Un ragionevole dubbio
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Un ragionevole dubbio

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Il delitto di Cogne, al di là dell'impressionante e morbosa attenzione mediatica che gli è stata riservata e della sapiente intelaiatura giuridico-processuale che lo connota, è uno spaccato lirico ed emozionante del dramma umano di solitudine e d'angoscia che suole stringere in una morsa di disperazione inesorabile la persona imputata davanti all'immaginario del Grande accusatore e al mistero profondo della sua coscienza.
Enzo Tardino ripercorre tutte le fasi della vicenda, non solo da un punto di vista strettamente giuridico, ma anche prendendo in considerazione il contesto socioculturale in cui è avvenuto il misfatto, quello di una piccola comunità montanara in cui la solidarietà tra i suoi componenti è un valore fondamentale, ma la discrezione e la riservatezza sono qualità ancora più apprezzate e importanti.
In questo scenario pacifico, silenzioso come la neve che imbianca le cime delle montagne, la morte improvvisa e inspiegabile di un bimbo indifeso arriva come un fulmine a ciel sereno.
Quella che all'inizio sembra una tragedia imprevedibile, ben presto si delinea come un orrendo infanticidio. L'autore racconta tutto l'iter che ha portato a individuare nella madre la principale indagata per l'uccisione del figlio, inframmezzando il resoconto cronachistico con sue riflessioni personali e affidandosi, talvolta, all'immaginazione letteraria per raccontare l'indicibile.
Alla lucida esposizione delle tappe processuali si affianca l'insopprimibile chiacchiericcio dell'opinione pubblica, cui fa da sponda un certo giornalismo non sempre di alta levatura.
In questo marasma di supposizioni, pareri, pettegolezzi, l'autore si sofferma anche sui punti oscuri del caso, tuttora non chiariti.

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Information


Enzo Tardino

Un ragionevole dubbio
(Quell’orribile delitto senz’armi né movente...!)
Finito di stampare nel mese di febbraio 2022
presso Grafiche Emmegi S.r.l (Castelforte, Latina)
per conto della Casa Editrice Kimerik
Casa Editrice Kimerik
PATTI (ME)
tel. 0941 21 503 - fax 0941 243561
www.kimerik.it redazion[email protected]
Io sono la PAROLA
Io sono l’emozione
Non conta un bel nulla se mi sfiori o se mi sfogli
Io sono
Il libro

Kimerik® è un marchio registrato
Stampato in Italia


[1] Le riforme sulla giustizia, per essere radicali e in profondità, devono investire la procedura e non il diritto sostanziale (…che è destinato a morire da sé in quelle parti che la società e i tempi rifiutano), disciplinando l’impatto drammatico e traumatico di un ruolo oscuramente e simbolicamente disumano, come quello della giustizia, le cui riforme sono mere cialtronerie senza il rispetto delle libertà dell’uomo inquisito. Certo, ci sono esigenze statuali ragionevolmente funzionali a una giustizia tempestivamente correlata a un necessario efficientismo processuale, ma il primo e il più importante valore processuale è la tutela della libertà e della privacy di un uomo, che potrebbe essere innocente, ancorché fortemente sospettato.
[2] Il processo penale, però, deve solo servire a verificare se una persona ha violato la legge penale; e la legge naturale e civile di un processo è che non si possa punire alcuna persona se non con un giudizio che ne abbia accertato le responsabilità e con una sentenza che abbia dimostrato con le prove di avere soppesato le ragioni del dubbio. Questo processo è, però, quello scritto nei codici, che non ha nulla a che vedere, purtroppo, con il processo mediatico che tutti i telegiornali ci somministrano a tutte le ore quando succede qualcosa di processualmente eclatante.
Un processo, questo, incidentale, preventivo e nel segno dell’urgenza e dell’emergenza e con provvedimenti sensazionalistici, esemplari e didascalici. È questo il solo processo che la gente è ormai adusa a percepire.
[3] Il senso dato a intendere del processo è quello volto a placare la collera della folla con una furibonda operosità investigativa, che ci fa vedere la presenza di uno stato solerte e rassicurante.
Un paese, però, che non abbia il coraggio d’incentivare una vera cultura della giurisdizione non può dirsi civile. Sì, è vero, c’è una tendenza forte a portare certi processi fuori delle aule giudiziarie, tra la gente; ma questo assai spesso induce a banalizzarne la visione, ammantando di pregiudizi – che hanno un peso emozionale anche sui giudicanti – il processo, la cui verità è tutta da scoprire nel dibattimento di un processo giusto e imparziale.
[4] Fruttero riconosce forti analogie con i racconti di Agata Christie, il riferimento cronologico (qualcosa è accaduto in un’ora precisa), la villetta isolata alla periferia del paese, il delitto in quel cottage solitario e l’ispettore che interroga in quella casa parenti, amici e conoscenti; ma nel giallo della Christie, dice Fruttero: «ogni atomo dell’atmosfera tradisce un amore dell’ordine violato ma destinato a essere ripristinato. Nel caso di Cogne il giallo impallidisce e irrompe la tragedia greca e la catastrofe». Se, allora, il mattatoio di Cogne è senza movente, quel delitto non può essere stato compiuto che da un folle. Anche Andrea Camilleri, l’artista del politichese, l’amabile scrittore delle vicende del Commissario Montalbano, è piuttosto riluttante a parlare di movente nel caso Cogne: «…Sono restio a parlare di fatti che non conosco, ma se proprio dovessi essere trascinato nell’impresa di ricostruire un movente in quel delitto, dovrei arrendermi e dire che una storia così non potrei neppure immaginarla… Vede, in fondo la percezione di un movente funziona come un’idea rassicurante, consente di farsi una ragione di ciò che è assolutamente irrappresentabile, anche con il più commovente sforzo del romanziere».
[5] E non è così perché assai spesso, come nel caso di specie, dove la persona dell’omicida sarebbe genericamente indiziabile indifferentemente tra un soggetto dell’entourage familiare, del vicinato e anche con riguardo a una qualunque altra persona estranea che, per qualunque ragione, poteva avere premeditatamente studiato le possibilità di entrare in quella casa; o anche avere avuto occasionalmente l’imprevedibile spunto pazzesco per farlo, la cognizione, nello specifico, dell’arnese adoperato per uccidere, sarebbe potuta essere una spia estremamente importante per orientarsi verso un’opzione più selettiva. Anche perché il mancato ritrovamento dello strumento omicida doveva dirsi decisivo per escludere che quell’omicidio potesse essere stato commesso da una persona folle (che per uccidere si sarebbe avvalsa di qualunque strumento gli fosse capitato sottomano). Dirò di più, nel mancato ritrovamento dell’arma del delitto potrebbe rinvenirsi un più che probabile fondamento della natura spiccatamente dolosa e preordinata del fatto delittuoso.
[6] Il giornalismo, nel senso più tecnico e comprensivo della parola è solo informazione. La cosiddetta...

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