Tra Etica e Potere
Fin dalle origini il pensiero politico prese a muoversi nelle due direzioni della cruda analisi del potere da un lato e della teorizzazione del suo fine ultimo in chiave «etica» dall’altro, direzioni di marcia che talvolta hanno trovato un equilibrio ed altre volte si sono divaricate.
L’idea di una vocazione nobilissima della politica trovò in Aristotele un formidabile sostenitore. Il filosofo, infatti, propugnava la necessità di una vita sociale dell’uomo, definito zoon politikon, animale politico. La cifra della nostra umanità, e, insieme, la nostra connaturata politicità, dunque, sono segnate per Aristotele dalla nostra necessità comunitaria: la famiglia, il gruppo sociale, le città, dunque la società organizzata in forma di polis greca. Nella polis la regola di convivenza è dettata dalla legge che conduce alla «vita buona» proiettata verso virtù come la giustizia, la bontà e la bellezza. Sulla stessa linea fortemente intrisa di eticità troviamo Platone, allievo di Socrate, il primo grande maestro del pensiero greco antico. Secondo Platone, e in linea con l’insegnamento socratico, la eudaimonia, cioè il perseguimento della vita buona − intesa non come appagamento di bisogni effimeri, ma come conseguimento di un ideale di virtù − è legata alla conoscenza dei principi etici che dovrebbero ispirare l’azione dei governanti. Ma la conoscenza delle virtù che conducono alla vita buona è patrimonio dei filosofi: per questa categoria di persone l’esercizio del potere politico non si dirige verso l’obiettivo di disporre a piacimento dell’autorità fine a sé stessa o degli onori legati al munus pubblico o a ricchezze. In realtà per il filosofo de La Repubblica la conoscenza è essa stessa premessa della virtù. Per questo chi regge le sorti dello Stato dovrà essere educato all’esercizio della virtù. Platone, dunque, tracciò un impianto teorico che pose solide basi alla teoria politica nel senso più nobile, di strumento che, attraverso la pratica delle virtù, riesce a tenere a bada le derive degenerative che si nascondono nell’azione di governo, quale che sia.
In un altro quadrante del mondo, nella Cina imperiale, nello stesso tempo si andavano consolidando raffinati pensieri filosofici sull’arte del governo non troppo lontani da quelli che gettavano le basi del pensiero occidentale. Almeno per quel che riguarda il ruolo dei pensatori nell’assistenza ai governanti. In una parola: il ruolo della competenza nell’arte della politica.
Risale al quarto secolo avanti Cristo la prima elaborazione concettuale sulla meritocrazia e si deve a un pensatore cinese, Mozi, che non discendeva dai comodi lombi della nobiltà, in genere produttrice di attitudini filosofeggianti, avendo risolto a priori il problema della sopravvivenza, ma dalla plebe. Costretta a faticare per mangiare. Cosa pensava Mozi della competenza e del merito è presto detto: va consentito l’accesso al potere solo ai virtuosi ed ai capaci. E la capacità si acquista col talento, certamente, ma soprattutto con lo studio e l’applicazione. Dunque non per nascita nobile. La dottrina filosofica che ne sortì, il moismo, fece fatica a trovare accoglienza nei regimi imperiali autoritari del IV secolo. Una onomatopeia traversa, il maoismo, avrebbe nel XX secolo ribaltato lo schema, nascondendo dietro il commendevole mito dell’egualitarismo, dell’uno vale uno, una forma di mimesi autoritaristica in linea con le tradizioni dell’imperialismo dei secoli andati. Prima di Mozi, però, troviamo Confucio. Anche per Confucio ogni essere umano si rappresenta come un individuo dalla socialità necessaria, perché solo nell’interazione con gli altri e nella disciplina, che comporta anche rinuncia a sé stesso, riesce a sviluppare le proprie qualità. In questo modo il pensiero confuciano riesce a tracciare un orizzonte di superamento delle barriere egoistiche proiettando l’individuo verso la comunità. Se alla base della socialità al primo gradino, dopo l’essere individuale, si colloca la famiglia (jia) ed al secondo lo Stato (guo-jia), inteso come livello di sintesi delle unità familiari, alla base dell’universo ci sono l’ordine naturale e l’armonia che vengono garantiti dalla condotta morale del singolo individuo, ispirata al modello virtuoso e coerente con l’equilibrio naturale. L’armonia è, pertanto, un principio guida nell’etica confuciana che, partendo dal percorso di vita del singolo, acquista la forma più larga della dimensione sociale in contrasto con lo stato di caos. Se la condizione del buon governo, che tende alla realizzazione del bene comune, è garantita nella cultura occidentale da un efficace sistema di norme e di sanzioni che colpiscono il trasgressore in caso di condotta illecita, nel sistema confuciano l’obiettivo del bene collettivo si raggiunge attraverso i Riti e la Virtù. E con l’applicazione di un rigoroso principio meritocratico.
