PARTE SECONDA
LE VARIAZIONI DI UNA REALTÀ CHE SCOMPARE:
CREARE
I
ROMA COME CONQUISTA DI UNO SPAZIO TOTALE: LA DOLCE VITA. NUOVE STRATIFICAZIONI, NUOVE GENEALOGIE: RICERCA DI UN PASSATO PER UN PRESENTE. IL CINEMA E LA CITTÀ: LA CITTÀ DEL CINEMA. LE SERIE DELLA CITTÀ, LE SERIE DEL CINEMA. COME DIRE COSA PUÒ ESSERCI DI NUOVO IN UNA SOCIETÀ. VERIFICHE DEL NUOVO. INVENZIONE DEL «PAPARAZZO». IL SUPPORTO (IL PAPARAZZO) E IL SUO SUPPORTO (LA STRADA): ERRANZA E VAGABONDAGGIO. IL SOGGETTO SOCIALE SENZA PIÙ INDIVIDUALITÀ E LA RICERCA DI UN NUOVO CODICE IDENTITARIO. LO SHOCK DELL’IMMAGINE. L’IMMAGINE DI DIO E IL SUO POTERE. RICOSTRUZIONE DI UN SAPERE SOCIALE, IL SUO ORDINE, LE SUE REGOLE. YVONNE FURNEAUX O L’IMPOTENZA DELLA DONNA. DESCRIZIONE DELLA GRANDEZZA DEI MITI ATTRAVERSO L’IMMAGINE DEL FEMMINILE COME PRIMORDIALITÀ: ANITA EKBERG O LA POTENZA DEL FEMMINILE AI PIEDI DELLA FONTANA («MORIRE DI SETE ACCOSTO ALLA FONTANA»).
Ecco: La dolce vita (1960) è, in senso più materiale, un film strutturato secondo attraversamenti. Già le prime scene definiscono questo principio di costruzione, che stabilisce a mano a mano i suoi luoghi e i suoi spazi, non più ritratti soltanto nei racconti del presente, ma nell’insieme composito del loro passato, e poi calati in ciò che divengono, nel momento stesso in cui lo divengono.
Che cosa si attraversa? E come? La prima sequenza è esplicita: si attraversano stratificazioni che rivelano genealogie. Due elicotteri si inseguono nel cielo, al primo è appesa una statua gigante, un Cristo Lavoratore che porta «la buona novella» con le braccia aperte in segno di pace. Gli elicotteri rasentano le arcate di un acquedotto romano, fendono l’aria sopra alcuni bambini che li rincorrono, diventano ombre e nuvole sulle mura della città in costruzione, sorvolano le terrazze di case eleganti, gli attici della nuova borghesia. Lassù, belle donne in bikini cercano, invano, di comunicare con gli uomini a bordo, che a loro volta tentano di abbordarle: uno è un giornalista, e quindi anche lui portatore di «novelle»; l’altro è il fotografo che lo accompagna. L’inquadratura, dal basso verso l’alto, rivela il volto del Cristo dorato dal sole mentre scende su San Pietro. In rapida sequenza con l’atterraggio della statua, sulla pedana-altare di un locale notturno molto chic si leva l’immagine di un idolo orientale. Questo attraversamento, rumoroso ma quasi muto, raccoglie una serie di significati e di intenti: moderna efficienza del Vaticano (gli elicotteri), classicità di Roma (l’acquedotto), iscrizione della modernità sulle mura dei nuovi edifici (il tracciato delle ombre), sintonia di questi elementi con la vita (i ragazzini o gli operai che festeggiano il passaggio degli elicotteri), nuovi rapporti interpersonali (tentativi di instaurare un dialogo, possibile o impossibile, tra uomini e donne), estensione e conferme simboliche di una storia di potere (il Cristo vittorioso attraversa, dall’acquedotto a San Pietro, un territorio di conquista, in una sintesi che ne raccoglie tutta la storia), mescolanza stratificata delle religioni, ovvero continuità dei paganesimi, in una Città eterna e santa già prima della conquista cattolica (l’immagine del Cristo dorato che si trasforma in idolo orientale, con quest’ultimo che evoca i culti precedenti al cattolicesimo, persino quello di Mitra). In questo attraversamento verticale, gli unici appigli sono le immagini e i rumori, come in una base sonora balbettante.
