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Parliamo dello stesso Dio?
Raimon Panikkar dialoga con il rabbino Pinchas Lapide
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Parliamo dello stesso Dio?
Raimon Panikkar dialoga con il rabbino Pinchas Lapide
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Raimon Panikkar conversa con il rabbino Pinchas Lapide, entrambi intervistati da Anton Kenntemich. Un'opera in grado di sconvolgere quello che i cristiani pensano degli ebrei e quello che gli ebrei pensano dei cristiani, e che evidenzia il rischio possibile di una riduzione sia del cristianesimo sia dell'ebraismo. Come sempre hanno ripetuto Raimon Panikkar e Julien Ries, non c'è dialogo che non porti un guadagno reciproco. In questo senso sono qui affrontate tematiche fondamentali quali l'idolatria, l'esperienza dell'aperto, della libertà, dell'infinito, dell'indescrivibile. Parole dentro le quali è annidato un mistero inesprimibile, che conduce in unità la diversità delle culture.
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Information
Topic
Theology & ReligionSubtopic
ReligionEpilogo
I VOLTI DI DIO1
di Raimon Panikkar
1Scritto in occasione di una esposizione di dipinti religiosi presso il monastero di San Martiño Pinario, Santiago de Compostela 2000. Traduzione dallo spagnolo di Milena Carrara Pavan. Ora in R. Panikkar, Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo, vol. VIII dell’Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2010, pp. 35-43.
«Ait Jesus: Cognosce id quod est coram facie tua, et id quod absconditum est tibi revelabitur tibi»
(Disse Gesù: conosci ciò che sta dinnanzi al tuo viso e ciò che è nascosto ti sarà rivelato)
(Vangelo copto di Tommaso, cap. 5).
Il volto di Dio, come quello sguardo dell’icona descritta nel secolo XV dal cardinale Nicola da Cusa all’inizio del suo breve trattato De visione Dei, guarda da ogni lato, si estende dovunque, è presente su ogni volto e al contempo non si esaurisce in nessuno di essi. Dio non ha volto perché li ha tutti. E li ha tutti perché non ne ha alcuno in esclusiva. Brahman è nascosto nel suo proprio seno, dice la filosofia vedica, talmente nascosto che sono solo i nostri attributi a renderlo manifesto. Dio è un Dio «nascosto», dice Isaia riecheggiando le sapienze millenarie che dicono che il divino ama l’oscurità. Ma parlando di Dio non possiamo pretendere che il nostro linguaggio sia univoco.
Dio ha certo un volto: è quello che traspare nei nostri volti e brilla taboricamente quando non vogliamo rimpiazzarlo con le nostre fisionomie. Quando il nostro ego scompare appare il volto di Dio, scomparendo come suo e apparendo come quello genuinamente nostro. Lo sguardo divino è creatore e crea sul nostro viso quello sguardo divino che è anche nostro.
È, questo, un ossimoro ma non un paradosso. Il paradosso si verifica quando ci impegniamo nell’innalzare il principio di non contraddizione a qualcosa più che un postulato della «parola» umana e lo trasformiamo in principio dell’Essere, cadendo così nell’eresia del logomonismo e nel riduzionismo della Parola (logos) alla ratio e, ancor peggio, al concetto. La parola non è mai sola, la parola non è mai «in sé». La parola è sempre un aliquid ab alio, in alio e ad alium, è qualcosa che viene da Qualcuno e dice Qualcosa a Qualcuno. La tradizione cristiana chiama il Qualcuno che ha proferito il logos Generatore (Padre), il Qualcosa Creazione e l’altro (Qualcuno) Spirito.
Molti māṇḍālā tibetani, dopo lunghe e pazienti ore di disegno e costruzione e dopo essere stati utilizzati per culti speciali, vengono distrutti affinché non si oggettivizzino e perdano la loro energia e la loro realtà. Il volto non è oggettivabile; è sempre il volto di qualcuno per qualcuno. Il volto non è una cosa. Ogni volto rivela e nasconde. «Nessuno ha visto Dio, e questo è certo tanto quanto il fatto che tutti hanno visto Dio – quando hanno saputo amare», dice lo stesso san Giovanni.
Ciò che avviene è che molti di coloro che amano non sanno di vedere il volto di Dio, come i benefattori e i malfattori del giudizio descritti da san Matteo non sanno che nelle opere buone che compiono o tralasciano di compiere è presente lo stesso «figlio dell’Uomo».