Visioni: eudaimonismo e realismo
L’impianto eudaimonico dei filosofi greci, insito nella ricerca che ogni singolo individuo compie per raggiungere la buona vita, è dunque estraneo alla dottrina confuciana che, invece, tende al fine supremo dell’equilibrio armonico, in una logica collettiva e non individualistica. Questa «base» potentissima del pensiero orientale sopravvivrà ai secoli e approderà nei suoi elementi essenziali ai giorni nostri, sotto forma di Asian Values, i valori asiatici.
Alla visione «realistica» del potere, invece, aderiscono i pensatori che negano una proiezione «valoriale» della politica: secondo quest’ottica il contenuto dell’agire politico non è il perseguimento di virtù o di valori particolari, ma solo il crudo obiettivo del potere. In questa visione svapora quasi del tutto l’alibi morale e resta l’interesse personale degli attori. La teorizzazione di un’indole umana, nient’affatto nobile, è di Niccolò Machiavelli che racchiuse nel suo trattato più noto, Il Principe (1513), i fondamenti della moderna scienza politica. Il pensatore italiano riflette sul dovere del Principe di garantire la continuità dello Stato, anteponendo questo fine anche al suo stesso statuto morale, essendo egli stesso servitore dello Stato. Machiavelli nella sua opera analizza la politica così com’è, ribaltando anche il significato attribuito a termini consolidatisi nel lessicario filosofico antico, come la parola virtù. Per il grande fiorentino, infatti, la virtù altro non è se non lo strumento, impastato di talento, studio ed intelligenza, che serve al principe per interagire con gli eventi fuori dal suo controllo, eventi che Machiavelli chiama «fortuna». Ritorna un richiamo che somiglia alla competenza, dunque, di ascendenza platonica e non estraneo alla cultura sinica, ma, a differenza dell’idealista dell’antichità, per il realista del Cinquecento si tratta di qualità che hanno a che fare con l’energia e l’intelligenza configurati come elementi costitutivi della personalità del Principe. Accanto al pensatore fiorentino si iscrive di prepotenza nell’elenco dei fautori di una versione cinica delle relazioni politiche Thomas Hobbes, autore de Il Leviatano (1651), sostenitore dell’assolutismo monarchico come strumento per emancipare il consorzio umano dalla condizione di brutalità assoluta in cui per natura ogni uomo è posto. Lo stato di natura, dunque, è rappresentato da uno spazio sregolato in cui regnano l’egoismo, effetto dell’istinto di sopravvivenza, e la sopraffazione. Non esistono in natura, per Hobbes, l’empatia, la solidarietà, l’amore per il prossimo: accogliendo un antico aforisma plautino (in Asinaria), il pensatore recupera l’idea che ogni uomo si faccia lupo nei confronti degli altri uomini (lupus est homo homini). Dunque la forma-stato, nella visione di Hobbes incarnata dal monarca, rappresenta la possibilità di spezzare le catene della condizione belluina che caratterizza in natura il destino degli uomini la cui vita è «solitary, poor, nasty, brutish, and short». La spoliazione di tutti i diritti naturali, tranne quello alla vita, in favore dello Stato, diventa così una condizione necessaria per far cessare il conflitto tra gli esseri umani.
