1. TOTNES: L’EPOPEA ECOLOGICA DI UNA PICCOLA CITTÀ
Un liceo inglese, un contadino italiano e un monastero buddhista
Mister Hopkins, potrebbe raccontarci il percorso che ha trasformato quel giovane cittadino britannico che lei era in un professore di permacultura nelle campagne irlandesi?
Questo viaggio, Lionel, che dura ormai da molti anni, è cominciato quando avevo 18 anni. La partenza è stata decisa quando ero al liceo e vivevo a Bristol in un appartamento con tre amici. Non avevamo un soldo e la vita che ci attendeva, in una Gran Bretagna logorata dalla disoccupazione, non ci attraeva proprio per niente. Ci siamo trovati tutti e quattro dei lavoretti per raccogliere il gruzzolo necessario a lasciare il Paese. E siamo partiti, ognuno per conto proprio, con una sfida comune: scoprire il filone giusto per poter vivere lontano dall’Inghilterra. All’epoca, per i giovani c’erano biglietti ferroviari molto economici che permettevano di viaggiare da un capo all’altro dell’Europa. Due di noi sono tornati al punto di partenza a mani vuote, a tasche vuote, mentre il terzo ha scovato un monastero buddhista in Toscana. Di là ci scriveva cartoline per descrivere il posto dove si trovava, un luogo formidabile, e ci incitava a raggiungerlo al più presto. L’estate seguente, perciò, ci sono andato anch’io, non perché interessato al buddhismo ma perché volevo imparare la meditazione. Ero stanco di quella vita da studente, stanco anche delle feste, volevo conoscere e «controllare» meglio la mia mente. In quel monastero ho finito per rimanerci tre anni.
Come scorreva la vostra vita quotidiana e che cosa l’ha indotta a porsi delle domande sull’ecologia?
Agli stagisti venivano offerti vitto, alloggio e corsi di meditazione in cambio di lavoro. Quando sono arrivato, il responsabile, che si chiamava Alessandro, mi ha indicato tutte le mie mansioni: tenere in ordine i piani con le camere, passare lo straccio per terra ecc. È così cominciato il mio soggiorno. Tutto andava bene, poi, dopo tre settimane, Alessandro è dovuto andare per qualche tempo all’isola d’Elba. Gli ho chiesto: «Sta partendo?… E chi si occuperà del monastero?». «Tu – mi ha risposto –. Ecco le chiavi».
Ero un diciottenne e non avevo mai avuto prima di allora un qualsiasi incarico di responsabilità . E poi come ragazzo ero anche piuttosto disorganizzato… D’un tratto, dovevo gestire l’equivalente della logistica di un hotel da 140 letti con gruppi di decine e decine di persone che andavano e venivano in continuazione! È sicuramente la migliore cosa che mi sia mai capitata. È stata un’esperienza straordinaria.
Anche i malfunzionamenti della vita del monastero mi hanno dato molto. Ero frustrato nel vedere come una comunità che pretendeva di «operare per la felicità di tutti gli esseri viventi» sprecasse tanta acqua, si liberasse delle immondizie disperdendole nell’ambiente, e come i monaci producessero solo una piccola parte del loro fabbisogno alimentare, e così via. In seguito devono essere poi cambiate molte cose, ma all’epoca ero sconcertato da quella scarsa coerenza. È quel periodo che mi ha indotto a pormi la questione del legame tra la compassione e la gestione sostenibile delle risorse. Ho capito che l’altruismo spinge necessariamente alla protezione dell’ambiente, visto che dipendiamo tutti dalle risorse naturali e dalle condizioni di salute del pianeta.
