Comunicare la Sostenibilità
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Comunicare la Sostenibilità

Oltre il Greenwashing

Aldo Bolognini Cobianchi

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Comunicare la Sostenibilità

Oltre il Greenwashing

Aldo Bolognini Cobianchi

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La sostenibilità non è definita da una legge. Ma è un nuovo paradigma che si sta sempre più affermando grazie alla sensibilità di tante persone. Un nuovo pensiero che coinvolge il nostro modo di agire, vivere, produrre e consumare. Senza sostenibilità ambientale e sociale il pianeta rischia di collassare e le aziende, a breve, rischiano di non essere competitive sul mercato se non ne adottano i canoni. Fondamentale per la sostenibilità è come viene comunicata: farlo male o in modo scorretto significa fare Greenwashing e quindi esporsi a un danno reputazionale che può essere irrimediabile. Questo libro spiega che cos'è la sostenibilità, come va raccontata, quali sono le norme italiane e le numerose leggi internazionali che implicano la sostenibilità. E lo fa analizzando casi pratici, attraverso le testimonianze di chi la applica in azienda e la comunica

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2022
ISBN
9788836004379

1

Essere sostenibili: da moda a strumento di mercato

Mettiamo qualche punto fisso.
Il termine “sviluppo sostenibile”, da cui discende quello di “sostenibilità” nel senso inteso in questo testo, è stato introdotto per la prima volta dal Rapporto Brundtland della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo dell’ONU, nel 1987. La commissione era nata nel 1972 a Stoccolma, in Svezia, per discutere delle prospettive di sviluppo dell’umanità, e in seguito al rapporto cambiò nome in Commissione Bruntdland1 fino alla conferenza di Rio de Janeiro del 1992 in cui fu rinominato definitivamente UNCSD (United Nations Commission on Sustainable Developement).
Il titolo del documento del 1987 era Our Common Future e introduceva un concetto per i tempi abbastanza rivoluzionario, ovvero che non si potesse più perseguire uno sviluppo economico, sociale, industriale a spese delle risorse del pianeta, e che fosse necessario trovare un punto di equilibrio fra sviluppo e capacità di ricostituire quelle risorse. Ovvero “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
Perché il concetto era rivoluzionario? Per almeno tre motivi, che analizzeremo più avanti.

