulfa, un bambino sano e bellissimo con i suoi occhi neri come carboncini, uno sguardo accattivante, tanti capelli sul capo e pieno di vitalità, che ispirava una simpatia istintiva. Il padre Alfonso lo sollevava con aria fiera per mostrarlo a tutti, mentre la madre Maria Cristina si preoccupava di questo modo troppo disinvolto di trattare il neonato. I parenti facevano a gara per poterlo tenere in braccio o fargli una carezza. Si trattava di un figlio intensamente desiderato e arrivato a rallegrare la casa dopo quasi sei anni di matrimonio. Alfonso Crisanti della Gulfa, esercitava la professione di avvocato a Palermo, ma coltivava, come passione della sua vita, l’agricoltura nel proprio vasto feudo della Gulfa sulle Madonie, tra Castelbuono e San Mauro Castelverde, comprato dal nonno insieme al titolo baronale, poi riconosciuto dal re. Doveva occuparsi inoltre dell’altra estesa proprietà di famiglia, che era il feudo dei Porrazzi nel corleonese, portato in dote dalla moglie, figlia maggiore del barone Leoluca Leone. Quindi cercava di concentrare la propria attività forense nei primi giorni della settimana, in modo da potersi trasferire in campagna, a partire dal giovedì o dal venerdì, fino alla domenica sera per la cura dei due feudi. Crescendo, Fabrizio fu contagiato dalla passione per la campagna e sovente, quando poteva liberarsi dai severi impegni scolastici, nei periodi di vacanza, seguiva il padre per scoprire i segreti dell’agricoltura e aiutarlo nelle incombenze necessarie. Cominciò con l’imparare tutti i lavori manuali per capirne la tecnica e poterne apprezzare la durezza, tanto che, nel tempo, ebbe molta influenza nel convincere il genitore a una continua modernizzazione delle aziende per rendere meno duro il lavoro di contadini e pastori e aumentare, al medesimo tempo, la produzione, migliorandola.
La sera, quando erano da soli in campagna, il genitore, fervente patriota e orgoglioso della propria sicilianità, ne raccontava al figlio la lunga storia, che durava ininterrottamente sin dal 1130, dopo la fusione del ducato di Puglia e della Contea di Sicilia, da parte di Ruggero II d’Altavilla. Questi, elevando al rango di Regno i propri possedimenti, aveva stabilito la capitale a Palermo, attestandosi quindi come il più importante ed esteso degli Stati della penisola e riconoscendo allo stesso tempo a quello siciliano, che venne istituito, il ruolo del più antico Parlamento del mondo. In seguito, la corona era passata ai Normanni, attraverso il matrimonio di Costanza, ultima degli Altavilla, con l’imperatore Enrico VI, ma, alla morte di quest’ultimo, la stessa Costanza, legittima regina, aveva regnato quale tutrice di Federico II, ancora minore. L’erede, una volta prese le insegne reali, si rivelò, come gli antenati, un guerriero coraggioso e assicurò al Regno il massimo splendore, ampliandone i confini, che si estendevano fino alle coste del Nord Africa. Al giovane Fabrizio, molto curioso di conoscere le radici storiche della propria terra, il padre spiegava le complesse vicende che avevano portato, dopo la fine della dinastia normanna, con la crudele uccisione del giovane Corradino, a un’ininterrotta successione al trono di famiglie regnanti straniere. Nel 1263 la corona era stata affidata da papa Urbano IV al francese Carlo I d’Angiò, ma la dinastia angioina non fu mai amata dal popolo siciliano, fino all’insurrezione dell’isola attraverso la famosa rivolta dei Vespri Siciliani, che cacciarono i francesi. Al giovane piacque molto la storia di questa rivoluzione, che, secondo la leggenda, era scoppiata perché, durante una funzione religiosa, dei soldati francesi avevano infastidito una donna siciliana. La protesta era esplosa contro l’esercito francese, nel quale si notavano ancora tratti dell’origine barbarica per la rudezza dei modi e, particolarmente, per l’assoluta mancanza di rispetto verso le donne, elemento che invece i siciliani tenevano in gran conto.