La sequenza successiva si sviluppa come un attraversamento apparentemente orizzontale, ma il principio di verticalità è in realtà identico, se si esclude il fatto che la sua elaborazione avviene a partire da richiami ai film precedenti. Il locale notturno rimanda a quelli già incontrati, in un’attualizzazione più elegante e raffinata; allo stesso modo, il numero orientale riprende l’atmosfera di altri, modellandola secondo codici elaborati dalla nuova borghesia italiana che si sforza di nascondere – con un effetto di litote – i segni che potrebbero farla sembrare una parvenu.1 Il personaggio del giornalista, Marcello, che abbiamo visto nella scena precedente in elicottero, qui in abito da sera, chiede notizie, prende appunti, elargisce mance perché gli si lascino scattare delle foto. Spunta un nuovo personaggio, molto loquace, caratterizzato come omosessuale, che propone compiaciuto le sue notizie-pettegolezzi. Il fotografo che accompagna Marcello scatta una foto a una coppia seduta a un tavolo. Ne nasce un battibecco, il giornalista è chiamato a un altro tavolo dove si trovano due donne e un uomo, quest’ultimo rimprovera Marcello per come svolge il suo lavoro, e lui precisa: «Io ho un’opinione pubblica da informare, è il mio mestiere… del resto un po’ di pubblicità…». Il dialogo si conclude con una minaccia. Arriva Maddalena, da sola, chiede un whisky, la fine del numero con gli idoli orientali introduce una musica – non è già più il mambo –, sulla quale danzano coppie in abiti eleganti e sofisticati. Il giornalista saluta Maddalena, la conosce, le offre da bere, poi se ne vanno insieme.
In questa sequenza, in apparenza insignificante, Fellini fornisce alcune informazioni essenziali per la possibile costruzione di una storia: il giornalismo ha la funzione di informare e di pubblicizzare la vita diurna (il Cristo al Vaticano) come quella notturna, e dunque è una questione di scoop. Le notizie non riferiscono di eventi, ma riportano con insistenza la pregnanza di un modello sociale. Evocando i frequentatori di via Veneto, Fellini parla di donne vestite come ortaggi: è il caso di molti costumi di scena della Dolce vita, in parte già mostrati nelle Notti di Cabiria:
Mi rendo conto che La dolce vita ha costituito un fenomeno che è andato al di là del film stesso. Dal punto di vista del costume; ma anche forse di qualche innovazione: era il primo film italiano che durava tre ore e tutti, anche gli amici, volevano che lo tagliassi. Ho dovuto difenderlo con le bombe […]. Mi pare che il nutrimento anche per quanto riguarda la formazione delle immagini, fosse rappresentato dalla vita proposta dai rotocalchi, «L’Europeo», «Oggi»; insensate passerelle di aristocrazia nera e fascismo, quel loro modo di fotografare le feste, e quella loro estetizzante impaginazione. I rotocalchi sono stati lo specchio inquietante di una società che si autocelebrava in continuazione, si rappresentava, si premiava; di una nobiltà papalina, nera e contadina, che prendeva il Caravel e si faceva fotografare su «Lo Specchio».2
Abbandonando gli ambienti e i gruppi a cui si era interessato fino ad allora, Fellini racconta frammenti di storie di persone i cui ruoli sociali restano relativamente sospesi, se non attraverso gli elementi, nuovi, di un’eleganza ricercata, strana, inclassificabile, che forse va al di là della classe sociale, fuori categoria, e tuttavia sfrutta un ingombrante sistema di segni: una donna che arriva da sola in un locale notturno, un omosessuale, pose che appartengono a un gruppo che non è nemmeno più la borghesia, ma una via di mezzo che cancella la possibilità di lettura diretta dei segni, moltiplicandone le soluzioni possibili, dagli occhiali scuri, che portano tutti, fino alle automobili. L’attraversamento si fa dunque linea, linea sottile di un racconto elusivo: è Sylvia-Ekberg a percorrere l’attraversamento lineare più grande, come fa Marcello in tutto il film: sono entrambi indicatori della distanza massima dal reale.