Ambiente e opinione pubblica

Concetto rivoluzionario ma non inaspettato.
Perché, ovviamente, non era la prima volta che in un consesso internazionale si parlava di ambiente e della necessità di proteggerlo, salvaguardarlo e rispettarlo.
I primi movimenti ecologisti erano nati addirittura a metà dell’Ottocento, sulla spinta della definitiva affermazione della rivoluzione industriale e della massiccia distruzione delle risorse naturali che aveva comportato. Il romanzo Walden, ovvero Vita nei boschi dell’americano Henry David Thoreau, del 1854, che parla della necessità di un ritorno alla natura e del recupero dell’ambiente come stile di vita etico, non ebbe solo un più che discreto successo all’uscita (ancora in epoca tardo romantica), ma è diventato un classico che ha conosciuto periodiche fiammate di successo fino al boom negli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, quando venne eletto come “Bibbia” dell’ecologismo. Gli effetti di questa tendenza non furono solo culturali: c’erano anche ricadute normative. La prima legislazione “verde” che si ricordi in Europa è l’Aktali Act inglese del 1863 che tentava di regolare le immissioni di polveri e gas nocivi in atmosfera e nelle acque dovute all’uso massiccio di carbone come combustibile. La legislazione era il risultato di un vasto movimento di opinione che, qualche anno più tardi, si coalizzò intorno alla Coal Smoke Abatement Society, la prima associazione non governativa ecologista che si ricordi, fondata (sempre in Inghilterra) da artisti, intellettuali, scrittori ma con un considerevole seguito almeno nelle classi medie e nelle élite, quelle che leggevano e scrivevano sui giornali. Movimento di opinione che ha visto altri interventi legislativi inglesi importanti nel 1875 con il Public Health Act (PHA) che obbligava fornaci e caldaie ad avere sistemi di abbattimento dei fumi. Si potrebbe dire che la difesa dell’ambiente è stato uno dei leitmotiv della comunicazione progressista di quel periodo, insieme al movimento delle suffragette e al relativo tema del voto alle donne.
Intorno al 1910 l’esempio inglese (vedremo poi perché è nei Paesi anglosassoni e del Nord Europa che l’ambientalismo ha preso piede prima che altrove) si è diffuso in altre nazioni europee e non solo: Francia, Belgio, Spagna, l’Impero austro-ungarico hanno adottato legislazioni simili. Una battuta d’arresto è arrivata con la Prima guerra mondiale, che ha certamente spostato l’attenzione dell’opinione pubblica su altri temi e, malgrado qualche fiammata fra le due guerre (un aggiornamento del PHA sempre nel Regno Unito nel 1926), il tema è rimasto sottotraccia fino alla grande ondata di smog di Londra del 1952, che causò fra i 6 e i 12 mila morti nell’arco di quattro giorni (dal 5 al 9 dicembre), oltre a 100 mila malati gravi, e portò all’approvazione del Clear Air Act (CAA) del 1956.
Ma è negli anni Sessanta e Settanta che esplode a livello mediatico il tema ambientale. Il concetto di smog (smoke+fog, fumo e nebbia, la parola era stata coniata nel 1905) diventa di pubblico dominio e compare normalmente sui titoli dei giornali. Se ne parla in televisione, addirittura in una città americana, Los Angeles, sono le previsioni del tempo a indicare ogni mattina al pubblico il livello previsto di smog per la giornata.
Il nemico non è più solo l’industria con le sue emissioni, ma lo sono anche il traffico e la cementificazione. La controcultura giovanile, il movimento Hippy, ha nel ritorno e nella salvaguardia della natura uno dei suoi punti cardine. Il grande raduno musicale di Woodstock, nel 1969, volutamente tenuto fuori dai grandi centri urbani e svoltosi in mezzo alla campagna dello stato di New York, era stato pubblicizzato con diversi slogan fra cui Back to the garden (ritorno al giardino – dell’Eden era sottinteso) come momento di ritorno alla natura incontaminata e salvifica. L’ambiente andava certamente di moda.
Il mondo musicale dell’epoca si è speso ampiamente per l’ambiente pulito come uno dei cardini del progresso, al pari dei principali diritti civili. E una canzone in particolare, Big Yellow Taxi di Joni Mitchell del 1970 (poi ripresa da almeno un centinaio di artisti), con il ritornello “hanno asfaltato il paradiso, ne hanno fatto un parcheggio”, è diventata il simbolo dell’opinione pubblica sempre più preoccupata per la speculazione edilizia, il traffico, l’inquinamento.
Anche in Italia la sensibilità ecologista è passata dalla musica. Per esempio, Lucio Battisti con Acqua azzurra, acqua chiara, sempre del 1969 (“con le mani posso finalmente bere”), e con Il ragazzo della via Gluck di Adriano Celentano, del 1966, vero e proprio inno contro l’urbanizzazione selvaggia di quegli anni: “Là dove c’era l’erba ora c’è una città”.
Per gli italiani gli anni Settanta sono stati il punto di svolta sull’ambiente, prima con la crisi petrolifera del 1973 e le domeniche a piedi il 2 e il 9 dicembre dello stesso anno. Fu il primo vero stop alla crescita economica e del consumo delle risorse ambientali e uno shock culturale molto forte. Di lì a poco lo scandalo dei detersivi non biodegradabili (per l’ampio utilizzo dei tensioattivi sintetici, che provocavano un forte inquinamento delle acque di superficie e del mare) e, nel luglio 1976, la nube tossica di diossina a Seveso, alle porte di Milano. Nel 1978, sulla scia di quanto deliberato dall’ONU già sei anni prima, viene messo al bando anche in Italia il DDT, insetticida che si era scoperto essere tossico per l’uomo e dannoso per l’ambiente. Fu in quell’anno che, non a caso, venne istituito il dipartimento dell’ecologia presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, trasformato in Ministero per l’Ambiente nel 1983.
Nel 1982 l’ONU crea la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo; nel 1989, l’Assemblea generale, dopo aver discusso il Rapporto Brundtland, decide di organizzare una Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo. Nel frattempo, il tema ambientale diventa uno degli argomenti chiave del Mercato Unico Europeo che dal 1992 diventa Commissione europea e istituisce un Commissario europeo per l’Ambiente e ben tre Direzioni Generali che si occupano del problema: la Direzione Generale Clima, la Direzione Generale Ambiente e la Direzione Generale Salute. La preoccupazione per l’ambiente e i cambiamenti climatici, negli ultimi 30 anni, è diventata sempre più un argomento quotidiano del dibattito politico e sociale in Italia e nel mondo, dove ha conosciuto una fiammata di clamore grazie al movimento Friday for future (“Venerdì per il futuro”, esattamente lo stesso futuro citato dal Rapporto Brundtland) dell’attivista (guarda caso svedese) Greta Thunberg. Dunque, pensare che quell’affermazione del 1987 “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future” fosse solo un fenomeno di moda è quantomeno un’idea superficiale di una realtà che è qui con noi e che rischia di essere un tema sempre più presente e attuale per tutti.