A questa short list dei realisti politici aggiungeremmo John Locke, precursore dell’Illuminismo e del pensiero liberale che, pur partendo da una concezione simile a quella hobbesiana dello stato di natura, sosteneva che l’emancipazione dell’uomo non sarebbe potuta avvenire con la cessione di tutti i diritti (tranne quello alla vita) al sovrano, bensì devolvendo solo quello di farsi giustizia da sé. Lo Stato, pertanto, ha il dovere di riconoscere e tutelare i diritti naturali di ogni uomo, e tra questi una posizione rilevante viene assunta dal diritto di proprietà, attraverso il potere magistratuale. Quanto alla soluzione migliore per garantire il buon governo Locke, con evidente sensibilità empirista, propendeva per una valutazione concreta e non per un’adesione a priori a modellistiche astratte: «Poiché il buon andamento degli affari pubblici o privati dipende da vari e sconosciuti umori, interessi e capacità degli uomini con cui abbiamo a che fare nel mondo, e non da alcune idee stabilite di cose fisiche, politica e saggezza non sono suscettibili di dimostrazione. Ma un uomo trova su questo terreno l’aiuto principale dell’indagine dei dati di fatto, e in un’abilità di scovare una analogia tra le varie operazioni e i loro effetti» (J. Locke, Second Tract of Government, 1662).
La teoria dell’anaciclosi
C’è una teoria riguardante le forme di governo − che poi sono le forme che assume la politica nella sua declinazione concreta di regolatrice dei rapporti sociali − ricorrente nel pensiero degli antichi, ma capace di esercitare suggestioni fino a Machiavelli. È la teoria dei cicli di governo, anzi della loro tendenza a tramutarsi in una dimensione degenerativa. In greco si chiama anaciclosi, descritta da Erodoto, Platone, Aristotele, Polibio, tanto per citare i più noti, e richiamata a nuova fortuna nell’età dell’Umanesimo e poi nel Rinascimento. Secondo questa teoria ogni forma di governo tende a deteriorarsi seguendo un’immancabile «coazione a ripetere» che incessantemente descrive la sua trasformazione e poi, compiuto il ciclo, riprende dallo stadio originario. Polibio ne disegna l’andamento in modo chiaro: in origine si afferma una forma primordiale di monarchia che poi si sviluppa in modo positivo avendo come criterio il bene dei sudditi. Ma questo ciclo trova una sua conclusione con il passaggio del testimone all’erede che trasformerà la monarchia nella sua versione degenerata che è la tirannide. A questo punto, secondo Polibio, gli uomini migliori del regno si ribelleranno al tiranno rovesciando il suo potere per instaurare il governo dell’aristocrazia. Ma anche questo regime sarà destinato a subire un’involuzione degenerando, con la transizione generazionale, in oligarchia, una forma di governo che persegue l’obiettivo del vantaggio di poche persone, quelle che detengono il potere. Anche questa forma degenerata di governo sarà, naturalmente, destinata a segnare il passo, lasciando il posto alla democrazia, instaurata dal popolo che si sarà ribellato agli oligarchi. Ma pure la democrazia, questa forma ideale di gestione della cosa pubblica così vicina alla sensibilità dei moderni, cederà il passo alla sua dimensione negativa: l’oclocrazia, ossia il governo delle masse informi, retto da leggi fatte solo per compiacere il popolo, ma senza aver visione del bene comune. Una forma di governo in cui prevale ciò che oggi definiremmo forse populismo, destinata a essere abbattuta da qualche demagogo che darà l’avvio ad un nuovo ciclo, ripartendo dalla dittatura che predisporrà la strada alla monarchia eccetera, seguendo i cicli eterni della storia umana.