L’attraversamento, ancorato a un passato di racconti, serve a ridistribuire la materia filmica verso un divenire che ancora non c’è, se non nel suo nascere immediato, nella preparazione di un divenire, non di storia, ma di racconto filmico. Fellini fa il punto, riflette sul suo cinema e procede a un rovesciamento essenziale: non è più la storia, la narrazione interna, a fare il cinema; adesso è il cinema a creare, raccontandola, la propria storia, e questo rovesciamento, che inizia qui, terminerà formalmente con l’ideazione di 8 ½. Il film non si regge più sulla sceneggiatura, ma sulla sua drammaturgia immanente. È rimessa in discussione la natura stessa della drammaturgia, come se per Fellini il passato di sceneggiatore avesse perduto ogni efficacia reale, ma potesse ancora servirgli da lontano, come un’eco, a creare una base per riprendere da capo quanto già enunciato. In tal senso, l’ambito scelto per rappresentare i meccanismi interni del cinema è prima di tutto quello dell’immagine in generale, poi quello degli attori3 – anche se, ripetiamolo, il sistema sarà definito con maggiore veemenza e rigore in 8 ½ –, ma spinto verso la sua esteriorità, soprattutto attraverso l’eliminazione dei rapporti psicologici.4 La sceneggiatura e il film non sono nulla più che la trascrizione di quello che gli occhi intercettano, una realtà sempre in fuga, sempre da catturare, e dunque un presente che non può essere dato fuori dal tempo e dalla Storia. Se l’erranza e il vagabondaggio hanno rappresentato la formulazione di una ricerca e di un’esperienza conoscitiva, entrambe le modalità sono adesso interamente spostate. Ora, sono l’immagine e i balbettii che trascina fuori dalle parole, fuori dai discorsi e dalle concatenazioni, a raccontare una forma nuova dell’erranza e del vagabondaggio; è la scena tagliata e montata all’infinito.
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Anche La dolce vita sembra suscitare un’impressione duplice: staticità apparente di una forma – per esempio, l’insieme dei racconti nel modo in cui sono sviluppati, nell’estensione di una sequenza come nella moltiplicazione dei dettagli di ogni scena –, e tuttavia sconvolgimento esplicito del materiale che fa da supporto a ogni racconto. Questo parallelismo appare con regolarità: rovine massicce delle strade di una Roma antica, notturna, attraversate da Sylvia, dalla sua chioma, dal suo vestito, dalle sue smancerie balbettate che si appoggiano come bava di lumaca sulla storia immutabile delle mura, rappresentate tuttavia in ulteriori divenire di rovine romane fatte di pellicola, rovine di cinema. O ancora: eternità inalterabile della fontana e sconvolgente immersione di Sylvia nelle sue acque, rivelazione e perdita della parola da parte della fontana e di Marcello. In questo doppio movimento si coniugano velocità differenti, che creano dinamiche esplosive e moltiplicano i gesti che fanno rivivere l’immagine, lasciandole un campo di esposizione che è al contempo più ampio e più denso. A ogni sottrazione del racconto corrispondono addizioni di immagine: così ogni episodio si suddivide in serie variabili – il femminile descritto secondo una triplice serie, con ciascuna delle donne che avrà poi diritto alla sua serie personale, Steiner rappresentato in tre serie, e così via –, e ognuna di queste serie varia in funzione delle velocità che le danno impulso.5
Affermare che questo film rielabora i precedenti non è sufficiente, poiché significherebbe limitarsi ai suoi nuclei narrativi. Allo stesso modo, non basta dire che i sette episodi che compongono il film riprendono, collocandole altrove, le situazioni dei sette film precedenti, anticipando il procedimento utilizzato per il titolo di 8 ½, la cui finzione puramente numerica rimanda piuttosto al desiderio parodico di «fare i conti».6 In realtà Fellini lavora su un elemento che appartiene a lui soltanto, come se volesse far emergere una nozione specifica a partire dal «residuo»: che cosa resta di una storia, di un gesto, di un volto, di un destino nella pulsione affettiva di un prolungamento senza risposta, che non appartiene più al destino dell’uomo, ma alla creazione di un’opera? Le cose trovano in sé il loro compimento, o non le si può forse ritrovare, identiche ma altrove, in un altrove di fluttuazione che le avrà, se non cambiate, quantomeno spostate? In che cosa consiste questo spostamento? Le risposte suggerite in precedenza sono rimaste le stesse, e sono ancora valide?