Le tre novità della sostenibilità

Questo per dire che il Rapporto Brundtland del 1987 non nasce nel nulla, ma da più di un secolo di idee, fermenti e comunicazione attiva prima di tutto sul tema ambientale.
Ma, come abbiamo detto, l’affermazione della necessità di uno sviluppo sostenibile contiene in sé almeno tre grosse novità rispetto a tutta la pubblicistica precedente. Tre novità che spostano decisamente il focus del discorso in un modo che non abbiamo esitato a definire rivoluzionario.
La prima novità è che non si parla più solo di salvaguardia. Il problema posto dal rapporto non è più quello degli ecologisti classici del “non fare”, non inquinare, non produrre, fermare le automobili, chiudere le fabbriche, non costruire più case. La dimensione posta dal rapporto riguarda la compatibilità dell’azione umana con la natura e con l’ambiente. Dunque, “fare”, ma “fare bene”, perché deve essere chiaro che è possibile produrre beni, costruire case, spostare persone e merci anche in maniera che non si danneggino l’ambiente e la natura. Cioè coniugare sviluppo e benessere. Difficile? Certo. Di sicuro non basta dirlo per riuscirci. Ma è una sfida che va affrontata e vinta se si vuole che l’umanità progredisca senza uccidere il pianeta e sé stessa.
Seconda novità: il fronte non è solo l’ambiente. Perché uno sviluppo sostenibile non è compatibile con una società oppressiva che discrimina alcune fasce della popolazione. Dunque, a fianco dell’ecologia devono marciare di pari passo anche i diritti delle minoranze, le libertà civili, un ragionevole livello di welfare, inteso anche come un buon funzionamento dei servizi essenziali per il benessere della popolazione: giustizia, sanità, scuola. In altre parole, il fronte è anche l’inclusione sociale.
Terza novità, probabilmente la più rivoluzionaria: lo sviluppo sostenibile non è più un rapporto che riguarda solo i cittadini e i loro governanti, dunque un movimento di opinione che mira solo alla formazione di leggi che riguardino la tutela dell’ambiente e/o i diritti civili ed, eventualmente, la loro applicazione. È invece un tema verticale che coinvolge tutti i corpi intermedi della società. Non è più solo un’imposizione dall’alto, ma deve diventare una maniera di agire e un obiettivo comune a tutti. Non è più una questione (solo) per legislatori ed elettori ma anche, e forse soprattutto, per le imprese. Perché parlare di sviluppo, dunque di produzione, senza coinvolgere attivamente gli attori della produzione stessa, cioè le imprese, non ha senso. Dunque, uno dei punti cardine dello sviluppo sostenibile è la responsabilità dell’impresa.