La corona venne quindi assegnata nel 1282 a Pietro III d’Aragona, che inaugurò un periodo abbastanza felice durato due secoli, finché gli aragonesi non declassarono il Regno al rango di Vicereame, pur rimanendo tuttavia rispettosi del ruolo del Parlamento siciliano, ma suscitando un notevole scontento. Successivamente, dal 1504 sia il Regno di Sicilia che quello di Napoli, passarono sotto la corona spagnola dei Borbone, che li avevano conquistati entrambi. Il genitore narrava al figlio queste vicende come un romanzo di avventura, ma, a una certa ora, s’interrompeva perché non voleva che il ragazzo perdesse sonno. Fabrizio, avido di conoscere il seguito di quelle storie, la sera successiva chiedeva di ricominciare la narrazione. Il barone Alfonso si soffermava in particolare sulle vicende del XVIII secolo, durante il quale il Regno di Sicilia fu una specie di merce da baratto. Con la pace di Utrecht, fu nominato sovrano Vittorio Amedeo di Savoia, che regnò fino al 1720, rinunciandovi dopo in cambio del nuovo titolo di re di Sardegna. Dopo un breve periodo asburgico, la Sicilia nel 1734 fu riconquistata dalle truppe spagnole dell’infante di Spagna Carlo di Borbone, che il 3 luglio 1735, fu incoronato re nella cattedrale di Palermo, ma, dopo appena una settimana, fissò la sede della sua corte a Napoli pur mantenendo le corone di Sicilia e di Napoli e lasciando a Palermo un viceré, circondato da funzionari napoletani, con non poco malessere popolare. Alfonso raccontava al figlio che i siciliani coltivarono una speranza, quando, nel 1787 con l’insurrezione di Napoli sostenuta dalle truppe francesi napoleoniche, venne proclamata la Repubblica Partenopea e Ferdinando, con la sua corte e il tesoro del Regno, ripararono a Palermo, protetti dalla flotta inglese dell’Ammiraglio Nelson. Riaperto l’antico palazzo reale, il Sovrano ricevette dall’aristocrazia palermitana una calda accoglienza, nella convinzione che si potesse trattare di una svolta per pervenire a una Costituzione del Regno di Sicilia, che ne salvasse, attraverso un suo Parlamento con ampi poteri, la reale autonomia, rispetto a quello di Napoli, anche se quest’ultimo fosse ritornato, come tornò, nelle mani dei Borbone, con tutte le caratteristiche di un regno separato, sia pure con le due corone unite sul capo del medesimo re. Purtroppo, Ferdinando era un uomo di modestissime capacità, vendicativo perché profondamente frustrato e incapace di mantenere la parola. Dopo il ritorno a Napoli, cui aveva inflitto un’atroce repressione, dimenticò tutte le promesse fatte ai siciliani. Tuttavia, in seguito si vide costretto, quando i francesi di Gioacchino Murat e Giuseppe Bonaparte lo avevano estromesso di nuovo dal trono napoletano, a fare mestamente ritorno a Palermo, sapendo di non riscuotere più la fiducia della delusa aristocrazia palermitana, che aveva anche il sostegno della borghesia colta e più facoltosa e un largo consenso popolare. Fu costretto quindi ad ascoltare i consigli della regina, Maria Carolina d’Asburgo, donna con un fisico imponente, ma piacente, generosa e dotata dal fascino che le derivava dalla sua nascita, quale figlia dell’Imperatore d’Austria e sorella della sfortunata Maria Antonietta, regina di Francia, giustiziata sul patibolo. Pertanto, decise di nominare reggente il figlio Francesco, al quale affidò il delicato compito di ripristinare la Costituzione del 1812, riuscendo a sedare la minaccia di una rivolta popolare e a far rientrare il cattivo umore dell’aristocrazia. Il barone Alfonso della Gulfa raccontava al figlio di essere stato tra i più attivi della piccola nobiltà siciliana, insieme alla borghesia intellettuale, nel rivendicare con la Costituzione, la separazione dei poteri per rafforzare il ruolo del Parlamento siciliano. L’obiettivo principale era, nell’ipotesi che Ferdinando avesse riottenuto il Regno di Napoli, che quello di Sicilia fosse completamente indipendente e che non sarebbero più tornati i funzionari napoletani a comandare nell’isola in nome dell’autorità regia. Invece, dopo la restaurazione decisa dal Congresso di Vienna, i siciliani ebbero la duplice sorpresa di vedere abrogata la Costituzione del 1812 e unificati i due regni sotto la nuova denominazione di Regno delle Due Sicilie, mentre la corte avrebbe avuto sede a Napoli. L’enorme disappunto degli isolani esplose nel 1837, dopo un’epidemia di colera che aveva causato circa settantamila morti. Al moto di piazza partecipò attivamente molta parte dell’aristocrazia e lo stesso barone Alfonso che, di fatto, aveva lasciato la responsabilità del feudo al figlio dodicenne, ma la rivolta fu presto sedata in maniera rapida e spietata dall’esercito borbonico. Nel 1837, a dodici anni Fabrizio si era fatta una preparazione sufficiente a sostituire il padre in alcune incombenze della campagna, mentre il genitore era impegnato a difendere la causa dei siciliani che si erano sentiti imbrogliati da Ferdinando II di Borbone, il quale, passata l’ondata napoleonica e stabilita dal Congresso di Vienna la restaurazione, era tornato sul suo trono di Napoli, mortificando la Sicilia. Infatti, la nuova denominazione di “Regno delle Due Sicilie”, non solo aveva abolito la Costituzione del 1812, ma, fatto ancor più rilevante, aveva cancellato l’autonoma e antica denominazione del Regno di Sicilia.