Durante il mio soggiorno al monastero, un contadino del paese vicino – Pomaia, a trenta minuti da Pisa, sulle colline – veniva regolarmente a prenderci perché gli dessimo una mano. Senza rendersene conto ci ha dato l’opportunità di vivere gli ultimissimi anni dell’agricoltura contadina. Quell’uomo, Guido, 80 anni, piccolo e tanto largo quanto alto, con mani che sembravano badili, con la pelle callosa da una parte e cotta dal sole dall’altra, conduceva il suo podere da solo e, oltre ai prodotti che vendeva, naturalmente si coltivava gran parte del cibo che gli serviva per vivere – compresa l’uva per il suo vino. Possedeva un cavallo, una mucca e un po’ di galline. Mi aveva preso in simpatia e m’insegnava l’italiano. Aveva un vecchio trattore, dietro al quale dovevamo stare appesi in equilibrio per seminare mentre lui guidava e ci urlava le sue istruzioni. Lo aveva fatto per tutta la vita e per lui noi eravamo, probabilmente, solo degli inglesini buoni a nulla (risatina). Lavorava sodo giorno e notte per far girare il suo podere. Quell’uomo davvero notevole ha lasciato in me una traccia indelebile: sono rimasto segnato dall’integrità di quella vita e di quel lavoro. Quell’esperienza italiana è stata per me molto formativa e le primizie dell’idea di Transizione provengono in buona parte da quel viaggio negli anni Novanta.
Ha insomma preferito essere formato da monaci e contadini che da professori d’università . Scelta originale, per un diciottenne…
Sì, quell’esperienza nel mio percorso ha avuto la funzione di studio universitario. A quell’età , lasciare la propria città e Paese, vedersi affidare delle responsabilità , apprendere la disciplina di una pratica di meditazione da persone così integre, è un’esperienza straordinaria e fondativa.
A quell’epoca, un’intera generazione di lama tibetani – cresciuti nei monasteri, dove avevano memorizzato tutti i testi antichi – era fuggita dal Tibet invaso dai cinesi, attraversando a piedi l’Himalaya. I cinesi avevano distrutto seimila monasteri e dato alle fiamme montagne di libri. I rifugiati, una volta arrivati in India, si misero a recitare a memoria tutti quei testi e li riscrissero da capo, al fine di conservarne traccia. Hanno così salvato biblioteche intere. Trovo questo fenomenale! Ora, quando vivevo in Toscana incontrai molti di loro, specialmente durante i festival. Io ero andato là solo per imparare a meditare, ma in contatto con quei monaci il mio interesse per il buddhismo si è approfondito. Sono stato particolarmente segnato dall’ideale del bodhisattva, per il quale non c’è più grande felicità che vivere a servizio degli altri. I buddhisti spiegano pure che se c’è qualcosa che non va, la soluzione va cercata anzitutto dentro di sé, prima di cercare un colpevole. È l’idea forte che in seguito ha rappresentato lo zoccolo duro della mia visione di ecologia, ed è un asse portante del movimento della Transizione. In un momento in cui molti si accontentano di criticare i responsabili politici o le multinazionali, senza poi muovere un dito nel loro proprio perimetro, la Transizione propone ai cittadini di trovare nella loro vita tutto quello che possono mettersi a fare collettivamente per reinventare un quotidiano più compatibile con le sfide climatiche e più ricco in legami sociali.
Perché ha poi lasciato il monastero?
Alcune persone che si trovavano là mi hanno proposto un lavoretto in India: organizzavano un festival buddhista e mi hanno chiesto di occuparmi della vendita del tè. Ho finito per viaggiare per un anno e mezzo tra India, Cina e Tibet. Ho incontrato mia moglie e ci siamo stabiliti in Inghilterra, dove ho imparato la permacultura vicino a Bristol; l’ho poi insegnata in Irlanda per dieci anni, dal 1996 al 2005. All’inizio tenevo dei corsi serali più o meno informali, e intanto partecipavo alla creazione del primo ecovillaggio di quel Paese. Poi mi sono detto che sarebbe stato formidabile dare vita a un corso di permacultura all’università , un modulo ufficiale per un intero anno, cui ci si potesse iscrivere facilmente, esattamente come ci si iscrive a un corso di matematica, di sociologia o di storia. All’epoca non esistevano ancora programmi universitari di questo genere e ho quindi dovuto creare da zero il contenuto del corso. Un amico che insegnava arte drammatica all’Università di Kinsale mi ha consigliato di proporre il mio progetto a quello stesso ateneo, un’istituzione molto all’avanguardia. Il rettore mi ha risposto che non conosceva la permacultura, ma che l’argomento stimolava la sua curiosità . «Pensa di riuscire a mettere assieme una quindicina di studenti su un tema simile?», mi ha domandato, leggermente scettico. L’ho rassicurato e mi ha dato il suo accordo.