I volti di Dio sono i volti dell’Uomo. Gli artisti lo intuiscono quando vedono nell’uomo qualcosa di più di ciò che vedono i distratti visitatori di un museo; scoprono il riflesso del divino nell’essere umano – e, se sono sufficientemente puri, vedono questo riflesso in tutto ciò che dipingono, scolpiscono, costruiscono, cantano e, in ultima istanza, vivono. Non mi riferisco solo agli artisti professionisti. Ogni uomo è un artista e l’opera d’arte che è affidata a tutti noi è la nostra stessa vita: fare un’icona della nostra stessa esistenza. Gli artisti che sono stati definiti tali cercano di plasmare i volti di Dio in tutto ciò che eseguono (poiēsis) e non solo in ciò che realizzano, che mettono in atto (praxis).
I volti di Dio sono quelli degli uomini, abbiamo detto, ma il volto dell’uomo non è finito e molte volte si maschera. Spesso l’uomo non solo si identifica con la propria «persona» individuale, ma la ricopre con una maschera foggiata artificialmente dalla sua vanità o, ancor più, dal suo egoismo. La persona è allora ciò che la parola sta a significare: una maschera, una maschera che ci vela come quando Adamo ed Eva persero la primitiva innocenza e vollero coprirsi perché avevano vergogna di mostrarsi nudi. Il volto nudo dell’uomo è un volto divino, è una faccia di Dio. Lo hanno intuito molte culture quando ci rappresentano Dio con molte facce – e naturalmente molte braccia e mani, dal momento che ogni faccia richiede un corpo corrispondente. Si potrebbe dire che la rappresentazione di un Corpo con molte facce e molte membra è uno dei simboli meno imperfetti del monoteismo.
Ciò che abbiamo detto sinora è solo una mezza verità o, per meglio dire, non è verità dal momento che la verità non si lascia dividere, così come un cuore diviso non è un cuore puro. Non ci sono due amori, uno divino e l’altro umano, ci vanno ripetendo tante tradizioni, da quella tantrica a quella sacramentale cristiana. L’amore umano è la forma umana dell’amare dell’uomo così come l’amore divino è la forma divina dell’amare di Dio. Ma ciò che unisce l’uomo a Dio è l’amore, hanno detto in pratica tutte le tradizioni. Amore che unisce ma non confonde: sono necessari due che superino la propria dualità senza cadere nell’unità. Questo è l’advaita. Non ci sono due amori, l’uno non esiste senza l’altro. Un Dio che non amasse l’uomo non sarebbe Dio, così come un uomo che non amasse Dio non sarebbe umano. Quando amiamo veramente divinizziamo, anche se, quando l’essere amato non è trasparente, possiamo cadere nell’idolatria. Il peccato è la scissione di questo unico amore in due parti, con il che il nostro amore per Dio diventa proiezione di un desiderio insoddisfatto e il nostro amore meramente umano introversione che non soddisfa e va da un oggetto all’altro cercando l’infinito nel finito. La mistica completa l’asserzione precedente affermando che l’amore umano è (anche) la forma divina dell’amare dell’uomo e che l’amore divino è la forma umana dell’amare di Dio: «Amore ch’a nullo amato amar perdona» disse sintetizzando Dante. Amore che richiede «la presenza e il corpo», disse più tardi san Giovanni della Croce. Stiamo dicendo che, senza amore, non esiste volto né di Dio né dell’uomo. Il volto non è una fisionomia oggettiva.
Un volto che non parli, attragga, minacci o respinga non è un volto. Anche il diavolo ha un volto e, pertanto, non è puramente oggettivo. La realtà trascende le nostre categorie epistemologiche. Dobbiamo trovare la pienezza di cui parlano le Upaniṣad e che Cristo ci ha detto che era venuto a portare al mondo. Sta a noi ricostruire il corpo divino di Prajāpati, direbbe la tradizione vedica, sta agli uomini completare il corpo mistico di Cristo, ci diranno Pietro, Paolo e con loro la tradizione cristiana, senza citare la sapienza daoista o quella confuciana, che parlano altri linguaggi che qui non possiamo ora soffermarci a tradurre.
L’altro aspetto dell’unica verità è, poi, che i volti dell’uomo sono volti di Dio. Vi abbiamo già alluso. Se capovolgiamo la frase, sostituendo il soggetto con il predicato, essa continua ad essere vera. Forse per questo dovremmo purificare la nostra visione e guardare a questa esposizione sul «volto di Dio» con occhio puro, il terzo occhio, direbbero i Vittorini del XII secolo europeo e molte altre tradizioni sia dell’Oriente che dell’Occidente. Ci riferiamo all’occhio che vede nell’uomo il volto di Dio. L’occhio col quale vediamo Dio è l’occhio con cui Dio ci vede, scrisse Meister Eckhart. L’uomo è un’icona della Divinità perché la Divinità è anche un’icona dell’Uomo. È perciò necessaria la «luce taborica», spingendoci anche un passo oltre a quello mosso dal grande teologo cristiano del XIV secolo Gregorio Palamas.