Esistono, dunque, più versioni dell’anaciclosi, che, pur aderendo all’impianto ciclico con la torsione degenerativa ben illustrata da Polibio, aggiungono o interpretano − contestualizzandola − la teoria. Lo stesso Polibio, ad esempio, vedeva nella Roma repubblicana l’ideale inveramento delle versioni «positive» delle forme di governo, individuando nel Consolato la monarchia, nel Senato il governo aristocratico e nei Tribuni il governo democratico.
Per Machiavelli alla ferrea legge dell’andamento ciclico delle forme di governo non potrà sfuggire neanche il più astuto dei Principi, perché «così sempre da il bene si scende al male, e da il male si sale al bene».
Il pensiero politico si fa sistema: nasce l’ideologia
La parola «ideologia» nacque da una costola illuminista agli inizi del XIX secolo, coniata dal filosofo francese De Tracy, e si guadagnò una reputazione negativa a opera di Napoleone. Ma la consacrazione del termine nella categoria della politica si deve a Marx che ne attribuisce significato all’interno della sua teoria materialistica della Storia. L’ideologia, infatti, rappresenta, per il pensatore tedesco, un’astrazione dalla concretezza dei rapporti sociali e, insieme, una proiezione alterata della propria condizione che una classe sociale si attribuisce, accettando la rappresentazione della Storia tracciata dalla classe dominante. Il riscatto dell’ideologia dal retrogusto di sovrastruttura ingannevole a cui la consegnò il padre del materialismo storico, si deve alle analisi sociologiche del Novecento, in particolare a Mannheim, che approfondisce il concetto di ideologia «totale», collegandola alla coscienza (attraverso la lezione di Kant e poi di Hegel) del popolo. Anche Hanna Arendt si misurò col concetto, approfondendone la sua dimensione storicistica, come chiave di lettura del passato, interpretazione del presente e previsione del futuro, mettendo, però, in guardia dall’astrazione delle ideologie rispetto alla concreta esperienza, e la loro propensione a rappresentarsi come macchine logiche perfette e inconfutabili, che agiscono in modo deduttivo. Oltre il contenuto filosofico − irrimediabilmente connotato di disvalore − il termine «ideologia» ha assunto nel Novecento un significato prettamente politico e, in questa dimensione, ha svolto un ruolo fondamentale nel riempire di contenuto l’esperienza storica del partito politico, offrendo un’identità all’azione dei partiti di massa in chiave di dialettica e di legittimazione reciproca. Non a caso la caduta del «sistema ideologico» più identitario, rappresentato dal comunismo, ha determinato l’affievolimento delle altre ideologie, nella logica del «simul stabunt, simul cadent» che dettò il fortunato titolo del libro del politologo Fukuyama La fine della Storia, dopo la caduta del Muro di Berlino.
Nel linguaggio non accademico per ideologia si continua ad intendere la fonte ideale e sistemica delle teorie che nutrono i programmi e le azioni del partito o del soggetto sociale (movimento, gruppo, comunità religiosa) che agisce sulla scena pubblica per il perseguimento di finalità collettive.
Ecco l’homo politicus
È cosa nota la diffidenza che la classe politica raccoglie in tutto il mondo. Se non si ha il tempo di gettare un occhio sulle indagini demoscopiche che nei Paesi democratici illustrano in modo illuminante il rapporto − divaricato − tra popolo e rappresentanza, basterebbe un po’ di letteratura o qualche film, anche di quelli che mandano nelle tv a gratis. Il politico infatti, è rappresentato prevalentemente, nell’immaginario degli scrittori e degli sceneggiatori occidentali, come un mestierante, spesso un inaffidabile sfruttatore del popolo, un mangiapane a tradimento se non un vero e proprio lestofante. Peraltro il sostantivo «politico» rappresenta di per sé espressione impropria perché tende a mettere nello stesso cesto tutto ciò che ha a che fare con qualche ruolo di rappresentanza nell’ambito del pubblico, accettando a priori l’idea che si tratti di una carriera e non di un servizio reso ai cittadini: insomma c’è una tara di partenza. Ma non è stato sempre così. Almeno in Italia. C’è stato un tempo in cui chi esercitava la rappresentanza politica, soprattutto a livello legislativo, e...