Corporate Social Responsibility

Si è realizzata così la saldatura fra ecologismo, difesa dei diritti civili e CSR (Corporate Social Responsibility, responsabilità sociale dell’impresa), un altro concetto che ha preso piede negli anni e di cui parleremo approfonditamente in questo libro.
Anche qui qualche cenno storico: l’attuale definizione di CSR viene comunemente fatta risalire al 1984 (anche se si parlava di qualcosa di simile da almeno vent’anni), e precisamente a un saggio di Robert Edward Freeman, docente di filosofia americano che insegnava all’Università della Virginia. Il saggio si intitolava Strategic Management, a Stakeholder Approach (su chi sono e cosa sono gli stakeholder, i “portatori d’interesse” dell’impresa, c’è un intero capitolo più avanti). In sostanza si parlava dei limiti etici all’azione dell’impresa e dunque delle regole che le imprese avrebbero dovuto darsi per operare in un contesto moralmente accettabile che, secondo l’autore, si sarebbe tradotto in un risultato win-win, ovvero in cui tutte le parti coinvolte nel processo produttivo avrebbero avuto vantaggi e il valore creato dall’impresa non sarebbe andato a danno di nessuno. Con lo sviluppo sostenibile del Rapporto Bruntland il risultato avrebbe dovuto diventare win-win-win, ovvero vantaggioso per tutte le parti coinvolte, compreso l’ambiente.
Se pensate “ancora un concetto che ci arriva dalla cultura anglosassone”, sì, non avete tutti i torti. La CSR discende certamente da una cultura figlia di un’impostazione etica che deriva dalla morale protestante in generale e calvinista in particolare, che nei Paesi anglosassoni ha trovato terreno fertile. Ed è proprio perché parte da un concetto etico che la CSR nasce dagli scritti e dal pensiero di filosofi che si muovono nella tradizione del pensatore calvinista svizzero del Settecento Jean-Jacques Rousseau (il “buon selvaggio” come mito liberista ma anche ecologista) passando per l’americano Thoreau e via via in maniera carsica negli anni (il primo fondo d’investimento americano ad acquistare i titoli di aziende su basi etiche è del 1928, il Pioneer Fund di Boston: peccato che la crisi economica del 1929 abbia interrotto precocemente l’esperimento).
Dal principio generale della sovranità di Dio discende un principio etico di base.
Tutte le creature umane sono responsabili di servirlo in questa vita e sono responsabili di tutto ciò che fanno in tutte le loro attività. Solo dimostrando di applicare i principi morali della parola divina (banalmente: fare il bene, non danneggiare il prossimo) in ogni momento e in ogni attività (principio di responsabilità) possono dimostrare di essere nella grazia di Dio. Dunque, anche l’impresa, in quanto attività umana, deve dimostrare responsabilità verso il suo prossimo (gli stakeholder) e non produrre danno ma solo vantaggi. Altrimenti l’attività d’impresa è contraria all’etica, e chi persegue il profitto a scapito del benessere di altri non è nella grazia di Dio ma nel peccato e nella perversione.
Non sono massime tratte da un manuale di sostenibilità, ma una sintesi del pensiero calvinista, che è diventato così il “brodo di coltura” ideale per la nascita della CSR e dello sviluppo sostenibile. Ma chi pensa che queste cose funzionino solo nelle culture calviniste o luterane si sbaglia, perché anche le altre religioni hanno sviluppato un’etica sociale e ambientale che è arrivata, anche se in tempi diversi, a risultati affini.
Per esempio, la cultura cattolica e italiana ha contribuito allo sviluppo di alcuni concetti etici alla base della sostenibilità. Già nel 1968 l’economista lombardo Giancarlo Pallavicini (in seguito consigliere di Gorbačëv e della sua Perestrojka negli anni Ottanta, nonché membro dell’Accademia russa delle scienze) affermava che l’attività d’impresa, pur mirando al profitto, avrebbe dovuto tenere esplicitamente presenti una serie di istanze interne ed esterne a essa, anche di natura socio-economica, per la misurazione delle quali venne proposto il “metodo della scomposizione dei parametri” che prevedeva, appunto, una misurazione degli effetti sociali delle attività d’impresa. Una vera anticipazione della CSR e il primo esempio di criteri di valutazione delle performance di sostenibilità, poi ampiamente ripreso nella pubblicistica sull’argomento (se ne parla più diffusamente nel capitolo sugli stakeholder).
Molto più di recente anche le gerarchie della Chiesa cattolica si sono impegnate su questo tema. Papa Francesco, nel giugno 2015, ha pubblicato la prima enciclica ambientalista cattolica, Laudato si’, sulla cura della casa comune. Il punto centrale? “La terra è ferita, serve una conversione ecologica”. E ancora, per sottolineare il concetto, durante un Angelus nell’aprile 2021 ha affermato: “Non dobbiamo dimenticare che Dio perdona sempre. L’uomo perdona qualche volta. La natura non perdona mai”.
Anche nella dottrina islamica, pure se sempre con un certo ritardo rispetto all’Occidente, hanno fatto breccia temi etici relativi alla gestione d’impresa: secondo l’Islam l’uomo è vicario di Dio nel custodire il creato, sostenuto dall’esortazione divina di “ordinare il Bene e proibire il Male” (Corano 16,17). Dunque, la religione contiene già un forte principio etico sociale e ambientalista. Nel 2009 eminenti figure del mondo islamico si sono ritrovate a Istanbul per aderire al Muslim Seven Year Action Plan on Climate Change, la prima iniziativa mussulmana sull’ambiente che mira alla sensibilizzazione di due miliardi di fedeli al problema. Fra i temi trattati: la...

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