I siciliani avevano accettato, ormai da secoli, esponenti delle principali dinastie europee come loro regnanti, ma non riuscirono a sopportare la perdita dell’autonomia del loro territorio, con l’oblio della connessa storia, che si perpetrava attraverso un prestigioso Parlamento di antichissima istituzione, nel quale avrebbe avuto un importante ruolo, sedendo nel suo seno, la grande aristocrazia e la migliore borghesia colta emergente.

2. Adolescenza di Fabrizio

Fabrizio Crisanti della Gulfa, nonostante fosse figlio unico, ricevette un’educazione austera, come si conveniva a un giovane aristocratico dell’epoca. Quella primaria gli venne impartita in casa da un precettore inglese che da molti anni viveva in Italia e che, abitando in casa, lo fece crescere perfettamente bilingue. Frequentò successivamente le scuole superiori come esterno al Convitto Nazionale che all’epoca era il collegio più rinomato di Palermo, pur continuando a ricevere nelle ore pomeridiane l’assistenza del precettore per i compiti e per ulteriori approfondimenti di letteratura e storia europea. Il giovane frequentava alcuni cugini e i compagni di scuola principalmente in occasione di compleanni o piccole feste domenicali, dove le ragazze erano strettamente sorvegliate dalle madri o dalle istitutrici e quindi era persino difficile parlare con loro, salvo qualche frase di circostanza in un clima di assoluto rigore formale e compostezza. La conoscenza più ravvicinata col mondo femminile era limitata alle conversazioni serali con le servette, in genere venute dalla campagna, quando i genitori uscivano per andare a teatro o a qualche ricevimento. Al ragazzo piacevano molto i racconti intrisi di leggende e superstizioni, tipici del mondo agricolo. Ascoltava affascinato storie di maghi e di fate, che nel tempo cominciarono ad avere risvolti sensuali, perché quasi sempre il personaggio femminile rimaneva vittima di qualche violenza da parte del mostro di turno e dopo era liberato dal principe azzurro e si concludevano con un bacio, che, per naturale trasposizione, veniva dato al ragazzo. Crescendo, cominciò a cogliere in quei racconti una certa complicità, volta ad arrivare a una maggiore intimità col padroncino, a cui si prestò volentieri. Anzi, cominciò a prendere l’iniziativa, animato dalla curiosità di scoprire come era fatto il corpo femminile. Le servette fingevano di resistere e il giovane si faceva sempre più audace, ma tutto rimaneva sempre sul terreno di esplorazioni superficiali. Nel tempo la rincorsa divenne frenetica. Dopo lunghe trattative e con la promessa di tenersi a distanza, riusciva a farsi mostrare un seno, il sedere, una coscia scoperta o, in seguito, ad arrivare a guardarsi reciprocamente, specialmente dopo che scoprì in loro una curiosità, forse ancora maggiore, di conoscere la misteriosa nudità maschile. In campagna l’oggetto dei suoi desideri era Mariannina, la procace moglie del fattore, che si dedicava ai lavori di casa e disinvoltamente, forse per sciatteria, metteva in mostra buona parte del suo corpo. Tornando la sera dai campi affamato, si precipitava in cucina, dove la donna, che aveva la responsabilità di preparare i pasti della famiglia, gli aveva sempre riservato un bocconcino speciale. Fabrizio per ringraziarla, maliziosamente le dava un bacio e gli piaceva annusare in lei quegli odori misti della cucina e del corpo femminile, cercando sempre di mettere la sua testa tra gli abbondanti seni della donna che, pur cogliendo la malizia, lo lasciava fare per affetto, ma anche perché, in quella società rurale, accondiscendere alle prime pulsioni giovanili del figlio del padrone era quasi un dovere, se non un privilegio. Fabrizio, avendo recepito questa disponibilità, quando la trovava intenta a stirare, le si appoggiava dietro e, approfittando di una difesa forse consapevolmente debole, cercava di far scivolare le mani tra i seni o tra le gambe, mentre la donna si muoveva, apparentemente per sottrarsi.