Commentando la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor durante la quale gli apostoli scorsero il volto (prosōpon) divino dell’uomo Gesù, il succitato teologo dell’esicasmo ci descrive la luce taborica che ci consente di vedere Dio nel viso di un uomo. Il secondo passo cui abbiamo fatto allusione è quello che ci consente di vedere l’Uomo nelle profondità della Divinità.
Il timor panico di un certo Occidente per il panteismo lo ha fatto cadere nell’estremo opposto di un dualismo insormontabile che rende Dio superfluo o che lo trasforma, tutt’al più, in una metafora per i cosiddetti credenti, come se gli altri non fossero anch’essi credenti, pur se in modo diverso. Sono, queste, due menzogne se non le sappiamo «esperienziare» unite: Dio ha un volto umano e l’Uomo ha un volto divino.
Torniamo a dire che, per scoprire il volto umano di Dio, è necessario un cuore tanto puro quanto quello che occorre per scorgere il volto divino dell’Uomo. È necessario quell’amore indiviso di cui abbiamo detto. I puri di cuore vedranno Dio, recita una delle beatitudini, i cui echi si ritrovano nella maggior parte delle tradizioni dell’umanità. Un cuore puro è vuoto, è libero da ambizioni, da desideri, direbbe il Buddha, e in questa vacuità scopre l’infinito. È un cuore sgombro anche da concetti e persino da idee. Dio non è un concetto e nemmeno un’idea. L’idolatria è il più grande peccato non solo in Israele, ma anche nei cinque continenti. Un’icona non è un idolo. L’icona, come brahman, mostra solo una quarta parte della sua realtà agli occhi sia del corpo sia della mente. Per questo occorrono tradizioni aniconiche che ce lo ricordino. Non ci dicono che non c’è «rappresentazione» possibile di Dio, ma che ciò che di Dio è «rappresentabile» è solo una «parte».
La felice espressione «i volti di Dio» sta a significare molto più che Dio ha un volto o che si manifesta nei volti umani quando sappiamo scoprirli amandoli. Dice anche che di Dio si può conoscere il volto solo, come abbiamo appena detto, amandolo. Ma v’è dell’altro.
Dio ha i volti delle sue creature e noi possiamo «vederlo» in esse. Ma anche noi abbiamo un volto. Il nostro volto è il nostro simbolo e noi siamo conosciuti e amati tramite il nostro volto. Tuttavia il mio volto umano non risponde o reagisce allo stesso modo nei confronti di tutti i volti divini delle creature. Ci sono volti che ci parlano, ci fanno innamorare, ci attraggono. E questi volti hanno nomi e nomi propri; non sono cognomi generici, ma nomi personali con una propria faccia e relazioni intime.
Nella spiritualità indiana troviamo un concetto che può servirci per spiegare ciò che stiamo cercando di dire: īṣṭādēvātā, quel volto della Divinità che ci si è mostrata, rivelata e, se abbiamo raggiunto una certa maturità, ci ha anche parlato e con la quale siamo riusciti a stabilire relazioni personali – il che non significa «personamorfismo» divino ma personalismo umano.
La īṣṭādēvātā non è l’immagine della Divinità o il nome divino del mio capriccio o della mia scelta individualistica. È il nome che mi è stato dato (dalla tradizione, dalla grazia, dal guru, dalla «provvidenza») e che io ho riconosciuto quale suo nome proprio per me e accettato liberamente. Allora quel nome diventa il simbolo personale del divino. Mi sento scelto da lui (da lei, la īṣṭādēvātā) molto più che come risultato della mia decisione individuale. La Divinità ha l’iniziativa; il nostro atteggiamento nei suoi confronti è più femminile. Ci sentiamo scelti, attratti, amati, conosciuti, interpellati. La īṣṭādēvātā è un simbolo vivo. Potrebbero esserne esempi Durga, Kṛṣṇa, Cristo, ma anche l’Amato o l’Amata e inoltre la Bellezza e la Verità. Si potrà, e anche si dovrà poi esaminare se quei simboli sono adeguati a sostenere tutto il peso e tutta la ricchezza della nostra relazione con questo Mistero, questa terza dimensione della realtà uno dei cui nomi è Dio. In ogni caso è il volto divino che, in modo più o meno discreto, ci è apparso e nel quale si incarna questa aspirazione dell’uomo verso qualcosa che, pur essendo concreto, non può rinunciare a essere universale.