Tutto ciò significa prendere in considerazione una storia di eterno ritorno, e anche concedere un tempo ritrovato a ogni riflessione sul tempo perduto. La dolce vita filma divenire parzialmente avvenuti: divenire degli uomini nelle situazioni, divenire delle cose, dei sentimenti, dei volti e dei gesti. E, di colpo, sono anche nuove costruzioni: tanto Gelsomina, Cabiria, Augusto, Zampanò, il Matto, i Vitelloni erano rappresentati nella loro eccezionale individualità e in un racconto chiuso, quanto nella Dolce vita Maddalena, Sylvia, Emma non esprimono più, se non raramente, la propria individualità, e anche quando questo accade, non è sufficiente: sono, ognuna, l’espressione particolare di un disegno più ambizioso, che le riassume in un unico emblema nel quale si trovano coinvolte o dal quale si svincolano in modi diversi.7 Si tratta senza dubbio del femminile: ma da dove prende spunto? È il femminile in sé o non è anche, parallelamente, il femminile filtrato dallo sguardo di un uomo? O ancora, in che modo un uomo lo rappresenta affettivamente, ricostruendolo in un’immagine mentale? Chi è quest’uomo che a sua volta ignora se stesso? Che valore può avere l’immagine del femminile, come si combina, e dove conduce? Come si costruirà a livello culturale l’immagine del femminile, e qual è la sua novità? Che cosa interpreta? Fellini inaugura delle modalità di riflessione e di creazione che riguarderanno volta per volta «oggetti» diversi, ai quali tenterà di conferire l’espressione più estesa possibile. Si può ridurre il tutto a pochi grandi temi: il femminile e il maschile che si affrontano, nel caso della Dolce vita; l’artista e la creazione che si affrontano attraverso i modelli delle «creature» e quelli di una totalità del femminile – dove l’artista è ritratto tra l’espressione della vita e le possibilità espressive della rappresentazione – in 8 ½; il femminile alle prese con i tormenti prodotti dal maschile in Giulietta degli spiriti; alcune proiezioni vicine all’omosessualità di fronte a un mondo costruito in modo strano in Satyricon; la ripresa interminabile del femminile, nella Città delle donne, e così via. Come se questa modalità di elaborazione cercasse ogni volta di colmare il vuoto lasciato da una realizzazione parziale, inserita in una temporalità che andava delineandosi come fosse in fuga: mancava a ogni storia raccontata l’espressione della sua creazione, il racconto lasciava un residuo che si sarebbe sviluppato secondo nuove leggi, portatrici di un surplus di invenzione creativa.
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L’intenzione drammaturgica della Dolce vita nasce da un sogno di Cabiria e ne prolunga la storia: andare a guardare, senza voyeurismo e con scaltrezza innocente, in un mondo di cui si crede di conoscere tutto, ma che sembra diverso e nuovo, che, pur mostrandosi, non intende davvero svelarsi, e i cui segni, distanti nel caso di Cabiria, sono ammalianti, avvolgenti. Vita sognata degli altri, inaccessibile, con l’apparenza di una finzione che riveste esteriormente i segni della teatralità, della teatralizzazione. Il titolo stesso dell’opera – un’invenzione di Ennio Flaiano –, nonostante l’articolo che serve ad attenuarne l’enfasi, suggerisce un contorno fluttuante, più astratto di quello degli altri film, evoca la sensazione di una cosa piuttosto che la cosa stessa, come una malinconia alla Fitzgerald, piena dei rimpianti dell’incompiuto, riassorbita dalla dolcezza sospesa del non finito. Il film e il titolo sfuggono a un’imposizione di senso: non si sa cosa sia «la dolce vita»,8 e ogni risposta che non accolga la dimensione elusiva del film, l’esperienza di attraversamenti e di linee raccontate nell’abbandono della finzione, non può che essere parziale.