La vita in campagna affinava la sua curiosità verso gli straordinari fenomeni stagionali del ripetersi dei cicli della natura e quel mistero lo incuriosiva, coinvolgendolo nell’ammirare in primavera l’esplosione della nuova fioritura, dopo un periodo in cui la terra era sembrata morta, mentre nascostamente, anche grazie al duro e sapiente lavoro dell’uomo, preparava la sua annuale resurrezione. La formazione culturale laica e pragmatica non lo portava a pensare che dietro quel misterioso fenomeno vi fosse nulla di soprannaturale, ma era il modo in cui si dispiegava la vita stessa della terra, della flora e, sia pure in cicli e forme diversi, della fauna selvatica e domestica. Tale passione in lui si sviluppò particolarmente attraverso una speciale vicinanza ai cavalli. Alla Gulfa, oltre all’attività agricola, ne venivano allevati un certo numero, cercando di selezionare degli esemplari adatti al salto a ostacoli. Fabrizio amava montare, facendo lunghe passeggiate, inizialmente col padre o col fattore. Successivamente, avendo sviluppato una notevole sicurezza, cominciò ad andare da solo, dopo aver acquisito notevole abilità e dimestichezza con quel magnifico animale, verso cui coltivò una grande passione, divertendosi a superare muretti, staccionate e piccoli corsi d’acqua. Anche in città, il genitore fu favorevole alla sua richiesta di poter frequentare un maneggio ove, seguito da un bravo istruttore, migliorò l’impostazione nella monta, che prima era stata soltanto naturale. Per molti anni, quindi, partecipò anche a concorsi ippici, specialmente su percorsi di campagna con brillanti risultati, perché tra i cavalli nati e cresciuti alla Gulfa, ne trovò uno docile, anche se di corporatura grande e robusta, fornito di notevoli attitudini per il salto a ostacoli.
Con Alì, questo era il nome del cavallo, partecipò per almeno cinque anni a competizioni equestri, conquistando diverse vittorie.

