ATTESA IRRAGIONEVOLE
C’è stanchezza. La vediamo nei volti, la sentiamo nei silenzi prolungati, la sentiamo anche in noi. Nessuno la dice, ma è palpabile. Nessuno ne parla, ma c’è. Non sempre, naturalmente, ma tante volte la si percepisce. Ed è normale che ci sia, da parte di tutti.
Questi ragazzi sono in una situazione di grande debolezza. Non sono ragazzi ospiti da noi perché… in Erasmus. Sono migranti in cerca di riconoscimento, fuggiti da situazioni durissime. E il riconoscimento tarda a venire.
È una situazione di forte logorio, prima di tutto per loro. Dipendono da noi per tantissime cose – che è come dire che noi abbiamo potere su di loro. Ed è verissimo. Naturalmente, in questa famiglia grande il potere si traduce in fiducia reciproca, ma è pur sempre vero che loro non hanno la vita in mano, sono nelle nostre mani, dopo che in quelle di Dio.
È una responsabilità grandissima e delicatissima, perché entrano in gioco tanti fattori.
E in questa accoglienza lunga non siamo aiutati dalle istituzioni, dalle leggi. Siamo aiutati dagli amici, certo, ma anche lo Stato dovrebbe essere presente in modo più pragmatico, perché in queste storie il logorio è l’elemento più rischioso.
I nostri ragazzi sanno di vivere una situazione di privilegio, perché essere in famiglia vuol dire essere accompagnati in ogni cosa in modo più efficace, è avere qualcuno, un papà e una mamma, che si prende cura di te, che ti ha a cuore.
Un giorno, ricordando quando erano arrivati da noi, Siaka ha detto che ha impresso nella mente il momento esatto in cui gli hanno comunicato che sarebbe andato in una famiglia: si stava lavando i vestiti quando è arrivato l’operatore della cooperativa a dirgli la novità. Incredulo, ha subito rivolto a Dio il suo ringraziamento. «Allah è grande», ha esclamato.
Ma noi, più di quello che stiamo facendo non possiamo fare per accelerare i tempi di riconoscimento dello status di rifugiati, o per portare avanti il ricongiungimento familiare. Si direbbe che, anziché venire incontro, le istituzioni pongano sempre nuovi ostacoli.
Ecco cos’è lo stallo che avvertiamo tutti. Acqua che ristagna.
Allora Antonio ed io ci diamo da fare per rimotivare i ragazzi, e proprio come i capitani di una nave che sta naufragando impartiscono nuovi ordini ai marinai, noi condividiamo con loro le preoccupazioni, spieghiamo nuovamente, passo passo, l’iter che stiamo seguendo… Ma ogni volta che torniamo a spiegarlo, con l’unico intento di dar loro l’idea che si sta facendo qualcosa di concreto, ci rendiamo conto dell’assurdità di come le cose vengono portate avanti.
Noi procediamo, confidando in Dio, insieme a loro.
Papà…
Qualche sera fa ho visto Sahiou molto teso, così mi sono fermata in cucina a parlare con lui. Generalmente non parla di sé, è molto orgoglioso e riservato sulle sue cose. Ma quella sera ho intuito che aveva bisogno di parlare. Gli ho chiesto cosa ci fosse che non andava.
Era arrabbiato con i suoi genitori. Gli dicono che suo figlio si comporta male, che lui non era così da piccolo e lo picchiano perché non obbedisce e urla sempre.
«Non voglio che usino le mani, così ho detto a mio papà che Modou è figlio mio, non è suo, e deve fare come dico io». Ho pensato alla sua fatica di essere papà a distanza.
«Però devo dirti, mamma, che sono preoccupato anch’io, perché Modou urla sempre, fa quello che vuole, non obbedisce, e quando io cerco di parlare con mia moglie lui ce lo impedisce piangendo. Certe volte penso che sia matto. Io non ero così, forse lui ha qualcosa nella testa che non va».
