PIERRE E MOHAMED
Algeria, 1 agosto 1996
DA QUASSÙ
Mohamed
Mi hanno detto che il volo da Algeri arriverà con diverse ore di ritardo. Allora sono venuto quassù ad aspettare. Non volevo rimanere all’aeroporto di Es-Sénia, in mezzo ai soldati, con tutta quella gente stipata in quel grande hangar soffocante. D’estate, a Orano, anche l’aria del mare è soffocante, e bisogna salire sull’Aïdour per trovare un po’ di fresco sotto i pini. Allora ho preso la Peugeot 205 del mio capo per salire fin quassù ad aspettarlo. Questo anfratto qui in alto è il mio posto, qui posso rimanere ore intere ad ammirare la città , «Orano la splendida», il porto e il mare. Quando mi sento triste, è qui che vengo a piangere.
Ed è qui che ho accompagnato Pierre tre mesi fa. Avevo appena cominciato a lavorare per lui, ma lo conoscevo da tanto tempo. Quando ero piccolo, le suore della nostra parrocchia, a Sidi Bel Abbès, ci avevano aiutato molto: mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle, e anche me. Da allora do sempre una mano in parrocchia, per fare qualche lavoro o guidare la macchina delle suore. Guidare, soprattutto, è quello che mi piace di più. Così, quando ho saputo che Pierre, il vescovo di Orano, che veniva spesso da noi a trovare le suore o il parroco, aveva bisogno di un autista per l’estate, mi sono proposto io. Così guadagno qualcosa per aiutare mia madre a cavarsela (adesso sono io il più vecchio, il capofamiglia). E poi sono orgoglioso di fare l’autista di un vescovo cristiano, anche se io sono musulmano. Sono felice di accompagnare Pierre.
Gli ho detto pressappoco così, quando l’ho portato con me su questa strada panoramica. Poi abbiamo contemplato Orano, il suo candore, il mare smagliante. Gli ho detto che non ne potevo più di questa guerra civile senza fine, che distrugge tutto, e di questi morti, ogni giorno, uccisi non si sa da chi.
Che cosa significa avere ventun anni, quando si diventa grandi con questo odore di morte ovunque intorno a sé? E io nemmeno so da che parte bisogna stare. Ci sono i barbuti, che vengono a dirci che noi siamo dei cattivi musulmani, che non dobbiamo più fare quello che abbiamo sempre fatto. Ma mia nonna, poverina, che prega tutto il giorno e va sulle tombe dei marabutti, è forse una cattiva musulmana? E dall’altra parte c’è la polizia che minaccia e picchia, che arresta e tortura. Io non ho voglia di scegliere da che parte stare.
Pierre mi ha sorriso. Mi ha detto che anche lui era cresciuto in un’Algeria dilaniata dalla guerra – un’altra guerra, beninteso, quella in cui mio nonno morì combattendo i francesi. Ed è su un’altra città che piangeva, Algeri, dove un giorno mi porterà , quando si potrà viaggiare senza pericolo. Ma già allora c’erano la violenza e l’angoscia, le morti, gli attentati, i blocchi stradali dove ci si ferma senza sapere se si ripartirà vivi. In quell’Algeria è cresciuto lui, un piccolo francese, e non capisco come abbia potuto amarla. Non capisco come possa amarla oggi, quando la vede in queste condizioni; come possa amarla al punto da non lasciarci, da non rientrare in Francia. Come si può amare un paese malato, angosciato, che divora sé stesso? Per me, è questo il mistero di Pierre.
UMANITÀ PLURALE
Pierre
Le mie parole sono il frutto dell’esperienza. Non sono un politico. Sono nato in Algeria, e ho seguito l’evoluzione di questo paese condividendo l’esistenza di milioni di algerini che oggi si trovano sprofondati nella crisi che tutti conosciamo. Ho l’impressione di rivivere dolorosamente ciò che ho vissuto in altri tempi.
Ho trascorso infatti la mia infanzia nella «bolla coloniale». Non che tra i due mondi le relazioni mancassero, anzi. Ma nel mio ambiente sociale io sono vissuto in una bolla, ignorando l’altro, incontrandolo unicamente come elemento del paesaggio, dello scenario che avevamo creato nella nostra esistenza collettiva.
Forse è proprio perché ignoravo l’altro o ne negavo l’esistenza che, un giorno, me lo sono trovato addosso. Ha fatto esplodere il mio universo chiuso, che si è disintegrato nella violenza – e come avrebbe potuto essere altrimenti? Ha affermato la sua esistenza.
L’emergere dell’altro, il riconoscimento dell’altro, l’adeguamento all’altro sono diventati per me un’ossessione. È questa, verosimilmente, l’origine della mia vocazione religiosa. Mi sono chiesto perché, lungo tutta la mia infanzia, pur essendo cristiano – non più degli altri –, frequentando le chiese – come gli altri –, ascoltando i discorsi sull’amore del prossimo, non avevo mai sentito dire che l’arabo è il mio prossimo. Forse lo avevano anche detto, ma io non l’avevo afferrato. Allora ho pensato: d’ora in poi, niente più muri, niente più frontiere, niente più separazioni. Occorre che l’altro esista, altrimenti noi ci esponiamo alla violenza, all’esclusione, al rigetto.
Pertanto, dopo l’indipendenza ho chiesto di tornare in Algeria, per riscoprire questo mondo in cui ero nato, ma che avevo ignorato. E a quel punto è iniziata la mia vera avventura personale – una rinascita. Scoprire l’altro, vivere con l’altro, ascoltare l’altro, lasciarsi anche plasmare dall’altro: tutto questo non significa perdere la propria identità , rinnegare i propri valori; vuol dire, piuttosto, concepire ...