Il primo anno si sono in realtà iscritti in ventiquattro. Gli anni successivi, fra i trentacinque e i quaranta! Come si aprivano le iscrizioni, il corso era subito pieno di allievi! Dopo tre anni abbiamo aggiunto, all’iniziale modulo di un anno, un ulteriore anno opzionale, per rispondere alle attese di quei partecipanti che volevano saperne di più. Le lezioni vertevano su realizzazioni concrete: cisterne per trattenere l’acqua piovana, casette di paglia, orti… Quando abbiamo cominciato, la scuola era circondata da prati e aiuole. Abbiamo trasformato tutto, piantando alberi da frutta, facendo un pergolato e anche un anfiteatro naturale a partire dai materiali locali e dai vegetali – progetto che ha assorbito tutta una parte dell’ultimo anno di corso che ho tenuto. Il ruolo giocato dal rettore, con il suo modo di gestire le cose, è stato decisivo: ci dava grande fiducia e, se un primo progetto funzionava, ci concedeva facilmente l’autorizzazione per il successivo. Così l’ultimo anno, quando gli abbiamo chiesto di poter smontare la tettoia per le biciclette per farvi un anfiteatro naturale, ha dato la sua autorizzazione in base a uno schizzo disegnato sul retro di una vecchia busta all’ultimo minuto! In qualsiasi altra situazione avrei dovuto fare una valutazione dei rischi, ottenere il progetto da un architetto, fare un preventivo ecc. Lui non mi ha mai domandato nulla di tutto ciò. Questa università mi ha dunque offerto un «terriccio» inestimabile dove, senza ancora saperlo, stavo gettando i semi di un progetto più ampio.
Applicare la permacultura all’economia
Nel 2004 ha chiesto ai suoi studenti di utilizzare i principi della permacultura per rispondere alla sfida del picco della produzione di petrolio. Come avete proceduto?
Alla fine dell’anno, all’Università di Kinsale di cui stavo parlando, una persona mi ha passato un dvd sulla fine del petrolio: un documentario intitolato The End of Suburbia, che descrive il crollo del sogno americano a causa dell’esaurimento delle riserve di energie fossili. Nel film interviene anche Colin Campbell, biochimico e professore emerito all’Università Cornell, che viveva allora a due passi da casa mia. Gli ho domandato di parlare ai miei studenti, che hanno così visto il film e ascoltato lui, giusto all’inizio dell’anno successivo.
Il documentario e l’intervento di Campbell sono stati una rivelazione per me. Prima vedevo la fine del petrolio come una curva lineare, un grafico piatto che d’un tratto cadeva verticalmente, come se un bel giorno l’esaurimento dell’oro nero si dovesse materializzare con l’ultima goccia uscita dalla pompa di un benzinaio in qualche posto sperduto degli Stati Uniti. In realtà la curva della produzione di petrolio scende progressivamente dopo aver raggiunto il suo apogeo. Colpito dalla scoperta, ho domandato ai miei studenti di immaginare come il concetto di permacultura potrebbe aiutarci a costruire uno scenario che permetta alla città di Kinsale di conseguire due obiettivi tra loro connessi: affrancarsi totalmente dalla dipendenza dal petrolio per anticipare questa tappa e superarla più dolcemente, e mostrare che anche gli abitanti ne uscirebbero più sani e felici. Leggevo proprio in quel periodo il libro di David Holmgren Permaculture, in cui egli situa questa pratica nel contesto del cambiamento climatico e del picco del petrolio. Indica con una certa genialità la risposta che la permacultura potrebbe dare: l’applicazione dei suoi principi generali, fatta in particolare all’economia e all’organizzazione della società , può generare la grande mutazione di cui abbiamo bisogn...