Si muoveva nervosamente per la cucina mentre parlava. Era in difficoltà e soffriva. Ho cercato di consolarlo: «Modou è piccolo, ha soltanto un anno e mezzo, ci vuole pazienza, tanta… Certamente la violenza non serve a niente, fai bene a dirlo a tuo papà. Se si usa violenza, lui imparerà che è normale usare le mani. Vedrai che quando sarete insieme sarà tutto più facile (ma questo l’ho detto con un po’ di sofferenza, sperando di non rinfocolargli la ferita), lui ha bisogno di te e tutto sarà più facile. Non farti venire strane idee su Modou».
«Non mi conosce, non riconosce la mia voce, non sa che sono suo papà», mi ha detto. Quanta sofferenza in queste parole. Che brutta la lontananza…
«Quando mia moglie gli passa il telefono, lui, che fino a un momento prima faceva una confusione terribile e ci impediva di parlare, ammutolisce, e se Fatou gli dice “saluta il papà”, lui sta zitto».
«È normale, un bambino ha bisogno di vedere, non è normale per i bambini così piccoli sentire la voce dal telefono senza vedere la persona. Tutti i bambini fanno così».
Sahiou è rimasto un attimo in silenzio; poi, abbozzando un sorriso mi ha confidato una gioia profonda. «Sai che oggi, per la prima volta, quando Fatou gli ha detto “saluta il papà”, lui all’inizio è stato zitto come sempre, poi di colpo ha detto: “Papà…”. E io ho sentito qualcosa qua». E si è messo la mano sul cuore. Che commozione.
«Dobbiamo pregare Dio che ci riunisca».
«Sì, preghiamo per questo».
Inshallah.
Quanti siamo stasera?
Questa domanda, così semplice, è in realtà piuttosto difficile, qui da noi.
Prima di preparare la tavola i ragazzi mi chiedono sempre: «Mamma, stasera quanti siamo?». E io comincio a contare per categorie, colore della pelle, genere, età, attività serali…
Ma è un’operazione incredibilmente complessa. Poche volte sappiamo esattamente in quanti ci siederemo realmente a tavola. Minimo otto, massimo quattordici. E questo perché c’è chi si ferma a mangiare dall’amico, chi invece porta l’amico, chi ha allenamento di calcio, chi invece, tra i calciatori, quella sera non va a giocare. Il numero è sempre fluido. È una matematica non soggetta a regole!
Ma quando si è sempre in tanti, un posto in più o in meno non fa poi la differenza.
Un giorno, nel primo periodo di convivenza, Siaka mi ha chiesto: «Perché chiedi sempre quanti siamo? Noi in Africa non ci preoccupiamo per quanti preparare il riso. Ne prepariamo tanto e chi arriva mangia. Ne prepariamo sempre in abbondanza, così anche il povero che passa può trovare qualcosa e mangiare».
Vita più semplice, essenziale, che non fa perdere di vista l’altro, pur nella povertà.
Grazie a voi
Mohamed si è fatto male a un occhio lavorando il legno; una scheggia è entrata e uscita nell’occhio sinistro, ma ora la cornea è molto arrossata e ho deciso di portarlo al Pronto soccorso.
Seguo tutta la trafila del triage, vado dove mi dicono, cioè in ambulatorio oculistico.
Quando è il nostro turno ci accoglie un dottore giovane e sorridente. Mi chiede, tra le altre cose, chi sono io per questo ragazzo. Non so bene cosa rispondere, non posso certo dire che per lui sono la mamma, così dico: «Viviamo insieme». «Lo ospita?», chiede il dottore per capire meglio. «Sì, insieme ad altri cinque ragazzi». «Ma fate parte di un progetto?». «No, l’anno scorso abbiamo aperto la nostra casa a sei migranti», rispondo veloce ed evasiva, come se stessi dicendo la cosa più normale del mondo.
Poi aggiungo, giusto per correggere un po’: «Avrà sentito parlare sicuramente di noi, siamo stati sui giornali per mesi». «A dire il vero no, sono qui da poco. E così hanno parlato di voi…». «Sì, inizialmente siamo st...