La scena in cui si svolge questa finzione corrisponde a quanto esiste di più esteriore alla vita, di più immerso nell’apparenza, di meno compromesso in storie d’interni di vita privata: siamo passati dalla geografia angosciante della strada (La strada, appunto) a quella, appena più rassicurante, delle strade della città (i marciapiedi delle Notti di Cabiria), per giungere a un luogo estremo, via Veneto – all’epoca importante quanto la basilica di San Pietro, senza tuttavia manifestarsi come «punto di vista» laico –, che si distende come il nastro scintillante di una collana dal fluire ostentato e sensuale, Via Lattea e cintura di Venere dell’Urbe, fiume dalle due rive che non si attraversa mai, ma di cui si costeggia la sponda.9 È l’elemento costitutivo del film in cui si torna e si resta arenati alla fine di ogni deviazione, in cui le cose accadono come per caso, benché sia risaputo che quello che accade può aver origine soltanto da lì: da lì si fa il punto e da lì si riparte, lì tutto si lega e si slega, antagonismi e pacificazioni, punto di raccolta e di dispersione.10
A questa concentrazione che si disperde e si riaddensa come un respiro corrisponde una messa a punto dell’immagine: ciò che sembra statico si muove costantemente, pullula. Soppiantando il racconto delle apatie ripetute, un nuovo elemento, i fotografi, i «paparazzi» – un’invenzione linguistica di Fellini –, determina in modo occulto l’insieme dei movimenti. Fin dalle prime scene al cabaret, i paparazzi imprimono delle dinamiche – a volte antitetiche o negative –, le quali si sviluppano in altrettante azioni – chiamiamole scatti – che aspettano di avere la parola. I paparazzi scattano foto, catturano immagini, inglobando, includendo e mescolando i loro segni distinti: occhiali scuri, automobili, abbigliamento, modi di agire. Ma queste immagini non sarebbero nulla se un commento appropriato, una parola adeguata non ne esprimessero la specificità di luogo, di tempo, di azione: il giornalista le interpreterà poi con la parola che attendono, una parola preparata dietro le quinte da un informatore. L’omosessuale ciarliero e curioso svolge questo ruolo, di personaggio subdolo e vigile. Nella scena iniziale le reazioni dei clienti del cabaret danno avvio alla finzione, rappresentati in un desiderio di farsi pubblicità tanto manifesto quanto negato: a che cosa servirebbe altrimenti la loro vita estatica, ferma in posa, se non fosse commentata, in forma di nuova conversazione sul tempo che passa? È qui che la finzione raggiunge il culmine, che il suo bisogno di testimonianza e di attestazione è soddisfatto, che tutto è detto attraverso la negazione stessa; fotografi e giornalisti sono gli scribi, i chierici, i divulgatori, gli storiografi di questa nuova forma di realtà che tenta di sfuggire alla propria testimonianza, ma non alla propria formalizzazione, di affrancarsi dalle leggi di un reale che crea dal nulla, imponendo una sola lettura possibile della sua immagine e, tramite questa, delle immagini.
Da questo momento in poi, la successione delle prime scene acquista maggiore chiarezza: il discorso indiretto sull’immagine degli individui, sviluppato nel cabaret attraverso delle opposizioni, ha qualcosa a che vedere, in modo rovesciato, con l’immagine dell’idolo che danza e con quella dell’icona trasportata dall’elicottero. Sono tre momenti di una stessa suggestione: queste diverse linee creano un intreccio il cui esito, che inaugura un discorso sull’immagine dell’umano e sulle modalità del suo muoversi, diventerà il punto nevralgico del film, esterno alle individualità e alle soggettività, proprio come la strada in cui si svolgono gli eventi, che include questo discorso interiorizzandolo per ricacciarlo fuori, sui marciapiedi. Tutto avviene su questa linea: quello che sembra «succedere», «avvenire», non è altro che l’esemplificazione sistematica di questo doppio attraversamento dell’esterno. La riflessione che pare muovere il personaggio principale, Marcello, è solo apparente, non aderisce che a questo esterno e ne fa un personaggio di pura «superficialità»: gli eventi gli scivolano addosso, senza toccarlo, o soltanto in modo marginale. Una sorta di attore-spettatore, in fin dei conti, apatico e velleitario quanto i personaggi che l’hanno preceduto, senza alcuna presa sulla realtà, che deve subire per due ragioni: perché quella realtà è solo apparente, pura finzione posticcia della vita, e perché, nondimeno, la sua iscrizione nella legge dei segni è tirannica e non ammette trasgressioni.
In questo contesto, l’evento non può avvenire per davvero, si confonde troppo spesso con l’occasione in tutto quello che quest’ultima può avere di casuale e di improbabile: come in una favola in cui si devono superare delle prove, Marcello sembra passare «accanto» alle (sette) modalità che gli vengono offerte come possibilità di trasformare le occasioni in eventi. La sordità della scena finale – in una suggestione che inverte la condizione di Ulisse mentre ascolta le Sirene – gli impedisce di capire la rivelazione della triplice sirena che gli si mostra: la prima, Emma, umana e sociale; la seconda, Maddalena, animale e naturale; infine la terza, Sylvia, irraggiungibile e divina.
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C’è un mondo subalterno in fermento, che aspetta di essere divinizzato, in un modo o nell’altro. L’umorismo di Fellini, ...