3. Vacanze in Gran Bretagna e Francia

Quando conseguì la licenza liceale, con lo scopo di fare un’esperienza all’estero e rendere più fluente il suo inglese, andò per un lungo periodo a Londra, dove poté visitare i primi grandi musei, riuscendo, attraverso la diretta conoscenza, a comprendere il significato recondito dell’arte e l’emozione che ne può derivare. Prese in affitto, insieme ad altri giovani un flat nella zona di Kensington ed ebbe molto successo come cuoco, pur sapendo cucinare in effetti, anche se con condimenti diversi, soltanto gli spaghetti, che suscitavano sempre l’entusiasmo dei commensali. In Inghilterra riuscì a montare molto a cavallo, perché, in cambio di una modesta paga, ottenne di essere assunto come grum da un ricco nobile britannico, che aveva diversi cavalli e gli era utile qualcuno che lo aiutasse a muoverli. Si fece apprezzare per la pazienza e per lo stile di monta dolce, ma determinato, caratteristiche sempre essenziali con i cavalli in addestramento. Sovente prendevano, dopo il lavoro una tazza di caffè o tè insieme, parlando di cavalli e nel tempo divennero amici. Fu così che Fabrizio ebbe modo di esprimere il suo desiderio di partecipare a una caccia alla volpe a cavallo. Henry, questo era il nome del giovane nobile, si limitò ad annuire. Dopo alcuni giorni, sempre con l’aria distratta che assumono gli anglosassoni quando si sforzano di non fare pesare una cortesia, porgendola invece come qualcosa di normale, gli comunicò che un’antica famiglia di suoi vecchi amici che possedevano un’estesa proprietà terriera e allevavano moltissimi cavalli, aveva organizzato, per il sabato successivo, una caccia alla volpe in una tenuta non lontano da Londra e che aveva ottenuto un invito anche per lui. Quindi avrebbero potuto andarvi insieme. Il giovane italiano fece fatica a contenere il proprio entusiasmo e ad apparire quasi impassibile come l’amico britannico, limitandosi a osservare che non aveva l’abbigliamento adatto. Prontamente Henry gli rispose che aveva pensato a tutto lui, poiché avevano la stessa taglia e possedeva nel proprio guardaroba diverse divise per la caccia. Fabrizio ringraziò con gli occhi che luccicavano per la gioia. Il sabato partirono di buon’ora e dopo circa due ore arrivarono presso una tipica grande residenza della campagna inglese, dove fu offerto loro un tè, ebbero modo di cambiarsi in un locale attiguo alle scuderie, trovarono i cavalli già sellati e alle otto e trenta in punto una ventina di gentiluomini erano in sella con le loro giacche rosse, blu o nere, pronti per la caccia. Vennero liberati una cinquantina di stupendi cani, che si lanciarono, abbaiando in una corsa frenetica. Sembrava che soltanto loro sapessero dove andare, perché evidentemente erano ben addestrati. I cavalieri li seguirono guidati dal master con la sua piccola tromba, che precedeva il gruppo. Si addentrarono nella campagna, incontrando piccoli ruscelli, ostacoli naturali e stando sempre attenti a evitare qualche ramo basso. Finalmente, in una zona pianeggiante, comparve la volpe, che i cani avevano stanata e sospinta verso quel territorio nel quale era difficile alla preda trovare ripari. A un cenno del master, i cacciatori cercarono di disporsi in cerchio e finalmente la volpe venne catturata con un grande abbaiare di felicità dei cani. Dopo circa due ore dalla partenza rientrarono al castello, dove i cavalli furono consegnati al personale addetto alle scuderie, mentre per i cacciatori era stata prevista la possibilità di rinfrescarsi, prima di partecipare all’elegante brunch organizzato dal padrone di casa. Fabrizio era stato presentato al mattino come il barone Crisanti della Gulfa e l’ospite, con la formale cortesia britannica, si intrattenne con lui per sentire le impressioni sulla caccia da parte del giovane siciliano, che se ne mostrò entusiasta, ma sempre con modi contenuti, secondo l’usanza del luogo. Alle 12.30 gli ospiti si avviarono alle loro carrozze per rientrare. A Fabrizio batteva il cuore per l’emozione e non sapeva come ringraziare l’amico che gli aveva offerto quella opportunità. Temeva che, esagerando nel manifestare il suo entusiasmo, avrebbe potuto contravvenire alla tradizionale sobrietà britannica. Dopo essersi ripetuto mentalmente diverse volte la frase da pronunciare, si limitò a un breve ringraziamento, sottolineando che aveva tanto sentito parlare di quella antica forma di caccia tipicamente inglese, ma che viverne direttamente l’esperienza era tutt’altra cosa e per un appassionato come lui, rappresentava una prova unica del rapporto tra gli esseri umani, i cavalli, i meravigliosi cani e la natura. Dopo quel giorno, la loro amicizia si fece più stretta e una sera Fabrizio ricevette l’invito per un pranzo all’esclusivo club per soli gentiluomini di cui Henry era socio. Alle otto in punto in abito da sera, il giovane siciliano si presentò, rimanendo ammirato di fronte a un ambiente dal profumo antico, tutto divani di pelle scura, quadri, mobili d’epoca e quel tipico sapore che emanano...

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