Da qui l’ambivalenza dei «volti di Dio». L’uomo moderno è talmente abituato alle generalizzazioni formali da accorgersi a malapena che, se non si vedessero «i nomi di Dio» nella forma che abbiamo esposto, il nostro sarebbe grossolano politeismo. Una confessione personale mi sarà utile per evitare inutili lungaggini. Dio per me ha un volto, Cristo, ma in questo volto trovo tutti gli altri; li trovo io, stando molto bene attento a non confonderli o affermare che anche gli altri debbono vedere il volto che vedo io o che tutti i volti sono uguali. È solo nel concreto che si radica l’universale. Il concreto può essere un simbolo, l’universale no. Il concreto costituisce la soggettività, l’universale pretende l’oggettività. Un «concetto» può essere universale anche se solo nel seno culturale che lo ha «concepito»; un simbolo è tale solo per chi lo scopre quale simbolo. Il volto non è un volto per colui che non lo guarda o per colui cui il volto non si rivela come tale. Arriviamo a dire che senza amore non c’è volto.
È certo che ogni volto di Dio è una teofania, ma non tutte le teofanie sono una manifestazione o una rivelazione, ovvero una «fania» di Dio. E questo non perché si possa dividere Dio ed egli abbia «parti» più o meno «sostanziali», ma perché noi siamo limitati. Tutta la discussione islamico-cristiana sul monoteismo e la Trinità arriverebbe alla luce (che non oso chiamare nūr Muḥammadī, luce maomettana) se l’homoousios – la consustanzialità – del concilio di Nicea venisse inteso come una relazione reale e di uguaglianza senza la reificazione sostanzialista – idea che potrebbe giustificarsi conoscendo la genesi di tale formulazione. La luce che ci consente di vedere ogni volto di Dio si riflette nei nostri sguardi, di modo che vediamo solamente quella parte, quell’aspetto della Divinità per cui siamo preparati. Secondo un ḥadiṭ del Profeta, ogni imam può dire di essere il volto stesso di Dio, del Dio rivelato. Per vedere il volto di Dio bisogna essere trasparenti alla luce. Ne consegue che questa esposizione è più che un museo: è un messaggio e una interpellanza. «Non entri chi non conosce la geometria» era scritto sul frontone dell’Accademia di Platone. Non metta piede in queste sale chi non è disposto a vedere «i volti di Dio». È a questo che siamo invitati: un’incursione nella «teologia speculativa», quella, cioè, il cui compito è essere uno specchio (speculum) in cui si riflette Dio. Abbiamo già detto che lo specchio deve essere limpido (pulito) e, se possibile, non concavo né convesso.
Potrebbe essere, questo, il consiglio per chi vede questa esposizione. La disciplina arcani tradizionale, malgrado gli abusi, non era un capriccio elitario di alcuni che ambivano al potere: anche se, come ben sapevano i Latini, corruptio optimi pexima. Era un rispettare la gerarchia della creazione e metterci sull’avviso che è pericoloso giocare col fuoco. Il genio cordobano del XII secolo Mosheh ben Maimon, nell’introduzione alla terza parte della sua Guida dei perplessi, asserisce, come è stato fatto per i Veda, per la Bibbia e per altri libri sacri, che i segreti della Tōrah non possono essere resi noti a chi non sia preparato – a chi non si è aperto alla «luce del volto» (ohr panar), come dice lo stesso Maimonide nella sua opera sulla «salute dell’anima». Tutti possono ora leggere i libri sacri: ma possono tutti capirli?
Prima ...
Table of contents
- Copertina
- Frontespizio
- Copyright
- Indice
- Prefazione di Milena Carrara Pavan
- Prologo di Pinchas Lapide
- Interrogarsi sull’alterità di Dio o restare in silenzio?
- Se o come dobbiamo parlare di Dio
- Parlare di Dio. Esprimere l’inesprimibile
- Lasciarsi cercare dal mistero
- Andare è la nostra vita, stare il nostro essere qui
- Ateismo – o della resistenza contro i falsificatori di Dio
- Presentimento di un Dio celato interiormente
- Tacere del Dio vivente, invece di farne oggetto di discussione
- Hindū, buddhista e cristiano nello stesso tempo?
- Che cosa apprezzo delle altre religioni e che cosa manca alla mia?
- Limiti delle religioni
- Dio è debole come noi?
- Il mistero del male. La spina nel fianco
- Spiegare il problema del male con l’ipotesi di Dio?
- Conversione alla democrazia di culture e religioni
- Dialogo: dire di sì a Dio, che non conosciamo
- Epilogo: I volti di Dio di Raimon Panikkar
- Raimon Panikkar
- Altre opere di Raimon Panikkar presso Jaca Book